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Autore: AnyaTheThief    05/03/2016    2 recensioni
Si consiglia la lettura di "Crossed lives".
L’ho visto cadere.
Lo abbiamo subito soccorso.
Ha detto di dirti che ti amerà per sempre.
E poi…
Constance, mi dispiace.
D’Artagnan è morto.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Constance Bonacieux, D'Artagnan, Nuovo personaggio, Porthos
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tommaso applicò il cerotto sul ginocchio sbucciato del bambino lacrimante.

“Ecco fatto. Guarda, non si vede più niente.” sorrise, passando una mano tra i capelli biondi di Samuele, che singhiozzava tirando su col naso rumorosamente.

“Ma brucia!” si lamentò. “Akela, brucia da morire!”

“Vedrai che domani non ti ricorderai più nemmeno di essere caduto. E’ ora di andare a letto!”

La sera era umida e si respirava l’estate nell’aria. Beatrice stava avviando verso i bagni tutti gli altri Lupetti. Il GG (Grande Gioco) era stato un successo. Il nemico - che altri non erano che i cambusieri mascherati - era stato sconfitto in una sfida ricca di colpi di scena ed i bambini erano ancora eccitati e chiacchieravano tra di loro ad alta voce.

“... e quando ho colpito Kaa alla schiena?”

“... è caduto a terra come una pera…!!”

“... Bagheera è stata fortissima!”

“E’ domani che recitiamo la Promessa, vero?” domandò Samuele. Sapeva che ogni volta che si parlava della cerimonia, tutti gli adulti si ricordavano di quanto fosse piccolo e carino e lo incoraggiavano.

“Eh già. Sei emozionato?” Tommaso gli fece l’occhiolino, sorridente. “Vedrai come starai bene con il nuovo fazzolettone!” fece cenno al panno bianco che i Lupetti non ancora entrati ufficialmente nell’Ordine dovevano portare al collo. Il giorno seguente, dopo aver recitato la Promessa, sarebbe stato sostituito da quello rosso e blu che indossavano quasi tutti gli altri ragazzi del gruppo.

Scordandosi completamente della sbucciatura, Samuele afferrò il fazzolettone di Tommaso e lo tirò a sé bruscamente, costringendolo ad avvicinarsi per non venire strangolato. Iniziò a guardare tutte le sue spille incuriosito.

“Questa cos’è?”

“La vecchia spilla di quando ero nel Comitato di Akela.” spiegò il ragazzo, pazientemente.

“E questo?”

“Un pupazzo che mi ha regalato un Capo, tempo fa.”

“E questa?” insistette, scrutando un’altra spilla a forma di orsetto.

“Beh… Quella non è mia.” confessò Tommaso, arrossendo.

“Come non è tua? Se il fazzolettone è tuo…”

“Non è sempre stato mio.” sorrise, tornando in posizione eretta e risistemandosi il foulard intrecciato da cui tutto era iniziato.

Samuele lo fissava a bocca aperta, i grandi occhioni azzurri spalancati, come a dire “come hai potuto fare una cosa del genere?”, ma Tommaso si limitò a sghignazzare e a tendergli la mano per accompagnarlo al piano superiore.

“Andiamo, su. E’ tardi!”

Il bambino lo seguì trotterellando e tempestandolo di domande alle quali il ragazzo rispose divertito con poche parole enigmatiche.

Incrociò lo sguardo di Beatrice nel bagno delle femmine e le sorrise. Lei rispose con un’occhiata un po’ maliziosa che Tommaso ben conosceva e che ogni volta gli faceva venire una voglia pazzesca di fare l’amore dovunque si trovassero. Ma la sera era ancora lunga: dovevano leggere le storie ai bambini, cantare finché gli ultimi non si fossero addormentati e poi scendere a finire il torneo di carte con i cambusieri.

Tommaso sperava che Beatrice trovasse una scusa possibilmente plausibile per farli defilare entrambi da quest’ultimo, che non fosse seguita da una serie di prese in giro.

Lui non era mai stato bravo a mentire, quindi evitava di farlo; e poi cercava sempre di tenere fede alla Promessa, anche se si trattava di bugie innocenti.

Trovò un momento solo con Beatrice, due secondi durante i quali riuscì a sussurrarle: “ci dividiamo nei dormitori, così facciamo prima?”

Lei rispose con lo stesso sguardo e lui gliene lanciò uno complice, scuotendo il capo e ridendo tra sé e sé, poi si infilò nel dormitorio dei maschi, con il libro dei canti e quello delle storie in mano. Non era bravo ad inventarsi favole per farli dormire, non come Bea. Le sue finivano sempre per essere troppo confuse e i bambini invece di assopirsi continuavano a chiedere delucidazioni.

Beatrice si inventava storie fantastiche e rilassanti, sia per le bambine che per i bambini, e questi si addormentavano come angioletti ancor prima di sentire il finale.

Chiuse la porta del dormitorio femminile alle proprie spalle ed iniziò a fare ordine tra le bambine e le ragazzine agitate.

“Bagheera, mi sistemi il sacco a pelo?”

“Bagheera, stasera ci racconti quella dell’elefante?”

“Ma dov’è Akela, perché non viene anche lui?”

Con la sua solita determinazione rassicurante, rispose con calma a tutte le domande ed esaudì le richieste, finché non furono tutte sistemate nei letti. Le baciò una ad una sulla guancia e loro la baciarono di rimando, teneramente. Quelle più affettuose le si aggrappavano al collo e non la volevano più rilasciare.

Alla fine, spettinata e un po’ stanca, si sedette sul letto di Camilla, la più piccola delle quasi-scout ed iniziò a raccontare, mentre le pettinava i capelli con la mano.

A volte non ricordava di essere stata tanto piccola.

La prima volta che aveva partecipato ad un campo si era subito attaccata a Tommaso e non l’aveva più lasciato. Era terrorizzata, anche se non lo aveva mai dato a vedere, nascosta dietro una maschera spavalda. Alcune di quelle bambine le ricordavano lei stessa, eccitate da un semplice fazzolettone bicolore, ansiose di levarsi quello bianco che le faceva sentire un po’ neutre rispetto agli altri che si conoscevano da anni.

Ricordava però come ci si sentiva a fare parte del C.D.A., ad aiutare sempre i più piccoli, a farli sentire parte del gruppo e, a volte, a osare più degli altri sperando nella tolleranza dei Capi. Ramanzine e punizioni, ma anche tanta soddisfazione: è stato in quegli anni che le era nato l’istinto materno, più o meno quando iniziava a sbocciare il suo amore per Tommaso.

“C’era una volta un bel principe…” iniziò a raccontare.

“Era Akela?” chiese una ragazzina del C.D.A., più smaliziata delle piccole, che comunque risero a gran voce, esaltando la battuta.

“Era proprio lui.” rispose Beatrice calma. “Stava scappando dalle guardie che lo credevano un ladro, lungo le strade piene di banchetti del mercato, quando…”

Uno scoppio di risa venne dalla camera dei ragazzi.

Tommaso aveva cercato di rendere un po’ più avvincente la storia del libro, con il risultato di aver accoppiato un coniglio con un serpente e quando i ragazzi gli chiesero che animale sarebbe nato da quella coppia improbabile, aveva risposto “un serpiglio”, scatenando la loro ilarità.

Per fortuna poi riuscì a riabbassare il tono della storia, in modo da farli rilassare, ed iniziò ad intonare le note di “Buonanotte lupetto”, uno dei suoi canti preferiti.

Mentre cantava passava tra i letti con la torcia accesa, verificando che nessuno stesse ancora chiacchierando o giocando.

Beatrice, dall’altra stanza, lo sentiva cantare e anche lei intonò la stessa canzone per le bambine. Non era il canto che avrebbe scelto, ma sperava che Tommaso dall’altra parte del muro la sentisse e che riuscisse a strappargli un sorriso.

La maggior parte delle Lupette si era già addormentata. Le piccole erano sempre le prime a crollare, sfinite dalle emozioni delle giornate piene alle quali non erano ancora abituate.

Dopo pochi minuti, tutto pareva tacere, a parte i loro canti.

Tommaso concluse la melodia, uscì dalla stanza dei maschi ed entrò in quella delle femmine. Bea gli dava le spalle e non si era accorta di lui; la ammirò per un attimo mentre intonava le ultime note di  “Buonanotte Lupetto”, finché poi non le fece un segnale con la torcia.

La vide sorridere in sua direzione, mentre sussurrava il finale della canzone: “...riposa Lupetto, riposa Baloo...”

Beatrice fece per avvicinarglisi, ma prima che potesse raggiungerlo, udirono un rumore assordante provenire dal piano terra ed entrambi sussultarono.

“Bagheera!” chiamarono alcune bambine appena sveglie, agitate. Beatrice e Tommaso si scambiarono uno sguardo perplesso ed entrambi scossero il capo.

“Non è niente, tornate a dormire…” si affrettò lei a rassicurarle riavvicinandosi al letto di Camilla, che si era tirata su a sedere e si guardava attorno spaesata.

Rincominciò ad intonare la canzone e le bambine si rimisero sdraiate, mentre Tommaso ritornò nel dormitorio maschile, inveendo a bassa voce contro i cambusieri che probabilmente avevano fatto cadere una pentola mentre sistemavano la cucina.


























 

Charles era il riflesso di suo padre, e Constance odiava questa cosa.

Stava ormai per compiere un anno ed ogni giorno che passava era una tortura per lei sfamare quel piccoletto con gli occhi di D’Artagnan, con il suo nome e la sua insolenza.

Le notti insonni ormai aveva smesso di contarle. Quando Charles non piangeva, lei non riusciva a dormire comunque.

Inizialmente era stata aiutata da una balia, ma poi, sotto forte consiglio della Regina, aveva iniziato a prendersi cura lei stessa del bambino almeno per parte della giornata, sperando di trovare una connessione. Ma quel legame speciale che unisce una madre a suo figlio, come Gisela era legata al proprio, Constance non lo provò mai.

Era stata un’idea terribile.

Ogni sera non vedeva l’ora che arrivasse il mattino per poter tornare ai suoi doveri, lasciare Charles alla balia e fingere che non esistesse per un po’.

Si rendeva conto che erano pensieri terribili da fare e non li aveva mai rivelati a nessuno, ma la Regina sospettava da un po’ che qualcosa non andasse. Constance non sorrideva più dal giorno in cui D’Artagnan era partito per la guerra. Rivolgeva sorrisi di circostanza, quando il suo lavoro e le buone maniere lo richiedevano, ma il suo sguardo era sempre vuoto, gli occhi arrossati per via dell’insonnia e delle lacrime.

Come si poteva riavvolgere il tempo?

 

Come poteva tornare in quel letto?

 

Certe volte per un attimo le sembrava di sentire il respiro di qualcuno accanto a lei e quelle erano le uniche notti in cui riusciva a chiudere gli occhi e dormire qualche ora, sebbene non riuscisse a credere a tutte quelle cose che le raccontavano…

“D’Artagnan è sempre con te”,

“Lui vive ancora nel tuo cuore…”,

“Lui vive ancora nel vostro bambino.”

Erano tutte menzogne!

Se D’Artagnan fosse stato ancora tra di loro, sicuramente le avrebbe dato un chiaro segnale. I sospiri che sentiva erano frutto della sua immaginazione; tuttavia riuscivano a confortarla per un attimo, il tempo di addormentarsi.

Non ricordava quasi più l’ultimo giorno in cui l’aveva visto.

 

Perché non era lui.

 

Il corpo freddo ed immobile di D’Artagnan appariva sfumato nella sua mente. Ricordava solo la sensazione del foro del proiettile sotto le sue dita ed ogni tanto ripassava quel gesto sul proprio petto, nel medesimo punto, sperando forse un giorno di trovarvi un foro simile e di scoprire di stare per raggiungerlo.

Ci aveva pensato molte volte, ma le era sempre mancato il coraggio. L’unica cosa che la teneva ancora viva era il pensiero che forse un giorno sarebbe riuscita a ricordare i momenti felici con D’Artagnan e a sorriderne considerandoli soltanto una parentesi felice della sua vita.

Doveva andare avanti con la sua vita, per onorarlo. Ma non ce l’avrebbe mai fatta con Charles.

Quella notte l’aveva passata in bianco, cullandolo tra le braccia e cercando di farlo smettere di piangere. Probabilmente gli facevano male le gengive: stava mettendo i primi denti. Gisela era entusiasta, come lo era stata con suo figlio, e continuava a ripeterle tutta contenta che gioia avrebbe provato nel sentirlo dire le sue prime parole.

Constance non se ne illudeva più di tanto. Se fino a quel momento non aveva mai sentito nemmeno un moto di istinto materno, non sarebbe successo soltanto perché il bambino avrebbe detto “mamma”, un giorno.

Più volte aveva rimpianto Anne, nonostante la nuova Regina fosse altrettanto buona e generosa con lei.

Anne avrebbe capito: lei era sua amica, la trattava come una sua pari e non come se fosse sua sorella minore.

Ma Anne era morta. Constance aveva assistito con orrore alla sua esecuzione, preceduta da quella di Aramis. Avrebbe preferito finire come lei, almeno non avrebbe dovuto soffrire così tanto la perdita del suo amato...

“Fa’ silenzio, su…” esortò freddamente il piccolo, continuando a cullarlo in maniera fredda ed automatica. Quando i bambini piangevano così a lungo, le altre madri e persino la balia erano sempre pazienti e soffrivano insieme a loro.

Constance soffriva soltanto perché voleva rimettersi a letto, anche se non avrebbe dormito, e non sentire più quegli urli strozzati che le ricordavano in ogni istante che era una cattiva madre.

Soffriva perché non riusciva più a ricordarsi l’olmo campestre, quello sotto il quale più di una volta lei e D’Artagnan si erano distesi a guardare il cielo, le nuvole, anche la pioggia, e a fare l’amore e sussurrarsi parole dolci. Quando erano felici. Dove si trovava?

D’Artagnan sarebbe stato molto deluso. Non faceva che ripeterle quanto sarebbe stata brava con il piccolo ed anche lei ci aveva creduto moltissimo, prima che nascesse. Non vedeva l’ora di fare tutte quelle cose da mamme.

Insieme a lui, però. Questa era la grande clausola senza la quale le sue convinzioni erano crollate con tre semplici parole.

 

D’Artagnan è morto.

 

Non ricordava bene quel giorno, ma ciò che aveva detto Athos continuava a ripeterselo nella mente quando voleva farsi del male, e subito le lacrime le salivano agli occhi.

Porthos, Treville e soprattutto Athos le erano stati molto vicini. Ma non erano che un continuo rimando all’assenza di D’Artagnan tra di loro.

“Madame…” mormorò la balia assonnata, entrando nella stanza “Date qua, faccio io. Tornate a riposarvi.” si offrì, allungando le braccia per prendere Charles.

Constance non ebbe esitazione a porgerglielo, a ringraziarla e a tornare a letto, mentre sentiva in lontananza il pianto del bambino che iniziava già a calmarsi.

 

Il mattino seguente aveva gli occhi lucidi che le bruciavano e le palpebre calanti, ma doveva adempiere ai suoi compiti ed accompagnare la Regina ad un colloquio con Treville.

Ma ancora prima di poter proferire parole sull’incontro, Gisela la prese in disparte.

Era così diversa dalla sua predecessora che tutti avevano faticato a comprendere la scelta di Luigi di risposarsi così velocemente. Ma a quanto pare aveva fretta di mettere al mondo un erede legittimo, desiderio che si era avverato quasi immediatamente.

Tutti nel Regno consideravano Gisela migliore di Anne per il fatto di avergli donato subito un figlio maschio. Ma Constance sapeva che era molto più complesso di così… Tutti loro lo sapevano. E nessuno di loro si era dimenticato di quel bambino che Constance aveva accudito con amore, insieme ad Anne, e che poi le era stato strappato via nonostante lei lo avesse cercato di difendere con tutte le forze.

Lo avevano affidato ai genitori di Anne, in Austria. Il pensiero che si trovava in un posto sicuro, quantomeno, rendeva un minimo di giustizia a quella che era stata la sua Regina.

“Vorrei poter fare qualcosa per Voi, Constance.” le disse Gisela impietosita.

L’unica cosa che desiderava, nessuno avrebbe potuto fargliela riavere. Non aveva bisogno di compassione.

“Sto bene, Vostra Altezza. Mi sto riprendendo. So che non sono al massimo della forma, e mi dispiace che Vostra Maestà debba…”

“Fermatevi, Constance. Non c’è bisogno di mentire. Prima di essere una mia dama di compagnia, siete mia amica.” Constance dilatò le narici in maniera quasi impercettibile. Anne era sua amica, Gisela era solo… non le piacevano quelle prediche da parte sua, nonostante comprendesse le sue buone intenzioni. “E so che non state  bene. Vi serve una pausa.”

Una pausa era l’ultima cosa che le serviva. L’unica pausa che le serviva era da Charles, non dal suo lavoro, che era l’unica attività che la riusciva a distrarre un po’.

Scosse il capo, con un’espressione pietosa dipinta in volto.

“Non posso allontanarmi, Maestà. Non mi fate questo, vi prego.” la supplicò, esponendosi quindi completamente e dandole in pratica una vera ragione per cui preoccuparsi.

La Regina sorrise e le prese le mani tra le sue.

“Cara Constance. Fidatevi di me, quello che vi serve è un po’ di tempo con vostro figlio. Non bastano alcune ore alla sera: sono stata insensibile a pensare che potessero essere sufficienti. Non vi sto cacciando da Palazzo, è la Vostra casa ormai. Ma me la caverò per qualche tempo anche senza di Voi.”

Gisela le sorrise rassicurante, e Constance non ebbe più parole per rispondere.  

La Regina la congedò e lei tornò mesta nelle sue stanze. Era un ordine della Regina, non poteva replicare. Cosa avrebbe fatto per tutto quel tempo da sola con Charles?

Lui ancora non faceva niente di particolare. Cosa faceva la balia quando stava con lui?

Se glielo avesse chiesto, la già poca stima che quella donna aveva per lei sarebbe calata a picco.

Come poteva il pensiero di stare con suo figlio angosciarla al punto da non dormirci la notte?

Constance aprì il cassetto della specchiera e ne tirò fuori un crocefisso. Era lo stesso oggetto che aveva causato la morte di Anne e di Aramis, il quale lo aveva lasciato a D’Artagnan.

E D’Artagnan l’aveva affidato a lei. Era l’unico ricordo che aveva di lui, anche se non gli apparteneva.

Lo baciò e lo ripose.

Osservò quel piccolo esserino tutto rosa avvolto nella sua candida coperta, un ciuffo di capelli neri che sbucava da sotto la cuffietta e le manine che si aprivano e chiudevano piano. Avrebbe dovuto ispirarle tenerezza, ma non riusciva a  provare nient’altro che rabbia.

Lo prese in braccio. lui emise un vagito strozzato, ma non si svegliò.

“D’Artagnan…” mormorò Constance impercettibilmente. Aprì di nuovo la bocca, ma poi la richiuse.

 

Perdonami.

 
  
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