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Autore: Coffee_Time    03/03/2016    3 recensioni
Frank, semplicemente, non ha voglia di andare a quel matrimonio.
Non da solo.
[Dal testo]
«Allora, hm… voi state insieme?»
Gerard diventa un peperoncino, e prontamente risponde: «Non- No.»
Insieme. Oddio, siamo insieme, ma non stiamo insieme. Non- No. Proprio come ha detto Gerard.
«Cosa te l’ha fatto pensare?» gli chiedo io.
Ci guarda, guarda sia me sia Gerard nello stesso momento, come se fossimo un’unica cosa. Non so come ci riesca. «Sembrate una bella coppia.»
«…di amici.» puntualizza Gerard, valorizzando lo scetticismo con un sopracciglio espressivo.
«Chi può dirlo?» detto questo, ammicca e scompare tra i suoi cavi e fili.
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Un po' tutti | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ehi, ciao!
Sono… lenta, sì.
Non sto neanche a sprecare tempo per scuse varie (:

 

 

 

 

 

Our lives dictated by tradition, superstition, false religion

Innuendo, Queen

 

 

 

Le parole e le risate acquisiscono sempre più spazio nella mia mente, e da un semplice brusio tutto è immagini.
Nel prato vicino all’ingresso del ristorante vedo un tavolo che sostiene la possente torta nuziale – nel pieno stile di mia cugina. Le persone si addensano da quelle parti e nelle zone circostanti, alcune con piattini o bicchieri tra le dita.
Non abbiamo assistito al taglio della torta. Che peccato.
Ottenute le torte continuiamo a camminare in questo luogo circoscritto. La torta è molto buona, con la crema al mascarpone dentro ed altre cose sul bianco di cui più che l’identità mi interessa il sapore.
«Potremmo ubriacarci.» Propongo. «Tanto qui non c’è niente da fare…»
La prima idea malsana che dai neuroni mi è balzata direttamente fuori dalle labbra, sicuramente. Ne è conferma lo sguardo confuso di Gerard.
«Non credo sia la cosa più appropriata da fare.» Con il naso e le labbra fa una mossa da coniglio involontaria, molto tenera, per esprimere la scarsa convinzione.
Ci penso qualche attimo, guardando i fili d’erba che subito vengono coperti dalla mia scarpa. «Già, forse h-»
Sento un rumore stranissimo, e mi sento come uno di quei famosi corpi che viene disturbato dal proprio stato di movimento dall’intervento di una forza esterna – o quello che è. Un principio della dinamica, o dell’inerzia?
Mi ritrovo dei fiori sulla torta, e occhi truccati su gran parte del corpo.
Una ventina – ma forse di più, chi vuole saperlo? – di donne mi guardano chiedendosi come agire.
Guardo il mio piatto, pensando che tutti questi fiori vivaci non potranno avere il sapore della torta.
Oltre le risate di Gerard sento le parole di mia cugina avvicinarsi: «Scusami Frank, devo averlo lanciato troppo storto.»
Guardo ancora il bouquet, sporco di torta.
«No, scusami tu, ero in mezzo.» Le porgo i fiori, rattristato per la sorte della mia fottuta torta, e mi sforzo di farle un sorriso cortese per dimostrarmi gentile, almeno oggi che – in teoria – dovrebbe essere una data per lei memorabile.
Sicuramente lo sarà per me. Sono stato aggredito da un fottuto bouquet.
Il gruppo di scapole le zampetta fiduciosamente dietro, ma interrompo il mio interesse per quelle vane azioni e torno a dispiacermi per il buon cibo che dovrà essere gettato via.
Lo punzecchio con la forchetta, rassegnato. «Ma porca tr
«Puoi prendere la mia fetta, se vuoi.»
Spero non stia sottovalutando il proprio gesto.
Devo chiedere ad Elisabetta – o qualsiasi sia il nome della regina attuale – di investirlo come cavaliere.
«Non posso, davvero…» Gli riavvicino il piatto ed indietreggio, diretto al tavolo della torta. Che in realtà è pieno anche di frutti e dolcetti assortiti, ma quelli non mi interessano.
Presa una nuova, intatta, fetta, torno da Gerard e gli dico subito di allontanarci per evitare spiacevoli incidenti.
«Non credi sia un’usanza da disperati?»
«Parli del matrimonio o del lancio del bouquet?» Ovviamente intendeva il lancio, ma ho voluto dire una cosa divertente nella speranza di vederlo sorridere, come infatti sta facendo.
«Il lancio del bouquet. Tutte quelle tizie dovrebbero aspirare a qualcos’altro, oppure trovare altri modi per conseguire i propri scopi.»
«Hai ragione. Ma non credo che lo facciano tutte nella speranza di sposarsi, voglio dire, non c’è un cazzo da fare qui, almeno quello è un modo per divertirsi.» Anche per questo odio le cerimonie, troppo formali, troppe cose inutili e noiose.
Mi guarda e dopo un paio di secondi di ragionamento annuisce.
«Frank, l’hai preso tu il bouquet, quindi?»
«No, è stato lui a prendere me.»
«Allora possiamo iniziare una nuova tradizione: chi viene colpito dal bouquet, invece di sposarsi, partecipa ad un matrimonio.»
Lo guardo, e rido.

 

 

΅΅΅

 

Pare che la credenza inventata da Gerard sia corretta: alla fine – non che sia strano da credere – ho confermato il fatto che andrò al matrimonio di Micheal con lui. Così si chiama il fratello, forse ha anche un altro nome ma al momento non lo rammento.
Il secondo di Gerard invece sì: Arthur.
Non so che paio di genitori eccentrici abbiamo deciso di chiamare il proprio primogenito Gerard Arthur, per poi optare per un più semplice “Michael” seguito da qualcosa di altrettanto semplice.
Potrei chiedere a Gerard di parlarmi delle origini del suo nome e di quelle del fratello, se ne ha voglia.
Già, il matrimonio è stato tre giorni fa e oggi io e Gerard ci incontriamo per pranzo.
Senza validi motivi, ci siamo accordati per passare un paio d’ore insieme dal momento che saremmo stati liberi entrambi.
Dovrebbe arrivare a minuti – secondi.
Ho deciso che non gli chiederò niente riguardo al nome. Perché sento che io e lui diventeremo amici e quindi avrò ancora molto tempo per scoprirlo, magari per caso. E se dovessimo allontanarci, sento anche che farò tutto ciò in mio potere affinché non accada.
Questo posto è abbastanza pieno di persone, alcune mi guardano e anch’io ogni tanto guardo qualcuno. Chissà cosa pensano di me. Un ragazzo con una felpa verde scuro, una mezza cresta storta in testa, e lo sguardo vago.
Io, ad esempio, quando vedo qualcuno mi limito a sperare che non abbia una vita patetica.
Tutte queste vibrazioni dell’aria mi urtano il corpo e mi entrano dentro, creando un po’ di confusione dove capita. Chiudo gli occhi per estraniarmi, un minimo, da questo luogo destabilizzante.
Tutto diventa brusio, quasi un sottofondo che mi rilassa e pian piano disperde il mal di testa.
Quando il brusio inizia ad affievolirsi, apro gli occhi.
Gerard è a due metri da me. Io sono seduto, lui è in piedi. Lui sembra confuso, io sono spaventato. È un mago, in pratica.
«C-Ciao Gerard.» Perfetto. Balbetta pure, Frank.
Intanto si è avvicinato, e le luci aranciate che si gettano su di lui lo fanno quasi sembrare vivo. Trovo molto affascinante la sua pelle candida e liscissima, come se la pubertà non gliel’avesse mai intaccata.
«Ehi Frank. Tutto bene?» Si siede, direzionando subito il proprio sguardo verso i miei occhi.
«Sì, avevo un po’ di mal di testa e -» no, non posso parlargli del brusio «niente. Prendi qualcosa, ti aspetto.» Cambio argomento, poi rimango fermo come il panino che mi sta davanti.
Annuisce, poi si alza – e la sedia non stride contro il pavimento, grazie ad un’altra magia – e dopo essersi girato va nella zona della cassa.
La giacca nera che indossa è attillata al punto giusto, facendogli sembrare la schiena una bella schiena. Sono sicuro che chiunque, in questo bar, gli veda la schiena abbia la voglia di appoggiarvici sopra la mano, di farla scorrere verso il collo e appena sotto le scapole. Se ce l’hanno tutti, ce l’ho anch’io. Un semplicissimo sillogismo per non farmi sembrare un maniaco.
Il mio panino è caldo, ma non brucia, lo so perché l’ho appena toccato.
Rimango con le braccia timidamente sotto il tavolo per qualche minuto e quando Gerard arriva le uso per prendere il panino.
Mentre mastico provo a non osservarlo, il che sembra più facile di quello che sembra, perché non lo vedo da tanto tempo ed è proprio di fronte a me. Troppo tempo? Tre giorni al massimo. Zittisco la ragionevole vocina nella mia testa.
Dopo aver inghiottito il primo morso, gli dico: «Ehm, allora… parlami di tuo fratello.»
Mi guarda, sorride, furbamente. Con tono altrettanto furbo dice: «Pensandoci bene, forse sarebbe meglio se non ti dicessi niente su di lui.»
«Okay, fai come vuoi.» Addento il panino. Non ho la minima intenzione di dargli corda. Ora chi è che sorride furbamente, eh? Ha!
«Ha gli occhiali,» afferma, come se stesse lanciando una sfida. Faccio un cenno disinteressato e aggiunge: «sono neri.»
«Ho capito, Gerard, se vuoi che rimanga una sorpresa cambiamo argomento, non è così importante.» Ed è quello che penso, l’idea del fratello sorpresa mi sembra carina.
Mi sto immaginando Gerard con gli occhiali: dalla montatura semplice, nera, lenti non troppo grandi, magari rettangolari. Con i bordi arrotondati, ovviamente, ma al punto giusto. Lo vedo, con gli occhiali, che scruta un menù. La luce che si abbatte sulle lenti provocando luccichii.
No, non mi va bene: i luccichii comprometterebbero l’immagine che noi poveri mortali possiamo osservare dei suoi occhi.
Si sarà capito, ma tengo ai suoi occhi.
Un po’ perché li ho sempre trovati una parte del corpo interessante, un po’ perché tra le tante cose che sento, sento anche che i suoi sguardi siano capaci di comunicare molte cose, e in momenti di silenzio questo risulterà fondamentale.
In generale, Gerard con gli occhiali mi sembra una visione comica.
Comunque sia, lui è davanti a me e per fortuna non indossa nessun tipo di occhiali. Per un attimo, breve, gli guardo gli occhi; me li ricorderò a lungo.
Mangiamo i nostri panini, per un po’ in silenzio. Se non contiamo i vari rumori provenienti dal resto del bar, come il ronzio dei frigoriferi, gli arrivederci del ragazzo alla cassa, e i mille discorsi vani delle persone sedute, come me e Gerard, ai tavoli.
Probabilmente tra circa un minuto uno dei due romperà il tranquillo silenzio che ci separa, ed unisce. Ciò significa che ho più o meno cinquantasei secondi per studiare il suo modo di mangiare: ha preso il panino con entrambe le mani, ma lo tiene usando solo le punte (le sue mani sono… non ha le dita tozze, il che le rende eleganti, in un certo senso. Tuttavia hanno qualcosa di strano, non sembrano uniformi. Potrei passare diverse ore ad analizzarle, ad immaginare di toccargli le vene sporgenti sul dorso) e oltre ad avvicinare il panino alla bocca, avvicina anche la bocca al panino. I morsi sono normali, al contrario di quelli con cui molti fanno fuori un terzo del panino.
Nel complesso, direi che non ha un modo particolarmente inusuale di mangiare i panini.
Non so perché lo faccio – parlo della mia abitudine di studiare le persone –, se per noia o per qualche disturbo mentale mio. Potrei essere uno psicopatico, potrei diventarlo. Magari ho già ucciso qualcuno ma non me lo ricordo. Magari Gerard non esiste ma sono schizofrenico.
O, più verosimilmente, dovrei farmi meno paranoie.
Almeno per evitare di perdere secondi preziosi di studio minuzioso.
I secondi passano. O almeno, questo è quello che la mia percezione del tempo mi comunica. Non ho idea di cosa sia il tempo, una convenzione?
I secondi – qualsiasi cosa siano – passano e il minuto sta per scadere.
«Mi piace la tua maglietta.» Gli dico, perché ha una bella maglietta, nera, con forme rosse e bianche che formano il viso di Freddie Mercury.
Potrebbe essere stato un errore, nel caso gli abbia ricordato un ragazzo sfacciato senza fantasia che prova a fare colpo su una ragazza facendole i complimenti per la scelta del vestito, selezionato con attenzione.
Ma io non ci sto provando, Gerard non è una ragazza – penso –, e non è stato due ore a scartare magliette e pantaloni dal proprio armadio – penso.
«Ehm, grazie,» risponde a bocca quasi vuota «anche la tua è bella.» Conclude in un semi-stato di imbarazzo, accennando alla mia felpa dei Blues Brothers.
Ora che il silenzio sembra volersi impossessare della nostra conversazione, sarebbe banale continuare con le citazioni alludendo al famoso discorso sul silenzio fatto in Pulp Fiction.
Tagliandola corta, comunque, penso che i silenzi con Gerard non saranno mai imbarazzanti. Chissà perché, non lo trovo difficile da credere: è da quando lo conosco che non faccio altro che dargli punti amicizia.
I punti amicizia li ho appena inventati, non è difficile capire cosa siano.
Ho capito che i punti amicizia sono una gran cretinata, hanno un brutto nome, il concetto alla base è debole.
Niente punti amicizia.
Mi limiterò ad apprezzarlo e ad enumerare le caratteristiche che più mi piacciono del suo carattere, del suo corpo e del suo modo di pensare. Forse, più avanti, di qualcos’altro. Ora non mi viene altro in mente.
I silenzi con lui non saranno mai imbarazzanti? No. Non lo saranno.
Cosa sarà imbarazzante? Fare questi pensieri mentre nessuno dei due parla.

 

 

΅΅΅

 

Da quando sono stato al matrimonio, ho pensato sempre meno a Jamia.
Non mi sorprende: a parte qualche occasionale piacevole ricordo, mi ha lasciato un senso di vuoto.
Il senso di vuoto è positivo, dirà qualcuno, significa che quella persona è stata talmente tanto importante per me da aver lasciato una voragine, quasi incolmabile. Che l’amore è stupendo e quando ne veniamo privati ci sentiamo destinati alla morte, alla fine, al decadimento. Che… boh, altri cliché simili.
No, il vuoto che sento è una sensazione di inutilità.
Proprio come quella che si prova dopo aver letto un libro brutto – per noi.
Si è combattuti tra il presentimento di aver sprecato del tempo e la voglia di fare – o leggere – qualcosa di migliore.
È così che mi sono sentito quando è uscita dalla mia vita, più o meno.
Inutile. Un po’ sollevato. Confuso.
Anche arrabbiato, ma quello passa molto presto.
Dovrei sentirmi una cattiva persona a pensare queste cose? Non mi interessa, sinceramente, non per queste cose.
I sentimenti più duraturi, per quanto mi riguarda, sono quelli che consumano lentamente. Il senso di inutilità è un buco che piano piano ti mangia, da dentro.
Bisogna combatterlo, basta non rimanere fermi.
Per questo motivo penso che Gerard mi abbia aiutato molto, senza fare nulla di speciale. Sto bene in sua presenza, tutto qui.
Mi sento sereno, dimentico il senso di inutilità e cazzi vari.
Ogni volta che penso a come ci siamo conosciuti, rimango perplesso per almeno un minuto intero.
Davanti ad una chiesa.
Gli ho parlato per gioco, quasi.
Abbiamo passato una giornata insieme perché ci andava.
Non abbiamo mai combinato nulla di sensato, gli eventi hanno continuato ad avvenire senza chiederci il permesso di coinvolgerci.
Abbiamo agito come due masse in un sistema dinamico, che si muovono ma non sanno il perché. Solo il fisico conosce – e prevede, magicamente – i loro movimenti, e il principio a cui sono soggetti.
Io e Gerard siamo le masse. O, in alternativa, gli alunni che prendono una bella E.
In tutto questo, la mia sveglia intelligente non ha ancora capito che non ho voglia di alzarmi.
È domenica. Il mio giorno di libertà. Come osa trillare ogni cinque minuti da un quarto d’ora, dico.

 

 

΅΅΅

 

Siamo abbastanza vicini, e vedo una linea azzurra o verde risalirgli per il collo, tra la pallida cute, che poi scompare. È pieno di quelle linee, ma io posso vederne solo alcune, e non mi rimane che pensare al sangue in continuo movimento che le occupa, e scorre sempre nello stesso verso. Arriva al cuore, viene ossigenato, trasporta i globuli, ci permette di vivere. In qualche modo, siamo vivi.
Siamo carne, siamo cartilagine, ossa, tendini che ci permettono di rimanere attaccati, siamo sangue, siamo cellule. E mi chiedo come un essere formato da due terzi di sola acqua sia in grado di fare tutti questi pensieri.
Dai pensieri nascono le domande, e mi chiedo se questo è perché abbiamo un’anima. Oppure, il pensiero è un qualcosa che abbiamo sviluppato in migliaia di anni di evoluzione. La verità è che non credo di possedere le capacità per capire veramente come le cose funzionino. Mi sento un filosofo complessato ad arrivare a conclusioni – conclusioni, proprio – simili.
Comunque sia, l’idea di avere un’anima mi ha sempre rassicurato. La vedo come un fantasmino che mi anima, e che costituisce il mio vero me. Poi, i fantasmi sono fighi. Ammettiamolo.
E il sangue continua a scorrere, e noi a correre.
E io ho ancora lo sguardo sul suo collo, soffermandomici sopra noto il suo aspetto liscio. Adesso ho una fortissima voglia di toccarlo, grandioso.
Che poi perché proviamo interesse per ciò che è liscio e morbido? È una specie di ricerca inconscia della perfezione? Boh. E perché associamo la perfezione alle cose senza buchi o escrezioni o simili?
Se proprio volessi rovinarmi la giornata, potrei stare qui a pensare a come i sensi dell’uomo funzionino. Ad esempio la vista, il tatto. È tutta questione di neuroni, recettori, riflessione della luce, retine… cose che non mi hanno mai convinto.
Smettila Frank.
A proposito di sensi, non senti che Gerard sta parlando?
«Frank, allora?»
Lo guardo. Negli occhi, intendo. Nei suoi bei bulbi oculari per cui ho una strana fissazione.
Allora? Faccio un verso per fargli capire che, mi dispiace, non ho sentito proprio un cazzo di quello che hai detto.
«Ti va di alzarci e prendere un gelato?» Chiede, e i capillari sulle sue gote si ingrossano un pochino, e lui sembra quasi imbarazzato. Frank, smettila con la biologia.
Cos’è, Gerard, hai una cotta per me?
«Uhm, certo!» Adoro i gelati.

Siamo davanti ad un chiosco, in questo triste parco.
Non c’è fila, allora gli faccio un veloce sorriso di incoraggiamento, come quelli che sono sicuro i padri rivolgano ai figli prima del saggio di danza – sono quei sorrisi che dicono: “Dai, su, ti ho portato a prendere lezioni due volte a settimana rinunciando a Top Gear, lo so che ballerai benissimo.”
Gerard compra con successo un gelato a caffè, gusto giallo e gusto bianco. Chi è quello sfigato drogato (di caffè) che assume caffeina anche tramite i gelati?
Io mi prendo un cono ipercalorico.
Decidiamo di tornare sulla panchina, su sua richiesta. Dice di trovare complicato mangiare un gelato mentre cammina, è un processo che richiede concentrazione. Gli do ragione.
«Ehi, ma… la tua ex? L’hai più risentita?» Dice, guardandomi di fuggita poco prima di metà della frase.
Gerard, stai provando a confermare le mie assurde tesi? Mi leggi nel pensiero? Hai sul serio una cotta per me?
Non voglio ragionarci su. Non c’è niente da ragionare, ovviamente non ha una cotta per me.
«Jamia? Hm. No.» Mi viene, per un attimo, in mente lei. Il sorriso, i capelli, la parlantina. «Una volta, mi aveva chiesto se sarei andato ad una festa – il compleanno di una nostra amica. Non ne avevo voglia e non sono andato. Cioè, non che non avessi voglia di vedere lei, volevo solo stare in casa e così ho fatto. Le voglio bene, non ho motivo di evitarla.» Ed è così. La inviterei a bere una birra da qualche parte, un giorno, se non trovassi il pensiero un po’ bizzarro.
«E ti manca?»
«Nah.» Guardo davanti a me, il niente. «E tu, Gerard? Niente ragazze?» Dico girandomi verso di lui.
Alza le spalle.
«Ragazzi?» Alza le spalle di nuovo, sorridendo.
Mi stiracchio, perché negli ultimi mesi la vita è stata un po’ faticosa da gestire e ogni tanto il mio corpo me lo ricorda.
Mi alzo, chiedendogli in silenzio di passarmi il suo tovagliolino, lo prendo e lo butto con il mio nel cestino a pochi metri dalla panchina.
Quando mi risiedo, chiedo: «Gee, posso dormirti sulla spalla? Sto morendo di sonno.»
«Ascoltiamo un po’ di musica?»
Annuisco, già appoggiato a lui. Mi porge una cuffietta, la prendo senza vederla e il veloce contatto mi informa sulla fredda temperatura delle sue dita.
Con una mano mi accarezza i capelli due volte, e mi sento un bambino.
Partono i The Smiths, appoggia la testa sulla mia e per prendermi in giro mi dice qualcosa simile a “Buona notte, piccolo Frankie”, che mi fa sentire ancora più bambino.
Il tempo non si muove, perché non so cosa sia, mentre le canzoni si susseguono.
Mi ritrovo a sorridere alla brezza.
Conosco Gerard da qualche settimana e non ha ancora fatto niente per confermare l’ipotesi del piromane posseduto da Satana. Farei meglio ad accantonare quell’ipotesi.
Nel buio delle mie palpebre lo immagino ancora più pallido, con occhi follemente rossi. Devo ammettere che la cosa mi disturba meno di quello che una persona standard penserebbe. Prima o poi glielo dirò, di questa mia strana idea. Potrebbe considerarla divertente anche lui e farmi un bel disegno, visto che ne è capace.
Ma per quanto possa sembrare carino in versione demoniaca, preferisco il Gerard che in queste settimane si è dimostrato essere; con gli occhi particolari e tutto il resto.
Dev’essere davvero figo nascere con le iridi rosse.
Dev’essere davvero figo anche dal punto di vista medico.
Allarmante, persino.
La brezza continua a spostarmi i capelli.
Mi sono stancato di stare qui a poltrire, la musica mi sta infondendo il bisogno di agire, al contrario di quello che mi ero aspettato.
Tocco un fianco di Gerard, con un dito, come se fosse un panino di cui devo controllare la temperatura. Sento la mia testa alleggerirsi, poi la alzo.
La sua faccia. Un po’ mi era mancata, in questi minuti. La sua espressione interrogativa.
«Gee,» la canzone finisce, mi tolgo la cuffietta «ti va di fare una passeggiata?»
Sbatte le palpebre un paio di volte, guarda l’ambiente alberato e scarsamente affollato che ci circonda – o il vuoto e basta – e annuisce, arrotola le cuffie, le mette in tasca, si alza.

 

 

΅΅΅

 

La sua macchina è come lui.
Non molto grande, nera, carina. Infonde fiducia. Così simile a lui che temo l’alimenti a caffè . Neanche a pensarlo, dentro c’è odore di caffè.
È avvolgente, come la presenza di Gerard – sarà legato alla fiducia che infonde.
Guida cautamente, ma per fortuna ad una velocità superiore a quella dei vecchietti. Cioè, non che mi dispiaccia stare in macchina con lui, ma le mamme con tanto di passeggini che ci superano preferirei evitarle.
Quando guido provo sempre a concentrarmi sulla strada rendendo le mie azioni automatiche, se divago tra i miei pensieri mi viene il terrore di sbagliare qualche manovra e causare un incidente.
Proprio come quando gioco a biliardino: appena mi distraggo mi rendo conto di essermi distratto, e nel momento in cui mi concentro di nuovo sul gioco, perdo. La differenza è che guidando rischio di perdere la vita.
Ora mi posso permettere tutti questi vagheggiamenti, perché la mia incolumità è nelle mani di Gerard.
E, ribadisco, mi fido di lui.
Sono leggermente girato verso sinistra, e sto fissando le pieghe con cui la sua camicia prova a colmare lo spazio non occupato dal suo braccio. La manica è ben abbottonata e aderisce al polso, mentre il resto della manica sembra più un sacchettino (senza cadere nel ridicolo, solo nel carino).
Vaneggiare fa passare molto tempo, spero non si sia sentito osservato.
Nel dubbio guardo la strada anch’io.
Socchiudendo gli occhi vedo qualcosa di riconducibile ad un quadro impressionista. Le luci che perforano, l’asfalto che fende e le macchine tagliate.

Sospiro sollevato, sperando che nessuno se ne sia accorto.
Suo fratello non è una fotocopia occhialuta di Gerard. Sono molto diversi, in effetti. Non eccessivamente, c’è qualcosa che rende plausibile credere che siano fratelli, però per molti aspetti sono diversi.
Prima di tutto, Michael è più alto, e più biondo.
E cosa più importante, vederlo con gli occhiali non mi sembra buffo.
O almeno penso che sia lui suo fratello, tra le poche persone che vedo sembra l’unica con cui Gerard possa condividere parte del patrimonio genetico.
Seguo Gerard, che si ferma davanti al ragazzo che ho identificato come Michael.
«James, lui è Anthony.» Mi ha chiamato con il mio secondo nome? Lo sa che lo detesto. Io e l’altro lo guardiamo male in contemporanea, al che Gerard sorride colpevole e finge di sbuffare «Okay, Mikey, ti presento Frank. Frank, Mikey.» Ci indica un po’ a caso e ci ritroviamo a guardarci più o meno imbarazzati in questo parcheggio. Come dei pesci morti che si fissano vacuamente.
«Ehm, ciao.» Azzardo. Azzardo.
«Gee mi ha parlato abbastanza di te.» Dice, forse per imbarazzarmi.
Rido, perché di lui io invece non sapevo un cazzo «Di te invece non mi ha detto niente, quel coglione.»
«Tipico.»
«La smettete di parlare alle mie spalle quando vi ho di fronte?»
Approfitta del momento di smarrimento per dare qualche colpetto alla spalla del fratello.
«Su, fratellino, tra poco ti sposi.»
«Già. A proposito, andiamo dentro. Mancavi solo tu.»
Seguo i due fratelli sul prato, non sono mai stato in questa zona della città.
Vedo qualche persona sparsa seduta sulle due schiere di sedie.
«Frank, siediti qui.» mi dice Gerard toccando un posto nella prima fila. Mi avvicino, un po’ a disagio, chiedendomi per la prima volta dopo tanto tempo, seriamente, cosa stia facendo. Quindi Gerard si era sentito così al matrimonio di mia cugina? Come mi ero sentito la prima volta che gli ho parlato, più o meno. «Io devo stare vicino a Mikey perché sono il suo testimone.»
Mi sento abbandonato.
Mi lasci così, in balia di me stesso? A ben un metro da te? Per un’intera cerimonia?
Traditore.
«Okay.» Rispondo, freddamente.
«Tranquillo, sarà una cerimonia molto veloce» Sarà, ma rimani un traditore.
Mi siedo, in prima fila, a disagio – conosco solo una persona, e non le potrò neanche parlare per una cosa come… quindici minuti.
Sono nel posto più esterno, e ho appoggiato i piedi sul prato. È sofficissimo, devo toccarlo.
Allungo una mano verso i fili con disinvoltura, intanto guardo Gerard parlare con suo fratello; quest’erba è davvero fantastica, mi ci sdraierei sopra.
Continuo ad accarezzarla, Gerard saluta un ragazzo più alto, dai capelli ondeggianti. Mi è familiare, stacco un paio di fili e mi siedo compostamente. Chissà dove l’ho visto…
La gente intanto inizia ad arrivare, e noto che nessuno si siede perché parlottano tutti vicino all’altare – se posso chiamare così quel... qualcosa – o formano gruppi da altre parti. Sembrano tutti dei ragazzi usciti da un concerto punk o, almeno, rock, presi e messi in abiti eleganti. Probabilmente l’età media non supera i trent’anni, l’apparente formalità che mi circonda sembra quasi il frutto di una festa satirica. Come se fossero tutti qui a fingere di essere persone a cui frega qualcosa di avere certi comportamenti appropriati, ma non avrebbero avuto problemi a venire in pigiama.
Sì, sono l’unico seduto. Sembro un manichino.
Che cazzo ci fa un manichino ad un matrimonio?
«Frank, ehi.»
Alzo la testa spaventato, e mi imbatto nel divertimento di Gerard. Lo guardo con aria di sufficienza. Rimane un traditore.
«Lei è mia mamma, Donna.» Vedo ora la donna che gli è accanto, mi alzo scattante e dico: «Ciao.»
Ciao. Molto formale. Ora mi prenderà per un adolescente incivile qualsiasi. Oh be’.
Gerard è ancora divertito. «Mamma, puoi sederti, vicino a Frank. Mikey dice che tra poco iniziano.»
Grazie, amico. Ora dovrò passare minuti della mia vita a dimostrare implicitamente alla mamma di Gerard di essere una persona civile, rispettosa, e degna di rispetto.
Le sorrido, dando inizio al processo di implicita dimostrazione di educazione.
Non posso evitare di non guardare la persona che qui conosco meglio. Sta parlando con suo fratello, cioè… lo osserva mentre lui gli parla. Ora si è girato e ha indicato una sedia ad un tizio, poi si è seduta su quella di fianco come a dare l’esempio.
È il tizio di prima, che mi sembrava di avere già visto, più che altro mi sembra di aver già visto i suoi capelli: sono tanti, sono ricci, e non sono corti. Ondeggiano ogni volta che compie il minimo movimento o appena la brezza ci raggiunge.
Sì, l’ho già visto.
Raddrizzo di poco la schiena con lo sguardo fisso su di lui, praticamente di fronte a me.
Cazzo, ho capito! L’ho visto ad un paio di concerti. Non abbiamo mai parlato.
«Frank?»
Ma è possibile che ogni volta, ogni singola volta, Gerard debba cogliermi con la testa tra le nuvole? Dirà mai il mio nome senza quell’aria divertita sfottente?
Lo guardo per concedergli la mia attenzione.
Si avvicina un po’, sporgendosi. Mi avvicino anch’io per inerzia. Sussurra: «Perché fissi Ray
Sono abbastanza sicuro di essere arrossito, ma non tanto. Ray sarà quel ragazzo riccioluto. «Non volevo fissarlo. Mi era familiare e mi sono accorto di averlo visto a dei concerti.»
«Ray? Be’ è molto probabile, lui ci vive ai concerti.»
Sono sempre più convinto che adorerò i suoi amici.
Dove sono stati tutto questo tempo? Dov’è stato Gerard tutto questo tempo?
«Mi sta già simpatico, quel Ray
Sorride. «Ray è molto simpatico, sì. Ciao.» E si gira.
Ciao. Va be’.
Traditore.
Spero seriamente che sua madre non mi parli per tutta la cerimonia, sarebbe decisamente imbarazzante. Come se fosse probabile… vorrà assistere al matrimonio del figlio.

L’atmosfera qui è migliore di quella al matrimonio di mia cugina, sarà per il minor numero di ospiti che permette una certa intimità, la brezza che compare ogni tanto o l’assenza del rigore religioso, del peso di legarsi a qualcuno sotto gli occhi della Chiesa. Lì potevo parlare con Gerard, ma ora oltre a non averne bisogno posso comunque percepirne la presenza.
Sugellano le promesse appena fatte in un casto bacio, e mi unisco all’applauso come fossi un loro vecchio amico.
Gerard si alza per abbracciare il fratello, e sento una gioia innaturale nel vedere l’affetto reciproco che li lega. A volte vorrei avere anch’io un fratello o una sorella, la complicità di vivere sotto lo stesso tetto, giocare e confidarsi, o solo fidarsi di qualcuno.
Poi si separano, Gerard gli dà un buffetto sulla spalla e mi raggiunge, mentre gli invitati si alzano per complimentarsi. «Vieni, Frankie. Prima di andare a mangiare voglio farti vedere una cosa.» Mi porge una mano per aiutarmi ad alzarmi, anche se non ne ho bisogno; la prendo e continuo ad averla nella mia, quando sono in piedi. È rassicurante, Gerard, è rassicurante la sua mano, la sua presenza, il suo sorriso. È rassicurante anche quando inizia a camminare e smetto di tenergli la mano.
In pratica ci troviamo in un prato immenso, con altre cose intorno. «Ti ricordi di quando ti ho parlato del ponte –»
«Quello è il ponte su cui ti fermavi a disegnare da bambino?» Lo interrompo, indicando un piccolo ponte di legno, che invece di coprire un torrente o qualsiasi altro tipo di corso d’acqua, sovrasta dei fiori. È un ponte fottutamente inutile, ormai è solo una panchina alternativa. Mi ha raccontato che spesso sua nonna li portava qui, a stare in pace, a disegnare; è morta poco più di un anno fa e abbiamo parlato di lei solo una volta.
Ho notato che parla di lei con una certa titubanza, come se volesse cambiare argomento per non riportare alla luce alcuni ricordi – probabilmente un po’ vividi; anche quando la nomina, non lo fa mai a voce troppo alta. E la nomina il meno possibile.
Mi avvicino a lui e gli avvolgo un braccio intorno alle spalle, appoggiando la testa su di lui. Spero che abbia capito che mi sono ricordato cosa significhi per lui questo luogo, e che per questo stia provando a comunicargli che, per quanto possa contare, sono con lui.
Mi sfiora la mano, quella che gli penzola dalla spalla, forse ha capito.
Ci avviciniamo al ponte-panchina, il calore del sole diventa progressivamente la fresca ombra di un antro floreale.
«Sai, Frankie, sei la prima persona con cui vengo qui che non sia Mikey, me stesso o-» si interrompe. Sento un senso di vuoto, il prato scompare.
Sento qualcosa di morbido su tutta la faccia, e umidità sotto al mio corpo.
Cos-
Mi sollevo con il braccio destro, rendendomi conto del nostro stato. Pietoso.
Esatto, siamo caduti. Tutti quei stupidi fiori e l’erba – ancora più stupida – non ci hanno permesso di notare il dislivello. Anche Gerard si è un po’ sollevato e appena i nostri sguardi si incrociano, inevitabilmente, scoppiamo in una risata ancora più stupida della flora che ci ha ingannati.
Un’altra risata, diversa sia dalla mia sia da quella di Gerard, ci raggiunge e girandomi scopro che è Mikey. Piegato su se stesso molto poco elegantemente. Gerard smette di ridere e si rivolge al fratello: «Smettila di ridere, tu!» poi si siede.
Mikey ormai ci ha raggiunti, e ancora sobbalzando per le risate dice: «Scusate, stavo venendo a-» altre risate «poi siete… Oddio ma come avete fatto?» Dopo qualche secondo riesce a ricomporsi. Guarda Gerard, seduto tra i fiori con l’innocenza di un bambino; poi me, ancora accasciato sul prato, in una posizione innaturale a causa delle risate.
Sorride e ci dice che tra poco si inizierà il pranzo.
Mi siedo di fianco a Gerard, e nel giro di tre secondi ci ritroviamo a ridere come prima. Mikey si gira per un attimo, poi continua a camminare scuotendo la testa con disappunto. Vedendolo, un nuovo attacco isterico mi colpisce e mi attacco alla spalla di Gerard per non crollare a terra.

L’aria è piacevole, mi sento meno infiltrato di quello che sono. Meno di come mi sentivo al matrimonio di mia cugina, e sembra paradossale dal momento che non ho idea di chi siano queste persone.
Nell’eleganza simulata di questo posto, io e Gerard non possiamo che essere a nostro agio. I nostri abiti sono umidi, pieni di piccole macchie verdi o colorate.
Lo seguo, convinto che mangiare in un tavolo di gente che sicuramente non ci guarderà male si rivelerà una piacevole avventura.

Siamo tornati vicino al ponte-panchina, io e Gerard. Più o meno sdraiati, come prima, ’ché tanto ci siamo già sputtanati i vestiti.
Tutta l’erba sotto di me emana una specie di fresco che sembra, tra l’altro, facilitarmi la respirazione. Abbiamo il ponte-panchina una decina di centimetri dietro di noi, e in avanti il prato sembra una spiaggia verde scura, frastagliata, che si affaccia su un mare di un verde quasi luminoso.
Chissà i proprietari di questo posto quanta acqua consumano per innaffiare il prato.
Mi sento un po’ pieno, abbiamo mangiato davvero tanto – più che altro, abituato come sono ai tristi pasti che mi preparo pigramente, non ero preparato. Sorrido ricordando tutte le persone interessanti che ho conosciuto, e che probabilmente incontrerò al concerto a cui mi ha invitato Ger-
«Ascoltiamo un po’ di musica?» Interrompe i miei vaneggiamenti, come sempre.
Annuisco, e dopo poco ci ritroviamo immersi in una canzone dei The Smiths. Sembra quella che avevamo ascoltato anche al parco, settimane fa. Quando avevamo parlato di gelati e relazioni. In effetti, quel giorno quando tornai a casa pensai a quanto fosse strano che una persona gentile e carina come Gerard non avesse neanche un mezzo fidanzato.
Avranno tutti paura delle sue manie da piromane? Andiamo, ragazzi, non sono neanche teorie dimostrate, e probabilmente sono l’unico ad averle ipotizzate. Anche se, a pensarci bene, Mikey ha avuto l’accortezza – chiamiamola così – di sposarsi non in chiesa.
«Frankie. Sei proprio fantastico, lo sai?» Mi arriva la sua voce, e tutti i pensieri si accartocciano, svaniscono.
Stava pensando a me? Come io stavo pensando a lui?
Be’ forse non pensava a me come piromane, ma stava pensando a me.
«Certo.» Gli sorrido, tanto per sembrare un po’ più idiota. E forse, forse, rassicurante. «Anche tu lo sei.» Aggiungo, per rassicurarlo ulteriormente.
Trattiene una risata ridendo, e, davvero, non posso evitare di guardarlo negli occhi. Sarà per il debole che ho per quelle iridi, pupille, e tutto quello che le circonda – compresa la persona. Sarà che anche nell’ombra di questo posto riescono a brillare.
È appena iniziata una canzone di cui al momento non mi viene in mente il titolo, dopo devo controllare. Non ricordo neanche le parole, ma è orecchiabile.
Nana na nana…
Forse sto ancora fissando Gerard, i capelli che continueranno a coprirgli la faccia in eterno, non importa quanto tenti di portarli dietro l’orecchio.
Nana…
Sono appoggiato al prato solo su un braccio, però per qualche ragione mi sento al sicuro, ed in equilibrio.
Nana na
Ci avviciniamo, ad ogni millimetro in meno mi sento più leggero.
Cosa stiamo facendo?

 

 

 

 

 

Avevo detto che la storia era divisa in due parti? Be’, potrei aver mentito.
Ebbene sì, potrei avere la tentazione di continuarla. In futuro.
Per ora accontentatevi di questa… questo… finale.
Dico che la storia è conclusa, ma se tra qualche mese vedrete di nuovo il titolo sotto alla sezione My Chemical Romance non spaventatevi, sono solo io che ho ritrovato stupidaggini da far vivere al povero Frankie.

Spero di avervi quantomeno divertito – non tanto, giusto un pochino. Il minimo per non sentirmi inutile.
Se vi va, scrivetemi pure.
Vado a continuare i miei altri mille progetti.

 

xoxo Coffee_Time

  
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