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Autore: Elphie94    12/03/2016    2 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xiii.

nel dominio del fantasma




Attorno a me si diramava il buio più totale. Chiazze rossastre mi annebbiavano la vista, e non sapevo più dove fossi. Voci confuse mi arrivavano ai timpani – ovattate, come memorie di un sogno dimenticato. Mi sentivo come se fossi diventata una fiamma viva.

«Dottore, come sta?»

«É in preda al delirio, causato dalla febbre molto alta. Dovevate chiamarmi prima, Madame.»

«L'avrei convinta a farsi visitare oggi. È forse troppo tardi, dottore?»

«Ha i polmoni pieni d'acqua, Madame, e un principio di polmonite.»

I presenti trattennero il fiato.

«Se non curata, potrebbe diventare molto grave. Ma ciò che mi preoccupa è la febbre cerebrale.»

«Febbre cerebrale?»

I miei incubi, pensai. Li rammentai tutto d'un tratto, dopo la tregua che mi aveva regalato lo stato di incoscienza – tornarono da me con il moto di una slavina impetuosa. Erano parte di me stessa, non meno delle ossa, del midollo, della danza.

«Si riprenderà?»

Questa volta non fu mia madre a parlare, ma un'altra voce, una deliziosa voce ben viva nei miei ricordi offuscati. Christine. Pensai a come doveva essere spaventata per me. Anche la malattia di suo padre era cominciata con una semplice tosse, da cui non si era più ripreso.

«Per la polmonite, sì. Siamo arrivati appena in tempo. Ma temo per la febbre cerebrale. Se si dovesse svegliare…»

«Se?» gemette mia madre. Potevo immaginarla portarsi le mani al cuore, sconvolta da quella nuova prospettiva.

«Quando» corresse il dottore. «Quando si sveglierà, potrebbe non essere più la stessa persona. Ha subito un trauma molto forte, voi mi dite.»

«Sì, è così.»

«Sarà difficile che si riprenda da questo, allora. Mi dispiace, Madame – Madamoiselle. Forse la cosa più giusta da fare sarebbe ricoverarla.»

Dopo che il dottore se ne fu andato, non udii più nulla se non il pianto silenzioso di mia madre e Christine, e persi di nuovo conoscenza. Il buio mi avvolse nel suo abbraccio freddo e non provai alcuna emozione o dolore: ero in un limbo in cui i miei polmoni e il mio cervello galleggiavano tra le fiamme. Perché è così che sentivo il mio corpo: lambito dal fuoco più doloroso.

Cosa ne sarebbe stato della cenere dei miei ricordi, dei miei sogni più oscuri? Ero diventata un involucro di carne e ossa e male, e null'altro.



L'ospedale era di un bianco accecante. Era un luogo in cui l'assenza di colori regnava sovrana, un luogo colmo di suoni e odori che io non conoscevo. Anche mio padre era divenuto non più di una macchia bianca su uno sfondo altrettanto candido. Era tutto così fastidiosamente pulito, senza un granello di polvere, di vita; sembrava l'anticamera di una tomba. Allora non potevo immaginare di averne ricevuto l'impressione più giusta.

Visitammo mio padre nella sua cella – perché di cella si parlava. Era una prigione, ampliata solo dalle sofferenze della sua mente fragile. Non udivo altro che il palpito impazzito del mio cuore e urla lontane, come provenienti dalle viscere della terra, ma in realtà più vicine di quanto fosse possibile immaginare. Quel luogo mi metteva i brividi. A nove anni, decisi che non sarei mai stata costretta a trovarmi in un posto del genere. Mai, mai come mio padre. Eppure lo avevo visto deteriorarsi di fronte ai miei occhi di figlioletta ignorante. Ora appariva simile a un fantasma: la sua pelle scura aveva assunto una tonalità livida che incuteva paura negli animi degli unici cari che gli fossero rimasti, ossia mia madre ed io. Fu una visita frettolosa e quasi del tutto priva di parole; ci limitammo ad abbracciarci forte tutti e tre, insieme, come una volta. Ma adesso quell'abbraccio sapeva di sogni spezzati e parole impossibili da dire a voce alta.

«Vi voglio bene, ricordatelo sempre.»

«Papà, quando tornerai a casa?» Temevo che non si trovasse bene con noi, pertanto si era rinchiuso in quel luogo asettico e bianco come il marmo: per stare lontano da noi.

«Presto» rispose lui, e attorno ai suoi occhi neri – lo stesso colore dei miei – si formarono piccole rughe d'espressione. Mentiva, ma le bugie avevano il sapore del miele e io le inghiottivo senza dire nulla.



Appoggiai l'orecchio alla porta. Già da allora ero troppo curiosa e m'immischiavo in fatti di cui evidentemente i miei genitori volevano tenermi all'oscuro. Le loro voci offuscarono i miei pensieri e il mio senso di colpa per quell'ennesima malefatta.

«Le voci non tacciono mai, Antoinette. E fin quando sarà così, non posso offrirvi nulla.»

«Ti hanno dimesso dall'ospedale… Pensavo stessi meglio.»

«Non è un ospedale. Chiamiamolo col suo vero nome.»

«Claude…»

«Antoinette, io ti amo, e amo anche nostra figlia. Non sai quanto. Ma non posso vivere così. Non ho nulla da offrirvi se non sofferenza. E non mi farò rinchiudere ancora come un criminale, messo in gabbia come una bestia senza nome.»

«Cosa posso fare per te? Per aiutarti?»

«Nulla, purtroppo. È una battaglia che devo combattere da solo.»

Allora non sapevo che l'avrebbe persa del tutto.



Il sangue mi inzuppava le scarpe, i vestiti, le mani. Avrei dato qualunque cosa pur di togliermelo di dosso. Rimasi muta, negli occhi ancora l'immagine di mio padre che moriva. Avevo dieci anni e per un mese intero non avrei più detto una parola.



«Perché lo ha fatto? Perché è dovuto morire?»

«Il suo male lo ha divorato. Non aveva più forza per andare avanti. Meg, è ora che tu lo sappia.»

«Neanche i dottori sono riusciti a curarlo.» Trattenevo a stento le lacrime – il corpo freddo di mio padre come un'ossessione, un'impronta incancellabile nella mia coscienza. «Lo hanno trattato come un fenomeno da baraccone, lo hanno messo in gabbia. Li odio, li odio tutti.»

«Meg…»

«Avrebbero dovuto fargli del bene, e invece lo hanno rovinato.» Quando era uscito da quell'ospedale, era già morto. Era andato via per sempre. Non avrei mai rivisto mio padre come quando ero piccola e mi insegnava a giocare a palla nel parco del Luxembourg, i nomi delle stelle e quelli degli uccelli nell'aria. La musica nel sangue – neanche quella era stata in grado di salvarlo. Nemmeno il suo amore per me e mia madre. Tutt'altro. Il troppo amore lo aveva ucciso.



Mi svegliai con le orecchie piene dei sospiri, delle urla di mio padre che squarciavano la notte. Ormai conoscevo quel suono straziante, mi era familiare come l'aria che respiravo. Era in tutti i miei incubi.

Tutto intorno a me era una nube ovattata, che mi proteggeva dalla realtà troppo dura. Strabuzzai gli occhi e cercai di mettere a fuoco l'ambiente in cui mi trovavo. Ero in un letto, questo era ovvio; non bianco, quindi non mi trovavo in ospedale, ma non ero neanche nella mia stanza. Mi guardai in giro, sollevando leggermente il capo: ero in una camera ammobiliata semplicemente, distesa supina su un elegante letto a baldacchino, le lenzuola color rubino che contrastavano col legno di mogano del mobilio, in qualche modo antiquato. Un lampadario diffondeva una luce dorata che si rifletteva su ogni cosa, come uno specchio sfocato. Su una cassettiera, notai che scoccava l'ora un orologio stile Luigi Filippo.

Rimasi attonita, mentre la paura cominciava a serpeggiarmi dentro, subdola e soffocante. No, non poteva essere. Se la descrizione combaciava – ed era effettivamente così – allora non c'erano dubbi. Mi trovavo…

Con uno sforzo, sollevai il capo dai cuscini di piume, scostando la coperta. Indossavo la mia semplice veste da notte grigia, che mi scendeva sulle spalle come seta liquida. Feci per alzarmi, ma non ne ebbi la forza. Sembrava che le mie membra fossero state investite da una carrozza in folle corsa. Provai di nuovo, ma fu vano. Le mani mi tremavano, e non solo per il freddo. Cacciai fuori un mugolio di protesta.

«No» dissi, quasi che in questo modo potessi far scomparire d'incanto quell'ambiente sconosciuto eppure familiare e riportarmi al sicuro, nella mia stanza in superficie. «No no no no…»

«Non dovresti muoverti, Madamoiselle.»

Trasalii. Non lo avevo sentito entrare.

«Tu» sibilai con ostilità.

«Io» confermò lui. Si ergeva alto e dinoccolato sulla soglia della camera Luigi Filippo, in maniche di camicia. Come sempre, il suo volto era celato dietro la maschera nera. I suoi occhi d'oro apparivano impassibili.

«Che cosa ci faccio qui?» chiesi, sull'orlo di un attacco di panico.

«Ti ci ho portata io» rispose lui come se nulla fosse. Lo guardai, piena d'incredulità.

«É uno scherzo, vero?»

«Ti pare che abbia voglia di scherzare? Non mi fa più piacere che a te, credimi.»

Mi toccai la fronte madida con una mano intorpidita. Il mio ultimo ricordo risaliva alla mia audizione. Dopo questa – che supponevo fosse stata un disastro – non rammentavo che voci confuse e sogni deliranti, un dolore sordo al petto, la gola riarsa, le membra febbricitanti. Cercai di collegare tutto questo alla mia situazione attuale, ma non trovai soluzione all'enigma.

«Perché sono qui?» incalzai, sempre più agitata.

«Stai calma. Non ricordi nulla di quanto è accaduto?»

«Ricordo solo che sono svenuta sul palco. Mi sentivo malissimo. Ma tu non hai risposto alla mia domanda.» Cosa dovevo fare per ottenere una risposta chiara da lui – mettermi a urlare? Lanciare qualcosa di preferibilmente contundente su quella testa mascherata?

«Stavi tanto male che hai rischiato di non riprenderti più.»

«E tu cosa c'entri in tutto questo, si può sapere? Pretendo di tornare a casa!»

«Tu non puoi pretendere nulla, Madamoiselle. Sei mia ospite. Io sono il padrone di casa. Non puoi dare ordini a me – sono stato abbastanza chiaro?»

La sua voce era tonante e freddissima. Rabbrividii fin nel midollo.

«Non hai risposto alla mia domanda. Sono tua prigioniera? Che cosa mi hai fatto, mi hai drogata di nuovo?»

Lui scoppiò in una risata priva di gioia.

«Non mi pare di aver accennato a nessuna prigionia, qui. Ripeto, sei mia ospite. Tua madre pregava che qualcuno ti aiutasse senza però essere costretta a portarti in ospedale. Una richiesta quasi impossibile, dal momento che la febbre cerebrale che ti ha colpito è stata fulminante. Ma io ho i miei mezzi. Le ho proposto di curarti io stesso, e lei ha accettato.»

«Cosa? E perché avresti dovuto fare una cosa del genere?»

«Perché ho promesso di vegliare su di te, piccola insolente che non sei altro. C'è un accordo effettivo tra me e tua madre, non lo dimenticare.»

Rabbrividii. Eccolo lì, il mio angelo guardiano… Terribile come solo un angelo sa essere.

«Sei rimasta priva di sensi per quattro giorni.»

«Quindi sono quattro giorni che mi trovo in questa catacombe?»

Lo vidi serrare il pugno – segno che era irritato dal mio inesistente rispetto verso la sua dimora.

«Sì.»

Evitai di farmi prendere dal panico e lanciargli un cuscino in faccia – cosa che comunque non sarei riuscita a fare, ero ancora troppo debole. Decisi di ponderare con razionalità quanto mi aveva detto.

Mia madre si fidava a tal punto di lui? Nella disperazione e nel timore di perdermi, forse aveva acconsentito a quest'ultimo tentativo di salvarmi, ma non potevo credere che Erik avesse compiuto un atto tanto generoso senza altri scopi in mente.

«Voglio tornare di sopra.»

«Non puoi.»

«Allora ammettilo che sono solo tua prigioniera!»

«Ti ripeto che sei mia ospite. Non puoi andartene: sei ancora troppo debole. È già un miracolo che tu riesca a stare in piedi oggi.» Inclinò il capo, come per riflettere. «In effetti, lo devi a me. Tua madre non ti ha insegnato a mostrare un po' di gratitudine?»

«Ah, grazie tante!» esclamai, ora furibonda. Come osava portarmi lì, sotto la terra, senza il mio consenso, per poi impedirmi di andarmene quando volevo? Non avevo nessuna intenzione di trascorrere altro tempo in balia di quell'uomo.

«Hai rischiato di morire per la tua poca accortezza, e ora sei salva. Cos'altro desideri, Madamoiselle?» disse lui con un tono che traboccava acredine.

Mi sollevai le coperte fino al mento, sentendomi nuda sotto la pelle.

«Cosa vuoi da me? Cosa mai puoi volere da una come me?»

Lui non rispose, imponente, terrificante nel suo silenzio di brina. Sbuffai e scostai le coperte, ignorando che sotto la veste le mie gambe erano nude e avevano un disperato bisogno della ceretta. Misi un piede a terra, tentai qualche passo esitante. Mi sentii incredibilmente pesante, io che ero tanto minuta e leggera, e le mie gambe erano troppo fiacche per reggere un peso simile. Crollai a terra dopo quattro passi, i piedi nudi sul pavimento gelido.

Erik avanzò lentamente, come dinanzi a una bestiolina ferita. Questo pensiero mi fece stridere i denti dalla rabbia.

«Non ti avvicinare» gli intimai, ma queste parole non ebbero su di lui un grande effetto, specialmente perché avevo cominciato a tossire in modo violento e convulso, soffocando il viso nel palmo di una mano tremante. In pochi passi egli mi raggiunse e mi sollevò come fossi stata una bambola di creta, deponendomi sul letto e coprendomi con le coperte dal calore invitante. Mi ribellai debolmente, ancora impegnata a tossire.

«Lasciami stare.»

«E farti morire? È questo che vuoi?»

«A te cosa diavolo importa?»

«Attenta a come parli.»

«Attento tu, invece! Non mi meraviglio se non mi fido di te – dopo tutte le meschinità che…»

Tossii di nuovo, più forte di prima. Erik mi tese un bicchiere d'acqua che era posato sul comodino accanto al letto. Lo guardai sospettosa. Mi parve di intravedere un lampo di malinconia in quelle pupille d'oro fuso, inquietanti come quelle di un gatto e altrettanto disumane.

«Non è veleno. Se avessi voluto ucciderti, non saresti qui ora, te lo garantisco.»

Decisi di credergli, almeno questa volta, e bevvi avidamente. Mi sembrò che anche la mia mente si rinfrancasse da quell'orribile risveglio.

«Anche Madamoiselle Daaé sapeva che avevo i mezzi per aiutarti, e ha richiesto che facessi qualcosa per te. Per questo ti ho portata qui.»

«Mi hai intrappolata qui, vorrai dire.»

Lui strinse la mascella. «No. Puoi andartene quando vuoi. Anche adesso, se lo desideri, ma sappi che in queste condizioni, se non sei sotto la mia stretta sorveglianza, potresti rimetterci parecchio. La decisione spetta a te.»

Fece per voltarmi le spalle, ma io scattai in avanti, malgrado la debolezza, e gli afferrai un polso ossuto. «Non te ne andrai fin quando non saprò chi sei davvero, qual è il tuo vero scopo – perché dubito che tu sia divenuto un filantropo così d'improvviso, e…»

Lui si divincolò dalla mia molle presa in un battito di ciglia e strinse a sua volta il mio polso in una morsa ferrea.

«Forse non ci siamo capiti. Questa è casa mia. Sei mia ospite, e se rimani qui non dovrai vagare per la casa, né disturbarmi mentre lavoro. Chiaro?» Il suo tono di voce era così raggelante che mi parve di aver ricevuto una secchiata d'acqua gelida addosso. Deglutii a fatica e mi divincolai a mia volta dalla sua presa. Sperai di avergli conficcato le unghie nella pelle di cera.

«E non dovrai toccare la maschera di Erik.»

Mi diede quest'ultimo monito con una tale solennità che mi sentii più piccola di quanto già non fossi. Una sciocca, piccola bambina cocciuta, sempre pronta a infilarsi in guai più grandi di lei.

Erik girò i tacchi e sparì oltre la porta, che – notai – non richiuse a chiave dietro di sé. Forse confidava così tanto nelle sue capacità minatorie da essere convinto di avermi intimorita. Si sbagliava. Non aveva, non poteva avere nessuna influenza sulle mie decisioni e azioni. Non sarei stata sua umile schiava finché fossi rimasta lì, in quella spiacevole compagnia – non sapevo chi dei due detestasse più l'altro.

Eppure, a quanto diceva, mi aveva salvato la vita. Ricordai la voce del dottore tra i miei deliri. Mi era arrivata alla mente come l'unica nota giusta su un pianoforte male accordato. Aveva detto che molto probabilmente non mi sarei più ripresa dalla febbre cerebrale, che niente avrebbe potuto farmi ritornare com'ero prima. A quanto pare si sbagliava.

Come aveva potuto curarmi meglio di un qualsiasi medico? Era lui stesso un esperto in medicina o cosa? Da quel che avevo capito, era un genio musicale, ma non sapevo di altre sue eccellenti doti. Quell'uomo era una continua sorpresa.

E anche un incubo. Ovviamente aveva accettato di curarmi non perché preoccupato per la mia sorte, ma per impressionare Christine. O forse per tenermi lì come ostaggio. Sì, tutto quadrava perfettamente.

Quel bastardo…

La testa cominciò a pulsarmi dolorosamente. La febbre era calata, ma Erik aveva ragione: ero ancora molto debole e la tosse mi angustiava i polmoni e la gola. Era naturale che volesse tenermi d'occhio: se le mie condizioni fossero peggiorate, lui sarebbe stato pronto per intervenire sul momento. Mi presi la testa fra le mani: non volevo essere salvata da nessuno, tanto meno da lui – non ne avevo bisogno. E tuttavia, in quella situazione…

Mi feci coraggio e pensai di rimanere. In fondo, lui mi aveva detto di stargli lontano. Finché avessi seguito i suoi ordini, la convivenza sarebbe stata pacifica. La rabbia mi ringhiò dentro fin nelle viscere al solo pensiero di fare il bravo soldatino con quel comandante di ferro, ma decisi che era meglio subire questa umiliazione che rischiare di stare male di nuovo.

Chiusi gli occhi, stringendomi nelle coperte calde. Mi trovavo nella stanza di Christine, la camera in stile Luigi Filippo che lei mi aveva tanto meticolosamente descritto pochi giorni prima. Mi chiesi se Christine avrebbe continuato le lezioni col suo maestro, ora che anche io ero lì per udirle. Forse Erik avrebbe trovato un altro modo perché s'incontrassero – perché era certo che Christine sarebbe tornata da lui, non solo per la musica, ma per pietà e paura insieme. La sofferenza di quell'uomo – non dubitavo che ne avesse provata tanta fin dalla nascita – lo aveva condotto su un sentiero pericoloso. Lo aveva trasformato nel mostro che tutti temevano senza che nemmeno se ne accorgesse. Si era arreso all'evidenza, nell'unico modo in cui poteva capire se stesso: attraverso gli occhi degli altri. E in quell ritrovava solo disgusto, paura, repulsione, addirittura odio. Non c'era da meravigliarsi per come era venuto su. Malgrado i suoi modi… gentili, quasi servili, verso Christine (eccetto per l'episodio della maschera, in cui aveva rivelato quanto la sua furia potesse essere spaventosa a vedersi, e la sua vera natura), dubitavo che mi avrebbe trattata con le medesime maniere da gentiluomo. Ero una spina nel fianco, non l'oggetto dei suoi desideri. Non aveva nessun obbligo nei miei confronti, se non la parola data a mia madre e alla sua pupilla.

Posai la testa sul cuscino, improvvisamente insonnolita di fronte a tutte quelle riflessioni. Magari potevo chiudere gli occhi solo per qualche istante e dimenticare…



Quando mi svegliai, mi sentii decisamente meglio, tanto da potermi alzare in piedi. Ero ancora malaticcia, ma me la sarei cavata. Le ombre mi abbracciavano con dolcezza, ma non sapevo che ora fosse. Accesi la luce – come aveva fatto quell'uomo a costruire un impianto elettrico sotto la terra? – e mi ricordai del bagno di cui Christine mi aveva parlato giorni prima. Scivolai giù dal letto e caracollai verso una porta a destra che conduceva nel luogo da me desiderato. Era una piccola stanza confortevole, grande abbastanza perché potesse entrarvi anche la vasca. Lo specchio della toilette mi aveva rivelato un volto scavato e livido in modo malsano, con incipienti solchi intorno agli occhi, ma comunque vivo. I capelli erano un groviglio orribile. Con un sospiro, riempii la vasca di acqua caldissima (mi chiesi di nuovo come avesse fatto a impiantare un sistema di tubature in quel luogo dimenticato da Dio, e – immaginavo – da solo), mi sfilai la vestaglia madida di sudore e ormai maleodorante e mi lasciai andare a quella stretta rinfrancante. Mi spazzolai i capelli, districando i numerosi nodi uno per uno finché non furono lisci, ma privi della lucentezza dei riccioli di Christine. Li pettinai con un tale trasporto che parecchie ciocche si strapparono dal cuoio capelluto così violato. Canticchiai sotto voce – in modo terribile – un'aria di cui non rammentavo il nome e l'autore, per darmi forza. Solo allora cedetti alle lacrime: sarei dovuta rimanere lì per chissà quanto tempo, costretta dalla malattia. Furiosa, cominciai a imprecare in una maniera tale che avrebbe fatto arrossire persino Jacques e Pierre, i macchinisti amici di Luc. Ripensare a lui in quel momento faceva troppo male, così volsi i miei pensieri su mia madre: ancora peggio.

Mi asciugai in fretta – il bagno caldo mi aveva ristorato – e tornai nella stanza Luigi Filippo. In un armadio di legno di mogano trovai un assortimento di abiti femminili, probabilmente destinati a Christine, e senza pensarci troppo su ne scelsi uno, di un rosa pallido che risaltava la mia carnagione scura, e lo indossai. Era un po' troppo lungo per la mia taglia, ma potevo arrangiarmi. Mi avvolsi in uno scialle di lana, infilando i piedi in delle scarpine troppo grandi per me. Anche quelle erano per Christine, senza dubbio. Con un brivido, aprii la porta da cui era uscito Erik e curiosai in giro. Mi trovai in un salotto simile a tanti altri, con poltrone rivestite in velluto carminio dall'aria comoda e mura bianche di calce. Qualcosa catturò il mio sguardo girovago: un pianoforte a coda, lucido e invitante nella sua magnificenza. Terribile e bellissimo come la voce del suo proprietario.

Mi avvicinai allo strumento, attirata da una forza sovrumana. Mille ricordi mi gremivano la mente: rammentai quando mio padre, celebrato pianista, mi insegnava le prime note sul pianoforte. Ero una bambina incredibilmente indisciplinata, ma mio padre era un uomo paziente e riuscì nell'intento di insegnarmi a suonare. Dopo la sua morte, non avevo più toccato il pianoforte.

La mia attenzione fu catturata dagli scaffali ricolmi di libri di ogni genere e grandezza: volumi rilegati in cuoio antico, pergamene, edizioni nuovissime – un vasto assortimento che avrebbe fatto la felicità di ogni amante della lettura. Io non lo ero, ma mi incuriosii ugualmente. Con la punta delle dita, accarezzai quasi con riverenza quelle pagine d'inchiostro e anima, e d'un tratto non mi sentii più così sola. Presi un volume dall'aria antica, dalla copertina dorata e i caratteri illeggibili: non era scritto in una lingua occidentale, questo era certo. Forse era arabo, o ebraico. Cercai di capire di cosa parlasse, ma senza successo. Lo riposi al suo posto, continuando la mia indagine. Libri di musica, filosofia, architettura, e persino romanzi – intravidi tra questi Il conte di Montecristo, di cui avevo sentito parlare. Afferrai un libro il cui titolo mi attirava: Cime Tempestose, di una certa Emily Brontë. Forse ne fui attratta perché era stato scritto da una donna. Avevo sentito parlare di poche scrittrici all'epoca: la mia ignoranza in materia di letteratura, francese e internazionale, era illimitata.

Arretrai, urtando un corpo solido alle mie spalle. Con un brivido, mi voltai di scatto e mi ritrovai faccia a faccia con Erik e la sua maschera impassibile. Trasalii: non l'avevo sentito avvicinarsi.

«Mi dispiace…» furono le prime parole che mi vennero in mente. Mi affrettai a riporre il libro sullo scaffale. «Mi annoiavo, e…»

«Ti annoiavi» mi fece il verso lui, le braccia conserte. Così vicini, torreggiava su di me, che ero molto minuta. Gli arrivavo appena all'altezza del cuore.

«Mi chiedevo se potevo leggere qualcosa per passare il tempo. Mi hai detto che sono tua ospite.»

«Hai buona memoria» disse lui, in tono indecifrabile.

Chinai il capo, sorpresa per quel complimento improvviso, ma consapevole che non aveva finito di parlare.

«E con una buona memoria, ci si aspetterebbe che tu ricordi gli avvertimenti che ti vengono dati!»

Ecco, per l'appunto.

«Mi annoiavo» ripetei, impudente.

«Non puoi girovagare come nulla fosse quando ti ho chiesto espressamente di non farlo!»

«Non puoi darmi degli ordini come se fossi una tua sottoposta!»

«Ma questa è casa mia! Fin quando sarai qui, seguirai le mie regole!»

I nostri sguardi – carbone e oro – sembravano pervasi da una strana elettricità mentre ci fissavamo in silenzio, come cani rabbiosi che si preparano all'attacco. Cominciò a girarmi la testa. «Non credo di aver fatto nulla di male…»

«Mi hai deliberatamente disobbedito, piccola imbecille!»

«E adesso cosa hai in mente di fare? Sculacciarmi?» dissi senza curarmi della mia insolenza. Le tempie iniziarono a pulsarmi dolorosamente. Un senso di nausea mi afferrò alla bocca dello stomaco con tanta forza che rimasi senza fiato.

«Tieni a freno la lingua, Meg Giry!»

Cominciai a tossire violentemente, ma lui andò avanti con la sua sfuriata incredibilmente irritante.

«Sciocca, impudente ragazza…»

Le sue parole si confusero nella mia mente come colori su una tavolozza, mischiati sapientemente da un pittore ubriaco. Oscillai e gli afferrai un braccio, stringendolo in una morsa di ferro per evitare di crollare a terra.

Non feci in tempo a sentire altro che il buio m'inghiottì, risucchiandomi in un abisso senza luce.



Quando mi destai, ero nel letto a baldacchino, ed Erik mi sovrastava.

«Hai dormito bene?» mi chiese, stranamente gentile.

Annuii, senza ben sapere cosa fosse accaduto. «Mi è ritornata la febbre?»

«Sì, ma ho fatto in modo che calasse di nuovo. Hai fame?»

Scossi la testa in un debole cenno di diniego.

«Peccato. Dovresti mangiare.»

«Anche tu. Sei così magro.» Lo avevo dedotto dai suoi polsi ossuti, dall'impalcatura scheletrica del suo strano corpo. Sembrava che qualcuno gli avesse stirato le membra una ad una.

Lui sbuffò sotto la maschera nera. «Da che pulpito.»

Non aveva tutti i torti: anch'io ero spigolosa – un fascio di nervi e ossa, la pelle attaccata ad esse tirata e sottile.

«Se mangio qualcosa, darò di stomaco.»

«Come desideri. Ti ho nutrita con acqua e miele in questi giorni, ma da domani in poi dovrai mangiare qualcosa di solido con le tue sole forze. Chiaro?»

Annuii debolmente. Qualcos'altro attirò la mia attenzione: un verso improvviso, lo strusciare di piccole zampe sulla stoffa.

«Figaro.» Ero a dir poco sorpresa di trovarlo lì. Con i suoi occhi verdi risplendenti, si acciambellò sul mio grembo, e io lo grattai distrattamente dietro le orecchie.

«Questo gatto appartiene a te?» chiesi ad Erik, sperando in una risposta che non fosse l'ennesimo enigma.

«Appartiene all'Opera.»

«E di conseguenza tutto ciò che appartiene all'Opera è anche tuo.»

Erik non rispose, ma sapevo di aver colto nel segno.

«Come fa a superare il lago?»

«Nessuno può superare la Sirena.»

La Sirena? Ah, certo: il trucco della voce. Mi domandai come si fosse inventato una cosa simile; dovevo ammettere che era ingegnoso.

«E allora come fa?»

«Non si arriva qui solo attraverso il lago.»

Ah-ah. «E quali sarebbero queste strade nascoste, praticate regolarmente da gatti randagi?»

«Già hai curiosato abbastanza.»

Erik mi tese una fiala di vetro soffiato che emanava un odore ambiguo, traboccante di liquido verdastro. Arricciai il naso quando me la cacciò in mano senza tanti complimenti.

«Che roba è?»

«La tua medicina. Prendila, non è veleno.»

Potevo fidarmi? Decisi di rischiare e ne sorbii un sorso. Subito sputacchiai tutto, in un modo tanto disgustoso da far storcere il naso ad Erik – anche se secondo Buquet non ne aveva uno.

«Cosa ti aspettavi, vino speziato?»

«Non di certo una porcheria simile.»

«Il linguaggio.» A quanto pareva le parole volgari gli davano fastidio: me lo appuntai nella mente come riferimento per il futuro. Se mai avessi voluto irritarlo, sapevo cosa fare.

Mi feci coraggio e tracannai il contenuto della fiala in un solo sorso. Le mie labbra si deformarono in una smorfia di disgusto. «Nauseante.»

«Dovresti mostrare più rispetto. Sono erbe rare, e un preparato difficile da ottenere.»

«E tu dove hai preso gli ingredienti? Chi ti ha insegnato a preparare questo composto?»

«Ho viaggiato molto.»

«Non è una risposta sufficiente.»

«Tua madre ti ha detto che per un po' di tempo ero in una carovana di gitani, bohemién, vagabondi e artisti circensi. In quei luoghi si può imparare molto, se uno sa dove cercare.»

«Conosci bene le erbe medicinali, dunque?»

«Abbastanza da riuscire a curare la tua febbre cerebrale come un qualsiasi medico. Senza chiedere compenso.»

«Eccetto la mia prigionia qui.»

«Non sei assolutamente prigioniera. E credimi, questo è più un fastidio che altro.»

Dovevo credergli? Decisi di rischiare. «Se guarisco…»

«Guarirai. Te lo assicuro.»

«Ebbene, quando guarirò potrò andarmene di qui, vero?»

«Assolutamente. Prima sarà, meglio è.»

«Per una volta concordiamo su qualcosa.»

Colsi un lampo di divertimento nei suoi occhi felini. «Così sembra.»

Poi tirò fuori qualcosa dalla tasca della giacca e me lo porse. Era un libro, lo stesso che aveva attirato la mia attenzione quando ero andata a curiosare in soggiorno: Cime Tempestose.

Lo osservai a bocca spalancata.

«Sul serio?»

«Se questo significa che non mi disturberai più e non andrai in giro a ficcanasare, allora ti permetto di leggere i miei libri. A patto che – ripeto – tu non vada a ficcanasare.»

«Affare fatto.»

Accettai il regalo e lo sfogliai avidamente. Non volevo addormentarmi di nuovo, non ora che mi sentivo meglio, e leggere era pur sempre meglio di niente.

«Dimmi, è un bel libro?»

«Questo dovrai scoprirlo da sola.»

E se ne andò, rapido com'era apparso. Una visione in nero. Accarezzai la corta pelliccia di Figaro, che dormicchiava sulle mie ginocchia, e cominciai dalla prima pagina.

Forse una convivenza era possibile, se ognuno rispettava gli spazi dell'altro – un po' difficile, dal momento che lui era tenuto a vegliare su di me in caso mi sentissi di nuovo male. Eppure era fattibile. Un bocciolo di speranza mi fiorì nel petto. Forse sarei sopravvissuta a tutto quello, e magari nessuno si sarebbe fatto male.



Note dell'autrice: Salve a tutti, eccomi tornata. Da qui in avanti le cose cambieranno per Meg e il nostro fantasma preferito, anche se non così repentinamente. Vorrei anche precisare una cosa: non sono una dottoressa, quindi non sono esperta, ma per esperienza semi–personale posso dirvi che quel che Meg ha avuto è stato un delirio psicotico causato dalla febbre e dal trauma subito (che si scoprirà fra non molto, non temete). All'epoca non esistevano termini simili per le malattie mentali, da qui la "febbre cerebrale" di cui hanno sofferto tanti personaggi dei libri ambientati nell'Ottocento (per dirne una, la stessa Catherine in Cime Tempestose).


Malinconica: Cara, ci hai azzeccato in pieno quando hai detto che Meg ha paura che i dottori "la portino via", e che questo è collegato a qualcosa che è accaduto al padre, ma i dettagli si sveleranno più avanti (fra non molto, non disperare. Non è comunque chissà quale sorpresa XD). Ma perché disprezzi tanto Raoul? Nel fandom italiano vedo che lo odiano tutti, mentre in quello inglese (i fan che frequento io su Tumblr, perlomeno) le cose vanno decisamente meglio. Peccato, perché io lo adoro (a quanto pare sono l'unica XD). E sì, avrà i suoi difetti, ma mai quanto Erik, non dimentichiamoceli. XD Io lo trovo genuino nel suo amore per Christine, pronto a sacrificare tutto (la sua vita, il suo status sociale, il buon rapporto con il fratello) per lei. Raoul/Christine = OTP. E All I ask of you è la canzone che farò suonare al mio matrimonio, se mai mi sposerò! XD Vabbè, si possono avere opinioni diverse, no? Il mondo è bello perché è vario. ^^ Grazie mille per aver recensito, spero che ti piaccia anche questo capitolo, e di non deluderti.

   
 
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