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Autore: Francine    02/03/2016    4 recensioni
Ci sono storie che nascono da sole, mentre tu stai facendo qualcos’altro. Succede all’improvviso: il tuo cervello segue un pensiero e tu ti ritrovi a rincorrerlo come il gabbiano che si alza in volo perché ha visto un pesce guizzare argentino tra le onde del mare.
Ci sono storie che non sono buone per farci il brodo, e dare sapore ad una zuppa già avviata. Storie che stanno bene da sole, sì; ma che se le metti in girotondo con le altre si divertono di più. E splendono di più. Come un giro di perle al collo di una ragazza. Storie che ti vengono in mente voltando le carte sul tavolo. Storie che ho raccolto in questo mazzetto di tarocchi, in maniera casuale, nella speranza di farvi piacere.
 
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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#11 – Palpitare lontano di scaglie di mare
Lama XV– Il Diavolo
Personaggi: Gemini Kanon



 
Il mare in autunno ha il suo fascino deliziosamente nostalgico. Le onde sembrano chiamarti mentre battono contro gli scogli, ancora e ancora e ancora. Non si sgolano, no; ma insistono, convinte che, prima o poi, tu cederai. Abbandonerai scarpe e calze, ti arrotolerai il fondo dei calzoni ed entrerai in acqua. E poco importa se il solo pensiero, adesso, ti fa accapponare la pelle. È questione di un attimo, uno solo. E poi farai tutto da te. Avanzerai. Un passo alla volta. Fino a farti abbracciare da quelle gigantesche mani di ossigeno ed idrogeno.

Sì, il mare canta, e la sua voce diventa più struggente in autunno, quando la spiaggia si svuota dei bagnanti e del loro chiasso e resta solo il vento a farle compagnia. Un controcanto di aria e salsedine che ti accarezza il mento, gioca coi tuoi capelli e ti sussurra dolci promesse all’orecchio. Sai che c’è un regno, sotto l’azzurra cupola del Tirreno? Un regno perduto e dimenticato che aspetta il suo re, con svettanti palazzi di calcedonio e corniola, rigogliose foreste di alghe ed attinie, e coralli lungo i viali lastricati di marmi dalle venature dorate?

Viktoras sa che è tutto vero. Lo sa perché ha visto coi suoi occhi quel mondo. Ci ha vissuto. Lo ha retto in nome di Poseidone, per tredici, lunghi anni. Ed ha atteso, con pazienza, che i tempi fossero maturi. Viktoras lo conosce. Saprebbe come tornarci in un batter d’occhio. Dovrebbe immergersi. E ritrovare il passaggio per la Colonna dell’Atlantico Settentrionale. La sua colonna. Sarebbe un po’ come tornare a casa, in un certo senso. Ma Viktoras sa bene quanto certi ritorni possano essere pericolosi. Possono piombarti le gambe ed il cuore. Ed impedirti di andartene. Ti aspettano, come le esche che un cacciatore esperto piazza per attirare le sue prede in trappola. Ti illudi che basti essere veloci. Veloci e delicati e oplà, l’esca sparisce nella bocca della preda senza che il meccanismo scatti. Ma che succede quando la tua mano – il tuo cuore – indugia troppo a lungo su quel boccone succulento – che sarebbe davvero un delitto lasciarlo lì! –? Succede che la trappola fa il suo lavoro. Sarebbe un peccato lasciar andare una preda così ghiotta, giusto?

No, Viktoras non cederà a quel richiamo. Viktoras resisterà. Se ne resterà seduto sul muretto, i piedi a penzolare sopra la rena umida, ad osservare le onde brillare d’argento sotto il sole del primo pomeriggio, mentre il vento gli fa il solletico e gioca con il bavero della sua giacca di velluto. Viktoras la odia. La trova scomoda, ma in certe occasioni l’abito fa il monaco. Soprattutto nelle missioni diplomatiche.
La prima impressione è quella che conta, e anche se questa mattina a Viktoras è sembrato di vedere un leone inguainato in un vestito da clown dall’altra parte dello specchio, Viktoras è entrato in quella trattoria sul lungomare armato del migliore dei suoi sorrisi e delle peggiori intenzioni possibili.

Il mare insiste con il suo richiamo, ma oggi non è aria. Viktoras ha troppe cose di cui occuparsi, mentre la moglie di Salvucci spazza la terrazza e sua figlia sistema delle tovaglie pulite in attesa di clienti che non verranno. Digerire il banchetto luculliano a cui è sopravvissuto – e lode, lode, lode alle linguine allo scoglio della signora Lucilla e a quel vinello bianco che scendeva in gola come fosse ambrosia – inquadrare la Corte di Pyrgi – amici o minaccia? – pensare all’incolumità di Saori – Athena – ed evitare che Julian – Poseidone – la rapisca di nuovo. O le chieda di sposarlo, ché, si sa, con questa brezza frizzantina che spira da Ponente e questa luna che si affaccia timida e bianca nel cielo terso, tutto è possibile. Specie se a tavola hai alzato il gomito.

Eppure, il mare insiste a corteggiarlo. Anche se lo sa che no, lui non verrà, che no, lui se ne resterà con le chiappe ben incollate a quel muricciolo scaldato dal sole di mezzogiorno, che no, per oggi non se ne parla proprio di un tuffo fuori programma. Dove l’acqua è più blu, come canta la voce da gatto castrato che esce dalla radio accesa. Eppure, il Tirreno si balocca con un motivetto a fior di labbra, che il vento ripete con la precisione di un sensale scrupoloso. Canta e va per la sua strada. Anche se entrambi sanno benissimo che si tratta di una canzone da sirena, buona per irretire quei marinai che sono stanchi e vogliono riposare un po’, anche se solo per cinque minuti, anche se solo su uno scoglio piatto in mezzo al mare.

Ma Kanon non è stanco. Viktoras? Viktoras, forse. Ma Kanon, no. Kanon sa che lo aspettano altri legni, altri approdi, altre traversate. Ed entrambi – e Kanon, e Viktoras - sanno che non si può tornare indietro. Perché è pericoloso. Perché quello che ci siamo lasciati alle spalle non esiste più. Perché il passato è una chimera fatta di cocci di bottiglia, luccicanti se il sole vi passa attraverso, ma taglienti a maneggiarli con poca attenzione. Cenere. Detriti. Scaglie di mare. Lische levigate. Questo troverebbe. Su questo, regnerebbe. Un mucchietto di sabbia colorata. E allora, no, grazie, ma no, grazie.
Meglio restarsene all’asciutto, i piedi a dondolare e il vento tra  capelli, ad ascoltare una canzone che si conosce a menadito – pause, intonazioni e ritmo – per portare vivido il ricordo di quelle scaglie di mare che luccicano laggiù, all’orizzonte, nella quiete irreale del primo pomeriggio.
   
 
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