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Autore: HolyBlackSpear    07/03/2016    1 recensioni
Yoichi ha iniziato a lavorare in un centro di recupero per tossicodipendenti da quando la sorella è stata assassinata proprio da uno di loro. Mentre cerca di mostrarsi al meglio verso tutti i pazienti, bisognosi di una figura con cui poter condividere il dolore, nella clinica arriva Shiho Kimizuki, un paziente irrequieto e scontroso dal quale viene allontanato perchè ritenuto troppo instabile per un ragazzo inesperto come Yoichi.
Invece sarà proprio lui, il castano apparentemente fragile e solo da poco nel settore, a trovare la forza di aprire uno spiraglio nella dura scorza del nuovo arrivato. Solo per scoprire quando può diventare fragile il cuore di una persona.
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Kimiyoi, AU!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shihō Kimizuki, Yoichi Saotome
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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shiho saotome Note: Kimiyoi {Kimizuki x Yoichi} | R –  Giallo
Parole: 6906
Avvertimenti: AU! | Adult!Characters

Addicted
{You may become my drug.}

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Il centro di disintossicazione della città era sempre pieno. Yoichi si sorprendeva ogni volta nel constatare quanti giovani come lui, a volte anche più piccoli, finissero nel circolo pericoloso della droga.
Aveva iniziato a lavorare lì dopo che sua sorella era stata uccisa dal fidanzato, dipendente dalla cocaina. Aveva deciso di reagire al dolore e perdonare, preferendo aiutare le persone affinché nulla di simile si ripetesse.
All'inizio, tuttavia, era stata più una decisione dettata dalla rabbia. Nel disperato tentativo di soffocare il dolore si era gettato nell'unico lavoro che potesse farlo sentire in qualche modo utile, che potesse fargli rimediare alla sua ciecità.
«Se avessi saputo - si diceva sempre il castano, quando rimaneva da solo con se stesso - avrei potuto aiutarla». I sintomi erano così ovvi, il suo comportamento così facilmente interpretabile, se solo avesse saputo. Che altra soluzione, allora, se non apprendere ogni singolo indice di dipendenza, ogni possibile conseguenza, ogni sostanza fra le più utilizzate?
Con il tempo, però, il dolore era lentamente scemato, lasciando il posto soltanto alla consapevolezza. Aveva accettato la sua morte, benché esternamente paresse averlo fatto fin fal primo giorno, riuscendo a percepire la seconda dimensione della propria professione. Quella del salvatore.
Fino ad allora Yoichi non ci aveva mai davvero pensato. Ai suoi occhi condizionati quei drogati sembravano solo degli ingordi, come degli affammati che pur sazi mai si accontentano, e continuano a ingurgitare. Non riusciva a concepire per quale motivo una persona dovesse fumare un certo afrodisiaco, o iniettarsi un eccitante. Non riuscivano a controllarsi, ad accontentarsi di altri tipi di esperienze? Una bella frignata poteva essere più utile di una siringa per sfogarsi, nella sua mente.
Eppure la risposta era arrivata piuttosto in fretta, non appena era riuscito ad aprire gli occhi. Quella gente non era incontinente. Quella gente era sola. E soffriva. Forse anche molto più di quanto non avesse sofferto lui.
Di caso in caso, aveva incontrato tanti personaggi differenti. Eppure il fattore comune, la variabile che si ripeteva, persistente, era proprio quella della solitudine. Non importava che tu fossi un cinquantenne in piena crisi di mezza età o una sedicenne presa dall'euforia del gruppo. C'era sempre il disperato bisogno di mettere a tacere una sofferenza che non si riusciva, non si poteva condividere con nessuno.
Yoichi per questo aveva sempre avuto la sorella. Rendersi conto che non per tutti era possibile piangere e ridere con qualcuno gli aveva fatto male, lo aveva fatto piombare nel mondo reale degli adulti molto di più di quanto l'omicidio di sua sorella non avesse già fatto.
E aveva incominciato a comportarsi con un fratello, un amico, un figlio per tutte le persone che glielo lasciavano fare. Anche se la loro scorza era dura e segnata come una vecchia armatura.


Shiho Kimizuki era arrivato lì in condizioni piuttosto disastrose. Tenuto fermo da quattro agenti con la faccia affaticata e un po' irritata di chi è costretto a fare qualcosa che gli costa fatica, scalciava e si dimenava come un matto, tentando perfino di mordere chi lo teneva fermo. Con scarsi risultati, vista l'imprecisione che mostrava nei movimenti.
Di primo impatto il direttore del centro lo aveva scostato, ordinandogli fermamente di farsi da parte. Quell'uomo era un adulto alto e forte, e si prendeva sempre carico dei soggetti violenti. In più, la sua tendenza principale era proprio quella di proteggere Yoichi, che oltre ad essere gracile fisicamente era anche un novellino facilmente impressionabile.
Il castano lo aveva ascoltato solo in parte. Aveva lasciato che le acque si calmassero, seguendo solo da lontano la lotta violenta che si stava consumando prima nell'atrio e poi nei corridoi, e che suscitò l'attenzione di molti, infermieri e pazienti. Gli era quasi sembrata una scena di un film quando quel ragazzo dai capelli rosa aveva piantato i piedi contro gli stipiti della porta, urlando oscenità contro chi, da dietro, tentava di speratamente di farlo entrare. Un film comico, però, vista la strategia piuttosto creativa proprio di un paziente, che sfidando i suoi denti e i suoi pugni tirati a caso era andato a pizzicarlo su una coscia, facendogli mollare la presa e obbligandolo ad essere gettato in camera.
«Ci sono già passato, con me ha funzionato.» - Aveva spiegato tranquillo, comodamente infilato nella sua felpa scura - «Davanti alla paura siamo proprio tutti uguali.»
Quelle parole, si ricordava, lo avevano colpito molto. Non era il primo paziente che gli menzionava quel sentimento, la paura, eppure ogni volta era come la prima. «Paura- gli aveva raccontato una ragazza la prima volta, con il capo poggiato mestamente sul cuscino - di perdere l'unica cosa che può farti stare bene, mettendo a tacere il dolore. Cosa rimane, senza di essa, se non lacrime e male al cuore che nessuno può alleviare?»


La notte, si ricordava ancora, era stata turbolenta. Il paziente era riuscito ad aprire per ben due volte le cinghie che gli tenevano i polsi, finendo però per lacerarli pericolosamente. In evidente crisi di astinenza da possibili sostanze si era agitato ad ogni intervento, alternando brividi e scoppi di rabbia a momenti in cui si lasciava cadere sul letto come se fosse morto, fissando il soffitto e singhiozzando. Aveva assistito a poche scene, tuttavia, perchè era stato mandato a casa di prepotenza dal proprio capo, che si apprestava, come al solito, ad agire sui casi più intrattabili.
Non aveva dormito, Yoichi, una volta entrato nel proprio appartamento. Continuava a rimuginare su ciò che aveva visto, provando ad anticipare gli esiti degli esami. Cocaina? Pregava di no, non era ancora trattabile in maniera efficace. Eroina, forse? I sintomi c'erano, ma non erano unici e limitati ad essa. E se invece fosse stato altro ...?
Il sonno aveva interrotto bruscamente i suoi pensieri, facendoli scivolare via dalla sua mente come la pioggia fa con la polvere su un auto. Soltanto, però, per riproporglieli alla mattina, quando il suo turno ancora doveva cominciare.
Non aveva nemmeno fatto colazione quel giorno, cosa per lui molto inusuale. Si era soltanto infilato in fretta e furia dei vestiti presentabili e si era catapultato nella clinica, fendendo il già intenso traffico cittadino, nonostante l'ora ancora giovane.


Erano riusciti a sedarlo. Questa informazione gli arrivò proprio da uno dei suoi pazienti, cui era andato a fare visita prima di recarsi dal nuovo arrivato. Non era riuscito a trattenersi oltre ed era andato subito a cercarlo, dopo che il suo paziente gli aveva comunicato il numero della stanza.
Fu completamente diverso.
Il ragazzo era addormentato, in una posizione decisamente scomoda a causa delle cinghie di costrizione che aveva addosso. Gli occhiali scuri che aveva addosso la sera prima, con una lente rotta, erano stato appoggiati al piccolo comodino bianco latte. Il guanciale, appena sporco di rosso qua e là, era ancora umido di lacrime. E sudore.
Per quanto potesse sembrare spiacevole la vista del suo viso rigato dai segni del pianto, con qualche livido e qualche taglio, a lui parve solo... molto giovane. Al massimo avrà avuto una ventina d'anni.
Già conoscendo le dosi massicce di tranquillante cui i pazienti come lui venivano sottoposti, agì senza paura di svegliarlo.
Con un asciugamano pulito e appena inumidito dall'acqua calda si era messo a pulirgli il viso, rimuovendo le tracce della brutta serata che aveva passato dalla sua pelle. Mugolò appena, nel sonno, un paio di volte. E sebbene fosse certo che erano rade le possibilità che lo sentisse, ogni volta gli sussurrava di scusarlo, se aveva fatto troppo forte.


«Abbiamo i risultati dei suoi esami. Quello stronzetto coi capelli da punk è fortunato.»
Il direttore era sempre un po' burbero, nelle parole, anche se non erano mai usate in maniera offensiva.
Yoichi osservò fiducioso il plico di fogli che l'uomo aveva in mano, attendendo che finisse di rigirarli per quella che doveva essere la quarta volta. Erano passate diverse ora da quando aveva visitato Shiho, quella mattina, ed era ... molto ansioso per la sua condizione.
«Eroina. Gli va di culo. L'unica complicazione al suo caso era il mix schifoso che aveva fatto con dell'alcool, ma è trattabile. Non ha danni cerebrali o altro schifo causato da sostanze diverse. È soltanto un colabrodo indecente.»
Non potè fare a meno di sospirare, il castano, appoggiandosi con le spalle al muro con una mano premuta sul petto. Ce l'avrebbe fatta. Sarebbe riuscito a guarire, se voleva. Avrebbero potuto aiutarlo.
«Ah, Yoichi...»
Il castano alzò gli occhi su di lui, sorpreso, non aspettandosi quel cambio di tono e registro così improvviso.
«Pare che le tue carezze gli siano piaciute. Ha chiesto di te, a modo suo.»
E quelle parole, in cuor suo, non poterono che riempirlo di gioia. Sotto però a uno strato di rossore non indifferente.


Kimizuki si era rivelato essere più complicato del previsto. L'eroina era un tipo di sostanza trattabile con i farmici e che presentava poche ricadute nei pazienti che ne avevano fatto uso, ma nel periodo di astinenza i dipendenti diventavano particolarmente aggressivi a causa del forte dolore fisico che li coglieva.
Le cinghie erano sparite a partire già dal secondo giorno in clinica. I problemi da lui causati, però, erano all'ordine della giornata. Non era raro, infatti, che Kimizuki scattasse di colpo, afferrando per il collo qualcuno, o che tentasse di gettarsi verso l'uscita urlando come un pazzo.
Yoichi si era opposto con fermezza a qualsiasi provvedimento drastico, come per esempio un trasferimento o la ripresa delle cinture.
«Fa così perchè gli fa male. Isolarlo non servirà a placare il suo dolore, ne tantomeno lo aiuterà a capire che noi vogliamo aiutarlo.»
Era quello, a dire il vero, il problema maggiore. Il ragazzo dai capelli rosa, infatti, era a loro ostile, e qualsiasi indicazione gli venisse data veniva puntualmente violata. C'era un orario per i pasti? C'era da star certi che non si sarebbe presentato, soltanto per poi ritrovarlo in camera a braccia incrociate, in attesa che qualcuno andasse a parlargli soltanto per attaccar briga.
Inizialmente gli aveva fatto un po' paura, questo suo comportamento così aggressivo. Lo stesso direttore aveva scartato la primaria richiesta del paziente di ricevere ancora Yoichi come infermiere, affiancandogli qualcuno di fisicamente e psicologicamente più forte, in grado di metterlo a tacere o di ridurlo alla calma anche con la forza. Non picchiavano nessuno, lì al centro di recupero, ma il direttore aveva garantito che a volte un pugno o uno schiaffo sono tutto ciò di cui una persona ha bisogno per sbollire.
E Yoichi si era fidato. Per quanto non riuscisse più ad aspettare. Voleva vederlo.


Dopo averci perso il sonno per qualche giorno alla fine si era deciso. Era un giornata in cui aveva il turno di notte, quindi la clinica era relativamente vuota.
Gli infermieri erano una quindicina, distribuiti equamente sui tre piani dell'edificio. Ognugno aveva un raggio di corridoio da tener d'occhio e da cui recarsi in caso di richiesta d'aiuto.
Yoichi non aveva quello di Kimizuki. Per fortuna, però, la ragazza coi capelli lilla incaricata della parte di struttura in cui era tenuto aveva capito, senza fare troppe domande, perchè volesse vederlo. E aveva proposto lei stessa un cambio, lasciandogli via libera.
Il castano, infatti, non riusciva a darsi tregua. Aveva sentito varie voci, sia dai giornali che dal personale che lo aveva in carica, che ci fosse molto più di quello che dava vedere. Una storia più grande, e più tragica di quanto non sembrasse dall'esterno.
Era questo senso di fratellanza, di empatia, che lo spingeva a ricercarlo. Oltre al ricordo delle sue guance, umide di lacrime. Non era solo la dipendenza che lo aveva portato a quel crollo psicologico, lo sapeva. Molte, troppe volte si scambiavano dei sintomi di assunzioni di stupefacenti con delle vere e proprie richieste di aiuto    . Lui non voleva essere uno di quegli infermieri.
Bussò piano alla porta della sua stanza. Una, due, tre volte. Non ottenendo risposta decise di entrare lo stesso, pur chiedendo permesso. Magari stava dormendo...
Invece no. Come vide un estraneo mettere piede dentro Kimizuki parve scattare in piedi. I suoi occhi erano pieni di lacrime, così come il suo viso, ma tutto quello che comunicarono in quel momento fu un cambio repentino dal dolore alla rabbia.
L'unica cosa che potè fare, Yoichi, fu appiattirsi contro al muro. Impaurito.
I tossicodipendenti potevano essere pericolosi. Quegli aggressivi ancora di più. Il suo capo glielo ripeteva sempre, quando gli spiegava perchè questo e quell'altro paziente gli erano stati tolti. Già una volta era stato pestato senza troppa cortesia, non voleva che si ripetesse. Eppure non se l'era presa, il castano, non aveva mai colpevolizzato quell'uomo. E in quel momento non avrebbe colpevolizzato nemmeno lui, se l'avesse colpito.
«Sono ... venuto a vedere come stavi.» - Sussurrò soltanto, con un filo di voce, osservandolo calmarsi appena nel vedere di chi si trattava.
Era diverso da quando lo aveva visto per davvero, quella mattina. Eppure soffriva ancora, di un dolore del tutto diverso. I lividi erano diventati rossi e gialli, dello stesso colore della sua pelle. La pelle di chi soffre continuamente di nausea e mal di stomaco. Gli occhi ora erano normali, così come le pupille, eppure ... rossi e umidi come quelli di un bambino. Gli parve tanto più fragile rispetto al ragazzo che aveva combattuto, quasi una settimana prima, per non farsi rinchiudere in quello che lui vedeva come un incubo.
«Vattene fuori di qui.»
La sua voce fu ferma, chiara. Era un buon indice, per un occhio medico come il suo: significava che le dosi di Metadone, usate come antidolorifici per rendere più sopportabile l'astinenza, stavano funzionando bene. Il tono, però, non era decisamente amichevole. Un misto di sofferenza e rabbia. La prima che voleva tenersi dentro, la seconda che era in procinto di sfogare.
«Va bene. Se però volessi qualcuno con cui pianger...»
«Io non voglio nessuno.»
Lapidario. Gelido. Com'era normale che fosse. Le persone lì erano animali feriti, spaventati da tutto e da tutti. Non contava quanto sembrassi amichevole o affabile, nessuno voleva condividere la propria debolezza. Anche per questo, infatti, molti avevano finito col diventare veri e propri tossici.
«...Tanto non mi resta nessuno comunque di cui parlare.»
Quelle parole gli accesero una lampadina. Spalancò appena gli occhi verde oliva, fissando il modo in cui lui invece chinò lo sguardo, lasciandosi ricadere mollemente seduto sul letto.
Dunque era questo, il problema. Anche lui, come Yoichi, aveva perso qualcuno di importante. Forse l'unica importante.
Sapeva come ci si sentiva. Lui per primo aveva provato quel senso di inadeguatezza e vuoto nel perdere la sorella. Il senso di nausea che lo coglieva ogni qualvolta si guardava allo specchio e rivedeva il suo sorriso, la sensazion ... di crollare da un momento all'altro, di andare in frantumi e non riuscire più a ricomporre i pezzi.
Per questo motivo, forse un po' titubante, avanzò una proposta diversa dal solito. Qualcosa che, a suo tempo, lo aveva fatto sentire meglio. Anche se, in quel frangente, lo avrebbe fatto giocare col fuoco.
«...Senti, a te non va di stare da solo e neanche a me. Ti va di fare ... dei biscotti?»
Le attività ricreative erano molto importanti in centri come il suo. Ce n'erano di tutti i colori. Le attività fisiche erano solo una piccola parte. C'era anche un grosso comparto dedicato alle cose manuali e artistiche. Come, per esempio, la cucina.
Yoichi non era un granchè, ma per un po' se n'era occupato assieme ad un cuoco di colore che seguiva lui e i pazienti in cura che aderivano all'attività. Sapeva che poteva fare bene. In primo luogo dalla propria esperienza personale.
Gli occhi vinaccio si alzarono quasi increduli, nei suoi. La sua mente, con ogni probabilità, stava registrando a fatica quella proposta così assurda. Perchè, infondo, una persona a caso doveva andare a domandargli di fare dei biscotti?
Inaspettatamente, però, il ragazzo annuì, anche se gli parve che un'ombra fosse calata sul suo viso.
«...Non tanto, però. Non mi piace cucinare.»


Riuscire a convincere un collega della segreteria intento a far niente a prendersi cura della propria parte di corridoio era stata un'impresa. Il suddetto lo aveva guardato più volte come a dirgli "senti bello, se non vuoi fare il tuo lavoro, licenziati", ma alla fine aveva accettato, scollando il suo fondoschiena dalla poltronetta imbottita per tenere d'occhio la sua parte di piano.
Con quella benedizione del cielo era riuscito a far scollare una seconda persona da una seconda cosa imbottita, obbligando il sedere di Kimizuki ad alzarsi dal suo piumone morbido per recarsi nella cucina del centro, a quell'ora chiusa.
Entrarono senza fare troppo rumore, accendendola con i potenti tubi di neon che correvano sul soffitto. Era un po' artificiale, quella luce da sala operatoria, ma era il meglio che si potesse ottenere.
Shiho, intanto, non aveva detto una parola. Camminava con le mani in tasca, tirandosi giù le maniche fino ai polsi ogni qualvolta esse accennavano a sollevarsi appena. Probabilmente tentava di nascondere i segni delle siringhe.
«Bene bene, direi che prima scegliamo cosa fare~»
Con un piccolo sorriso rilassato gli poggiò di fronte un libro di cucina con la copertina mezza spiegazzata, poco prima di prendere ad infilarsi un grembiulino rosa come i suoi capelli.
«Che biscotti ti piacerebbe fare? Se vengono bene, poi, possiamo farli mangiare anche agli altri, ne saranno felici!»
Lo vide esitare di nuovo, i muscoli che si irrigidirono di fronte al libro di cucina. Ebbe quasi paura, per un momento, che stesse per avere uno scatto d'ira. Non era raro, nei pazienti ancora in astinenza, un'esplosione di rabbia. Invece il ragazzo agì. Allungò piano la mano con l'indice teso, pur bloccando la manica della maglietta con le altre quattro dita della mano, poggiando piano il dito su dei biscottini al cioccolato con pezzettini di noci.
«Questi. Voglio fare questi.»


Shiho, aveva scoperto di lì a poco, era sorprendentemente bravo in cucina. Aveva detto che non gli piacesse, cucinare, eppure il modo in cui modellava la pasta non era solo frettoloso, era sistematico.
Fece un po' di fatica, a stargli dietro, ma si divertì anche, sfidandolo in una sorta di gara di cui fu lui il vincitore senza troppa fatica. Anche perchè lui, Yoichi, era veramente goffo e spesso e volentieri perdeva il ritmo o faceva qualche pasticcio.
Il modo in cui stava preparando tutto, però, era quasi rabbioso. Non si dava tregua nemmeno un istante per leggere le istruzioni. Era come se fosse un automa, che seguiva alla lettera soltanto ciò che gli era stato comandato di fare. Questo non poteva non passare inosservato agli occhi del castano, che temeva sempre di più che qualcosa non andasse.
Non era semplice stizza di fare qualcosa che in realtà non si vuol compiere, ne era fretta competitiva per il giochetto stupido da lui lanciato. Era come se ... stesse cercando di scappare da qualcosa, e l'unico modo per farlo fosse terminare i biscotti nel minor tempo possibile.
I biscotti vennero infornati di lì a poco. La cottura non impiegò molto tempo, e di lì a un quarto d'ora più tardi potè già tirarli fuori, fumanti e con un odore buonissimo.
«Ah, Kimizuki-kun, sembrano davvero buonissimi. Che ne dici, li assagg...»
La frase però si interroppe bruscamente non appena lo vide. Aveva gli occhi puntati sul vassoio che aveva per le mani. Spalancati, quasi, eppure ... in qualche modo vuoti. Era appoggiato al muro come ad un appiglio e le braccia erano strette attorno al corpo, con tanta forza da far tremare appena i muscoli.
Non era una crisi di astinenza. Non si manifestava così, perchè il respiro era calmo e non dava segni di sudorazione o attività anormale delle pupille.
Quello era qualcosa di diverso. Qualcosa che, con ogni probabilità, aveva a che fare con la sua testa.
«...Kimizuki-kun?»
Lo chiamò con più attenzione, mentre appoggiava piano il vassoio caldo sul banco di lavoro e gli si avvicinava lentamente. I suoi buoni propositi, però, andarono al diavolo quando lo vide crollare a terra come se fosse fatto di carte.
Gli si gettò praticamente sopra, proprio mentre lui si rompeva nel primo singhiozzo. E lo sorresse, Yoichi, tenendolo piano per le spalle. Anche quando le lacrime divennero più copiose, più impossibili da fermare, anche quando Shiho gli gettò le braccia attorno alla vita, affondando il viso nella sua spalla.
«A lei... A lei i biscotti piacevano così tanto...»


Quella serata non era stata un fallimento. Nonostante il crollo psicologico avuto da Kimizuki, essa aveva insegnato molto a entrambi.
Erano rimasti a lungo seduti contro al muro, stretti assieme l'uno all'altro sotto al ronzio quasi fastidioso delle luci a neon bianche della cucina. Yoichi l'aveva tenuto contro al proprio petto esile, paradossalmente, mentre lui, decisamente più grande, si rannicchiava fra le sue braccia come un bambino e piangeva, piangeva tutte le lacrime che non era mai riuscito a tirare fuori.
Era proprio fra di esse, con le carezze del castano fra i capelli rosati, che era riuscito a dirgli del suo passato. Che era riuscito a confessargli del perchè fosse arrivato lì, e di come si sentisse. Di tutta la paura che provava.


«Ho iniziato a drogarmi quando è morta mia sorella. Aveva il cancro, sai? È una brutta malattia. È partito in un polmone. Poi nelle ossa. Alla fine nel cervello. Tutti i soldi spesi, tutte le strutture in cui l'ho portata ... non sono serviti a niente. Mi è morta fra le braccia il giorno del mio compleanno, sorrideva.»
Aveva fatto una pausa, Shiho, non riuscendo più a parlare fra  i singhiozzi. Poi aveva ripreso, un po' a fatica.
«I nostri genitori sono morti. Me l'hanno lasciata per un pelo, solo perchè ero già maggiorenne quando è successo. Con lei ho perso tutto. Non solo a livello economico, per tutto ciò che ho venduto per avere i soldi per salvarle la vita. Ho perso l'unica persona che mi volesse davvero bene, l'unico ricordo che avevo di quando eravamo felici. Cos'altro potevo fare, per non morire nel dolore?
Sono andato in un club perchè volevo bere. Bere tantissimo, al punto da vomitare l'anima, al punto da dimenticarmi chi fossi e chi ero stato. Poi però, dopo qualche bicchiere, mi hanno chiesto di provare qualcosa di meglio. La bustina marrone che mi hanno passato era così leggera. Leggera come io volevo essere. Non ci ho pensato due volte, mi sono fatto iniettare quella roba.»
Seppur molto toccato dal suo racconto, al punto da aver già versato qualche lacrima, a livello medico sperò che la siringa fosse pulita. Per non riuschiare di contrarre malattie pericolose...
«Quella volta fu la prima. La sensazione che mi dava era speciale, e dopo averla presa dormivo tantissimo. Non sentivo più niente, capisci? Non sentivo più il dolore al petto, né mi bruciavano gli occhi mentre piangevo. Ero da solo in un limbo dove però non soffrivo, dove potevo crogiolarmi al sicuro, lontano da dolore. Fino a che non è incominciata la dipendenza.
È un incubo. Eppure era anche un sogno. L'unica cosa di cui mi importava era procurarmi un'altra dose. Ho iniziato a spendere sempre di più per averne a quantità sempre più massicce. Puoi immaginare la mia rabbia quando le dosi normali iniziavano a non farmi più niente. Perchè, perchè il mio corpo voleva diventare immune dall'unica medicina che avevo? Perchè non voleva lasciarsi andare a quell'inerzia che mi permetteva di vivere senza rompermi?
Quando mi hanno portato qui ... non ricordo molto. So solo che ero in astinenza, e stavo cercando di accoltellare uno spacciatore che mi faceva un prezzo troppo alto per i soldi che avevo in tasca. Ero arrabbiato e lo sono tutt'ora, perchè io...»
Il tono si stava inasprendo, con quelle ultime parole. Era vera e propria rabbia, ma verso se stesso.
«..Perchè io volevo soltanto stare bene, volevo soltanto ... poter non pensare alla mia sorellina morta, e invece tutti continuavano a cercare di farmi soffrire. Cosa vuole la gente, perchè non mi lascia drogate e basta?! A me non importa di morire, non mi interessa! Io voglio soltanto ... riuscire a non soffrire più...»
Si era fermato, mano a mano che la voce andava calando, soffocata dalle lacrime che si erano fatte silenziose. Era rimasto a guardarlo, Yoichi, mentre lo sentiva accasciarsi sul proprio corpo, finendo con la testa nel suo grembo. E solo dopo un po', quando aveva trovato la forza di parlare nonostante il magone, aveva risposto.
«Pensi che tua sorella avrebbe voluto vederti così?»
Quelle parole furono dure. Non in senso negativo, però. Kimizuki alzò di colpo gli occhi su di lui, spalancati e umidi al punto da sembrare due cristalli immersi nell'acqua. Ricambiò quello sguardo così incredulo, andando ad asciugarsi con una risatina gli occhi prima di prendere un lembo del proprio grembiule ed alzarlo ad asciugare i suoi.
«Anche io ho perso mia sorella, sai? E se c'è una cosa di cui sono certo è che lei non avrebbe mai, mai voluto vedermi cedere al rancore e alla disperazione. È stata uccisa da un drogato, uno come te. - lo disse in tono quasi affettuoso, quel "come te". Non fu certo un insulto - Eppure guardami. Sono qui ad abbracciarti senza problemi.»
Si arrestò un momento, tirando appena sul col naso mentre una piccolissima goccia lasciava i suoi occhi, fendendo veloce la guancia per poi atterrare sulla maglietta scura del ragazzo, in un punto che Kimizuki andò a guardare. Prima di prestargli di nuovo attenzione.
«Ho sofferto e pianto tanto. Ma mi sono lasciato aiutare. Fallo anche tu, Kimizuki-kun. Tutti sono qui per aiutarti. Io sono qui per aiutarti.»
Concluse il suo discorso guardandolo negli occhi con un piccolo, dolcissimo sorriso. E sembrò di nuovo tornare un ragazzino, un quindicenne troppo piccolo per la sua età con ancora la fanciullezza nei tratti. Fanciullezza che mai lo aveva davvero lasciato.
Ci fu silenzio, per un po'. Ci fu solo il rumore di alcuni passi nel corridoio, il profumo di detersivo e biscotti che si mischiava, nelle loro narici. Poi, lentamente, incerta, la voce di Shiho ruppe il silenzio.
«...Allora aiutami, Yoichi.»

__


Erano passate quasi tre settimane da quella sera. Il punto critico nella terapia di Kimizuki era stato superato, con l'astinenza che a poco a poco era scesa, dopo aver raggiunto il suo piccolo. La mancanza di eroina era così: violenta all'inizio, ma sempre meno martellante con il passare del tempo. Nel giro di quindici giorni il ragazzo sarebbe stato già pronto per lasciare la struttura. La terapia farmaceutica e ricreativa lì aveva dato dei buoni frutti, quindi i dottori avevano già pensato alla seconda fase del corso di recupero. Consisteva nel passare cinque giorni a settimana in clinica e due a casa, da soli, con i dosaggi di farmaci da gestirsi autonomamente. Era una sorta di prova di fiducia che si dava ai pazienti che reagivano bene al primo periodo, per cercare di normalizzare il processo fino a renderli di nuovo indipendenti.
Shiho, però, aveva rifiutato. Aveva detto di non sentirsi ancora pronto e i medici avevano rispettato la sua scelta, apprezzando la sincerità di quel ragazzo che, finalmente, si era messo in un'ottica costruttiva. Yoichi, in parte, sospettava che quel volere fosse anche per la paura di ciò che avrebbe trovato. Una casa vuota piena di ricordi. Qualcosa che non era pronto a fronteggiare.
Era andato a visitarlo ogni giorno, da quella notte. Lottando un po' con il direttore era riuscito a farselo assegnare, facendogli capire che poteva gestirlo, che il suo caso gli stava a cuore. La carta vincente era stata alzare la voce e scattare in piedi davanti a un ennesimo rifiuto. A detta del direttore, "la sua verva l'aveva particolarmente colpito. Doveva essere davvero importante". In secondo luogo, però, quell'uomo aveva insinuato che "lo stronzetto punk non fosse poi così brutto da guardare". Lo aveva fatto arrossire come poche altre volte in vita sua.
Shiho aveva iniziato a mostrargli dei lati differenti di sè. Non era più aggressivo, anche se era senza dubbio introverso, e si era anche dimostrato non solo sensibile, ma anche timido. Quando Yoichi gli aveva fatto i complimenti per come stava senza occhiali, per esempio, era diventato tutto rosso e si era infilato le mani nelle tasce come se dovesse scavare una fossa.
«Uhmm, grazie.» - aveva boffonchiato, a labbra strette, guardando di lato. L'aveva trovato adorabile.
Un'altra prova importante della fiducia che cresceva nei suoi confronti Yoichi l'ebbe da un gesto apparentemente abituale. Un giorno, quando erano nel cortile assieme, a bere un succo sotto a un albero, Kimizuki aveva deliberatamente slacciato la propria felpa, andando a togliersela e restando in maniche corte. Ad una persona poco abituata nel settore sarebbe parsa soltanto la decisione di chi aveva caldo. Ai suoi, di occhi, invece, fu una permissione. Shiho lo stava lasciando avvicinare. Stava lasciando scoperta la parte più martoriata dalle proprie decisioni del suo corpo, quella che voleva nascondere più di tutte, davanti a lui.
Era stato felicissimo, il castano, quella volta. E gli si era riempito il cuore di gioia, quando il più alto si era tirato la sua mano nella propria. Senza guardarlo.


«Yoichi? Yoichi, sei sveglio?»
Si era svegliato un po' confusamente, tirandosi su di colpo con gli occhi ancora assonnati e i capelli tutti arruffati. Aveva sentito Shiho ridere, al suo fianco, ed aveva istintivamente sorriso, anche se doveva ancora realizzare del tutto dove si trovasse.
«No, non lo eri. Ti sei addormentato mentre guardavamo la partita.»
Ah, sì, quello lo ricordava. Si erano sdraiati assieme sul letto di Kimizuki a guardare una partita di pallavolo femminile. Al ragazzo dai capelli rosa piaceva, quindi aveva insistito per guardarla assieme a lui, però ... la giornata lavorativa che aveva avuto era stata pesante ed era crollato prima dell'inizio del secondo set.
Notò soltanto in quel momento il braccio che aveva stretto attorno alla vita, fra il suo corpo e i morbidi cuscini. Shiho parve fare lo stesso, a giudicare da come arrossì e si riavviò gli occhiali sul naso, andando a seguire intensamente l'intervallo fra le due squadre. Non potè fare a meno di sorridere, Yoichi, stringendosi appena di più a lui, sentendosi ... felice, quando lo sentì trattenere il respiro.
C'erano delle regole, sul posto di lavoro. Finiti i turni si andava a casa, e se si restava non bisognava lamentarsi di non essere pagati. Era scelta libera. L'uniforme doveva sempre essere pulita, così come il corpo, per dare il buon esempio. Se si era malati non ci si affiancava a pazienti fisicamente instabili per non aggravare le condizioni.
Non ci si innamorava dei soggetti in cura. Quella non era una vera e propria regola sul contratto di lavoro, ma era una sorta di promessa che i vari infermieri si facevano, e che i più anziani tramandavano ai novellini. «È molto più facile, così.» - Dicevano.
Eppure Yoichi proprio non riusciva a sentirsi in colpa. Né poteva interpretare in maniera differente quello che iniziava a sentire nel petto, caldo e dolce come ... dello sciroppo d'acero.
Era straordinariamente facile addormentarsi con il profumo di Shiho contro al naso, naturalmente semplice sorridere non appena lo vedeva. Anche quando si chiudeva in se stesso e non parlava per molte ore, Kimizuki gli lasciava sempre aperto uno spiraglio. Lo lasciava avvicinare, si lasciava accarezzare i capelli, si addormentava cullato dalle sue barzelle orribili o dalle sue ninnanne. E lui, lui ... non aveva potuto fare a meno di legarsi a quel ragazzo che gli era parso così scontroso, la prima volta, così violento e implacabile, che si era però rivelato essere soltanto fatto di una porcellana fragilissima pronta a rompersi al minimo passo falso.
Non voleva dirglielo, ancora, però. Forse perchè sentiva che non ce n'era bisogno, forse perchè il loro rapporto per il momento era ... sufficiente. In realtà non sapeva come avrebbe potuto reagire ad una rivelazione. Poteva chiudersi ancora di più, spaventato dalla forza del sentimento, dalla sua importava. Poteva arrivare anche ad allontanarlo, se si sentiva violato negli spazi.
Forse anche per quello, nonostante il petto scaldato di fiducia, Yoichi stette in silenzio. E si concesse soltanto di accarezzargli piano un polso, mentre tornava a guardare con lui la partita.


«La prego, direttore, è importante! Solo per questa sera!»
«Perchè non domani, Kimizuki? Così non obbligherai nessuno a cambiare dei turni e avrai tempo per decidere cosa metterti.»
«Non so se domani ne sarò ancora in grado, è questo il punto!»
Diversi colleghi erano appoggiati fuori dalla porta dell'ufficio del direttore, a sghignazzare mentre seguivano, in incognito, il siparietto all'interno. Quando Yoichi arrivò li osservò confusamente, avvicinandosi con il musetto di un bambino perplesso all'ufficio. Qualcuno di loro di dileguò. Tre di essi rimasero invece contro alla porta, ampliando però il piccolo ghigno che avevano sul viso. Li scostò senza troppi complimenti, entrando nell'ufficio dopo aver gentilmente bussato.
Shiho era in piedi in mezzo alla stanza e aveva il viso di un rosso acceso. Il tipico rosso causato dall'imbarazzo, non dalla rabbia. Il direttore invece aveva le mani strette sotto al mento e il solito sorrisetto un po' strafottente che lo rendeva tanto irresistibile agli occhi delle donne. Quel giorno, però, quel sorriso aveva una sfumatura diversa, una sfumatura maliziosa. Come di chi ha appena insinuato qualcosa e giosce nell'accorgersi di aver fatto bingo.
«Perdonatemi se vi ho interrotto, io...»
«Yoichi, Yoichi. Il giovanotto punk qui presente insiste da quasi mezz'ora perchè tu non faccia il turno di notte, stasera, perchè vuole invitarti fuori a cena. Cosa devo dirgli? Dice che non può aspettare domani.»
Il suo ghigno divenne ancora più ampio, mentre Kimizuki diventava ancora più rosso. Lui, invece, riuscì solo a spalancare gli occhi incredulo, alzando il viso a bocca aperta verso di lui, alla ricerca di una conferma. Il suo sguardo, però, era altrove, le labbra tirate per la vergogna.
«...È vero, Kimizuki-kun?»
Esitò a lungo, il ragazzo, prima di rispondere. Poi, però, annuì piano, nonostante avesse lo sguardo piantato a terra e gli occhiali che lo nascondevano appena. Li aveva cambiati di recente.
«Sì. Vorrei ... vorrei uscire con te e portarti a mangiare fuori, questa sera.»
Inutile dire che il capo li sbattè fuori con un sorriso ora molto più dolce sul viso, dopo aver dato loro, a suo modo, la propria benedizione. Cambiandogli il turno lavorativo.


Shiho aveva una macchina, a differenza di Yoichi che ancora si muoveva in bicicletta. Quel giorno era uscito per la prima vera volta dalla clinica, più o meno nel pomeriggio, dicendo che doveva sistemare un paio di cose prima della serata. Lo sarebbe venuto a prendere una volta finito il suo turno, alle diciannove, davanti all'entrata del centro di recupero.
Era rimasto sbalordito, il castano, nel vederlo scendere da un'auto piuttosto datata eppure lucidissima, nella sua carrozzeria nera. Ancora di più, era certo di aver spalancato la bocca nel vedere come si era messo elegante apposta per la serata.
Il frac nero che aveva addosso seguiva bene la sua figura slanciata, facendolo apparire ancora più alto. Si abbinava per colore al papillon che andò subito ad allargarsi, quasi gli mancasse l'aria. Il fazzoletto -si portava ancora!- e la camicia, invece, erano di un rosa appena più spento dei suoi capelli.
Si vergognò un po', ad essere sincero, di quello che indossava invece lui. Aveva su solo una camicia lasciata aperta di qualche bottone e dei jeans, oltre che .. la giacca col cappuccio.
Si calmò quasi subito, però, quando lo vide sorridere come se niente fosse, l'espressione rilassata e quasi ... rapita. Davvero lo trovava carino anche così ... sciupato?
«...Andiamo?» - Gli sentì dire soltanto, dopo che ebbe aperto la bocca e richiusa un istante. Forse voleva dirgli qualcosa ma aveva pensato fosse meglio tacere.
Annuire con vigore fu l'unica cosa che poteva fare.


Il ristorante in cui Kimizuki l'aveva portato era un italiano del quartiere per giovani, uno di quelli in cui il cibo è buono, con grandi porzioni, e costa poco. Non era stato nulla di troppo sfarzoso che sarebbe risultato eccessivo, e a Yoichi era piaciuta da morire la sfida che era partita a metà serata di mangiare quanta più pasta possibile con le mani.
Aveva ceduto dopo la seconda porzione, chiamandosi fuori dalla competizione boccheggiante, ma soddisfatto. Il suo accompagnatore non aveva potuto non ridere, nel vederlo come un piccolo barilotto riempito troppo.
Erano fermi sull'auto, ora, nell'ampio parcheggio della clinica. Le luci principali erano spente, ma il castano sapeva che dentro molta gente era ancora sveglia.
«Ho passato una buonissima serata. Gli spaghetti erano strepitosi! Vorrò andarci ancora di sicuro~!»
«Anche a me è piaciuta tanto. Potresti portarmi tu da qualche parte, la prossima volta.»
Annuì contentissimo, il giovane infermiere, quasi scalpitando sul sedile per la gioia. Dove avrebbe potuto portarlo? Al cinese che aveva vicino casa? O al giapponese tradizionale che gli aveva fatto conoscere il capo?
Nonostante tutta la propria gioia, però, dovette lasciarsi andare nuovamente sul sedile con un piccolo sospiro.
«Devo andare, adesso, Kimizuki-kun. Domattina sono a lavoro.»
«Ma sei in bicicletta. Lascia che ti porti io.»
«No, e poi chi mi porterebbe a lavoro domani?» - Rise lievemente, di fronte alla sua proposta, trovandola comunque gentile, nonostante la stesse declinando.
Aprì la portiera, quindi, anche se un po' a malincuore, sentendo l'aria fresca della sera invadere l'abitacolo, mischiando il profumo della città con quello della colonia maschile che aveva indossato quella sera il ragazzo.
«Beh ... ora vado. Grazie, Kimizuki-kun. Dormi bene~!»
Gli rubò un piccolo bacio su una guancia, prima di decidersi finalmente a mettere il piede fuori e rabbrividire lievemente, frugandosi un po' goffamente nelle tasche alla ricerca della chiave per slacciare la catena della bici. Quasi ebbe un infarto, però, quando se lo ritrovò di nuovo davanti a passo di carica, quando stava per accingersi a salire sul sellino.
«Kimizuki-k...»
Non fece in tempo a finire la frase. Venne attirato con decisione da una mano del ragazzo sulla propria nuca, sentendo improvvisamente il calore della sua bocca calda contro alla propria, i suoi occhiali che, scivolati appena lungo il naso, gli accarezzarono una guancia.
Spalancò gli occhi, colto alla sprovvista, riuscendo a ricambiare solo un istante prima che il ragazzo si staccasse, con il viso in fiamme.
«...Shiho.» - Mormorò lui soltanto, prima di tornare di corsa verso la macchina e partire, con essa, forse per fare un giro prima di tornare a dormire in clinica. Un giro per scappare lontano dal suo imbarazzo.
E nonostante quella fuga così improvvisa, quel bacio tanto inaspettato ... Yoichi non potè fare a meno di saltellare nel parcheggio per un istante, prima di partire sulla bicicletta come se avesse le ali ai piedi, arrivando perfino a staccare le gambe dai pedali mentre canticchiava sulla strada.
Avrebbe potuto spaccare il mondo a metà anche solo con la sua risata, tant'era gioioso.


La mattina seguente arrivò senza che avesse chiuso occhio. Dormire era stato fuori discussione, dopo quello che era successo. Invece Yoichi aveva continuato ad accarezzarsi piano le labbra, con il corpo affondato fra le coperte e un paio di morbidi cuscini, in un cui ogni tanto affondava il viso per lanciare urletti, proprio come una ragazzina innamorata.
Shiho lo aveva contattato forse una mezz'oretta dopo il loro incontro, mormorandogli che si era dimenticato di augurargli la buona notte. Non avevano parlato di altro, se non di quel piccolo augurio reciproco, eppure Yoichi si sentiva come se avesse fatto un giro sulla luna e fosse tornato indietro nel giro di nemmeno un'ora.
Al lavoro ci arrivò praticamnte volando, ancora in perfetto buon'umore per la serata splendida che aveva passato. Avrebbe quasi quasi baciato il capo, se solo non fosse stato in ufficio con il suo ambiguissimo migliore amico. Quei due, assieme, erano davvero strani.
Gli venne per un istante paura, quando affacciandosi alla camera di Kimizuki non lo vide. Il collega del piano, tuttavia, precedette le sue domande agitate, sorridendo comprensivo quando lo vide già apprensivo che si guardava attorno.
«Si è alzato prestissimo stamattina. Ha detto che andava in cucina.»


E così c'era andato, dove gli aveva detto. Lentamente aveva messo la testa dentro, dopo aver tentato, invano, di allungarsi sulle punte dei piedi per guardare dall'oblò sulla porta per vedere cosa stesse facendo.
La sua chioma rosa spuntava appena, essendo Kimizuki chinato al momento. Sul tavolo, davanti a lui, c'era un vassoio veramente enorme di biscotti di tanti gusti diversi. Quantità di sei o sette infornate.
Entrò cercando di fare il minor silenzio possibile, parendo sbalordito. E sorrise appena, quando gli occhi vinaccio del ragazzo si alzarono sui propri quasi d'improvviso, arrossendo altrettanto rapidamente.
«Ah, ecco...» - lo sentì prorompere, mentre si grattava nervosamente la nuca. Le maniche erano fatte su e i segni delle punture, notò Yoichi, erano spariti quasi del tutto. - « ...Doveva essere una sorpresa. Per te, e per gli altri.»
Un po' curiosamente il più basso si avvicinò, con ancora il sorrisetto ebete di quando era entrato sul volto.
«...Il direttore ieri sera mi ha detto che ti piacciono anche i biscotti. Al té verde. Questi ... è la prima volta che li faccio.» - Indicò intanto una porzione di biscotti verdi al lato del vassoio, con sopra cuoricini e fiorellini di glassa.
Superfluo dire che Yoichi gli saltò al collo quasi con le lacrime agli occhi, stringendolo con tutta la forza che aveva.
Ce l'aveva fatta. Insieme a lui, soltanto lui, Yoichi, Kimizuki era finalmente riuscito ad aprirsi e a superare, poco a poco, il suo dolore.
Ed era tutto quello che il giovane Saotome avrebbe potuto chiedere. Oltre che, ovviamente, assaggiare quei magnifici biscottini~!




{Post Scriptum:

Scrivere questa fanfiction è stata per me una sorta di sfida, a causa della sua tematica particolarmente delicata. Ho molto a cuore il processo di aiuto psicologico e strutturale delle persone dipendenti da droghe, e parlare di questo tema è stato, per me, anche comunicare un messaggio. Non drogatevi, non cadete in questi circoli viziosi! L'amore delle persone fa molto meglio che non una pastiglietta o una siringata!
Detto questo, passiamo a parlare della fanfiction. Ispirata da un prompt carinissimo trovato tumblr, ho subito sentito il bisogno di scrivere. Non immaginavo davvero che uscisse così lunga, ma ... devo ammettere che sono soddisfatta.
Yoichi e Kimizuki sono una delle coppie che mi piace di più, all'interno di Owari no Seraph. So per certo che scriverò altro, perchè ho bisogno fisico di narrare delle mie OTP-

Che dire, dunque? Spero che la storia vi sia piaciuta e che abbiate trovato piacevole la lettura.
Alla prossima~ 

PS: Il capo misterioso è Guren. Sorry, babes-
   
 
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