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Autore: Adeia Di Elferas    25/03/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Si udirono distintamente i passi dei rivoltosi lungo l'ingresso, poi sulle scale, fino alla stanza in cui Caterina e la sua famiglia avevano sperato di trovare riparo.
 Solo alcuni si fermarono davanti alla porta. Gli altri, quasi tutti cittadini resi ribelli dall'occasione e non veri e propri congiurati, si misero a saccheggiare e distruggere ogni stanza del palazzo dei Riario.
 “Aprite questa dannatissima porta!” ruggì la voce di Ludovico Orsi, mentre lui e i suoi compari battevano pugni e calci contro l'uscio chiuso.
 Caterina non mosse un dito per favorirli. I suoi figli si erano stretti a lei e così avevano fatto pure sua sorella e sua madre. Sforzino stava in braccio a Lucrezia e aveva cominciato a piangere, spaventato da tutto quel fracasso.
 Alla fine, la forza dei congiurati ebbe la meglio contro la porta bloccata da qualche mobile e da qualche giocattolo.
 Per prima cosa, Ludovico Orsi buttò nella stanza due donne – le due balie – entrambe in lacrime, coi vestiti stracciati e macchiati di sangue.
 Caterina fece loro segno di raggiungerla e quelle eseguirono subito, mettendosi alle spalle della loro signora, in cerca di protezione.
 I bambini, che fino a pochi secondi prima – a parte Sforzino – erano riusciti a mantenere una certa calma, presero a singhiozzare tutti a tempo e così fece anche la loro zia Bianca.
 Caterina restava davanti a tutti loro, le braccia allargate, come a volerli proteggere con quel misero gesto e guardava con aria di sfida quelli che avevano osato arrecarle tanto danno in una sola sera.
 Ludovico Orsi, affiancato a Checco Orsi stava alla testa di un manipolo inferocito di uomini che brandivano torce e armi di ogni tipo.
 Il pianto dei bambini e delle donne, le minacce degli uomini, il clangore delle armi, tutto questo stava riempiendo le orecchie di Caterina, che non riusciva più a orientarsi in quella confusione.
 “Adesso basta!” gridò, parimenti rivolta ai suoi avversari e alla sua famiglia.
 Entrambe le formazioni restarono tanto colpite da quell'improvvisa esclamazione da zittirsi tutto d'un colpo.
 Perfino Sforzino smise immediatamente di piangere, aprendo i grandi occhi innocenti e puntandoli verso la madre.
 “Voi, Orsi!” riprese Caterina, puntando il dito verso Ludovico e Checco: “Voi, che vi proclamavate tanto amici di mio marito...!”
 Ludovico ghignò beffardo, mentre Checco restava immobile, una spada nel pugno, il viso completamente sporco del sangue del defunto Conte.
 “Sappiate che mentre voi facevate scempio del corpo del Conte Riario, io ho mandato la mia miglior staffetta a Milano e prima che ve ne rendiate conto, sarete sopraffatti dalle armate sforzesche comandate da mio zio!” li redarguì Caterina, sperando che gli Orsi si bevessero quella gigantesca frottola.
 “Prima che i soldati di vostro zio entrino in città, Forlì sarà già nelle mani di un nuovo signore scelto dal papa in persona – ribatté Ludovico Orsi, ravvivando il morale dei suoi, che si erano un tantino spenti alle parole di Caterina – e allora non potrà più ordinare un attacco, a meno che non voglia muovere guerra a Sua Santità.”
 Caterina esitò un istante, ma non troppo: “Ravaldino non cadrà mai e senza quella rocca, potete scordarvi di governare su questa città.”
 “Sappiamo bene come ottenere quella rocca, mia signora...” disse Ludovico Orsi, sorridendo mellifluo: “Sarete voi stessa la chiave per ottenerla.”
 A quelle parole, Ludovico fece un gesto e alcuni di quelli che lo seguivano mossero qualche passo verso la Contessa.
 Caterina, che voleva prender tempo per permettere al servo che aveva inviato a Ravaldino di trovare Tommaso Feo, tentò per l'ultima volta di rallentare le mosse degli Orsi: “Potremmo trattare, Ludovico. Voi siete un uomo astuto e incline all'azione più che al ragionamento, lo ammetto, ma conoscete anche il valore della diplomazia.”
 “Io non tratto con i prigionieri.” la bloccò subito Orsi, sputando in terra e dando l'ordine definitivo ai suoi.
 Mentre due uomini si affiancavano a Caterina, stringendole le braccia affinché non tentasse di scappare, questa buttò lì: “Fate anche solo un graffio a un membro qualsiasi di questa famiglia, balie incluse, e non avrete mai e poi mai la rocca di Ravaldino. Il castellano vi cederà la rocca solo se io gli assicurerò che a nessuno di noi è stato fatto del male.”
 “Parlate quanto volete, io non vi ascolto più. Non siete più la Contessa Riario, ma solo una povera condannata a morte.” concluse Ludovico e con ciò uscì dalla stanza, mentre la sua manovalanza si occupava dei prigionieri.

 Caterina apriva la fila di prigionieri, ma sul suo viso non c'era traccia di paura, né di sconfitta.
 Teneva il mento alto, gli occhi fissi verso l'orizzonte, le labbra strette in un'espressione implacabile e ferale.
 Dietro di lei seguivano la sorella, la madre, che portava in braccio il piccolo Sforzino, gli altri bambini e poi le balie.
 I forlivesi, che fino a un minuto prima stavano gridando e inneggiando a un nuovo signore – benché nessuno sapesse chi sarebbe stato questo fantomatico figuro – ammutolirono come un sol uomo, nel veder uscire dal palazzo quel curioso drappello di persone.
 Nella piazza, quasi illuminata a giorno dalle fiaccole portate dai presenti, si formò un corridoio strettissimo per permettere ai prigionieri e ai loro aguzzini di passare.
 Gli Orsi, che avevano sperato di vedere la folla accanirsi sulla Contessa e sui suoi bambini almeno a parole, restarono stupiti e molto infastiditi da quel silenzio surreale.
 Caterina non guardò nessuno dei forlivesi cui stava passando accanto. Nemmeno si accorse che, a pochi metri da lei, con uno sguardo affranto e le guance fradice di lacrime, c'era Andrea Bernardi, testimone impotente di una simile disgrazia.
 'Io vi ho curati dalla peste – pensava Caterina, con rancore – e voi avete appena fatto a pezzi mio marito e sareste pronti a fare a pezzi anche me, i miei figli, mia madre, mia sorella e le mie balie, se solo non aveste ancora tanta paura di me...'
 I prigionieri erano quasi arrivati al limitare della piazza, quando Checco Orsi decise che non poteva concludersi così, quella sceneggiata. Il popolo doveva capire che i Riario erano finiti, che la Contessa e i suoi non valevano più nulla, che ora erano gli Orsi i padroni e che erano loro a poter fare quello che volevano senza dover rendere conto a nessuno.
 Così, sperando di mettere in ridicolo i prigionieri o, quanto meno, di affermare la sua autorità, prese a frugare Bianca, la sorella di Caterina.
 Le sollevò le gonne e la infilò con malizia una mano nella scollatura dell'abito, chiedendo, a voce molto alta: “Che nascondi qui? Gioielli? Monete?”
 Bianca, così presa alla sprovvista, non reagì in alcun modo. Non riuscì nemmeno a opporsi verbalmente a una simile aggressione.
 Fu Caterina a reagire al suo posto.
 Ignorando Ludovico, che le diceva di andare avanti a camminare, Caterina si bloccò, scansò Checco Orsi, allontanandolo da Bianca, mentre la folla si scostava appena per permettere queste azioni concitate e poi, appena prima che Checco potesse muoverle qualche minaccia o colpirla, Caterina gli assestò un sonoro schiaffo in pieno viso.
 I forlivesi restarono senza parole e così anche Checco, che non riuscì a fare altro se non poggiarsi una mano sulla guancia cremisi e farfugliare confusamente qualche ordine ai suoi, affinché riportassero la prigioniera nei ranghi.
 I congiurati si affrettarono a portare a termine la traduzione dei prigionieri fin nel palazzo degli Orsi, prigione posticcia scelta all'unanimità.
 Alle loro spalle si lasciavano una piazza completamente silenziosa, per quanto affollata, e una figuraccia che difficilmente avrebbero fatto dimenticare ai loro futuri sudditi.
 Per quanto i cittadini di Forlì fossero ancora convinti che quella notte il dominio dei Riario fosse giunto al termine, nessuno di loro poté dire che la Contessa ne era uscita a capo chino.

 “Proprio così vi ha detto? Ne siete sicuro?” chiese Tommaso Feo, tenendo stretto per un polso il giovane servo appena arrivato alla rocca.
 “Sì, ha detto proprio così: che non le serve un uomo innamorato. Non so cosa intendesse dire, ma mi ha detto che voi avreste capito...” assicurò il domestico, quasi in lacrime dalla paura e dall'incredulità di essere riuscito a compiere una missione tanto perigliosa.
 Tommaso Feo lo lasciò andare di colpo, gli picchiò sul petto una scarsella piena di monete e lo congedò: “Dio sia con voi, trovatevi un posto sicuro e non dite a nessuno di essere stato qui stanotte.”
 Il servo non se lo fece ripetere e corse via, stringendo a sé la ricompensa per il suo sprazzo di coraggio.
 Tommaso Feo aveva sentito dei rumori inquietanti, delle grida e aveva visto il bagliore delle fiaccole in città, ma mai, mai e poi mai avrebbe creduto che infine qualcuno era riuscito a uccidere il Conte Riario.
 Le parole della sua signora erano state chiare. E con quell'ultima precisazione, Caterina aveva voluto far intendere al castellano che i suoi ordini andavano presi alla lettera e che in nessun modo sarebbero state ammesse iniziative personali.
 Non le serviva un uomo innamorato, ma un soldato leale e affidabile.
 “Chi è là?” sentì gridare una delle sue guardie.
 “Corradino Feo e Andrea Ricci!” rispose una voce che Tommaso conosceva benissimo.
 Si mise a correre verso l'ingresso e, anticipando le parole della guardia, gridò al suo parente: “Corradino! Entrate, presto, prima che le porte vengano chiuse!”
 Corradino e Ricci fecero il loro ingresso nella rocca assieme a quel che restava della guardia cittadina, decimata dalla furia popolare dopo la morte del bargello.
 “Che tragedia! Che tragedia...!” ebbe il fiato di dire Corradino, mentre Tommaso gli andava incontro: “Dobbiamo subito andare a liberare la Contessa...!”
 “No. Ho avuto ordini precisi da parte sua e so quel che dobbiamo fare.” lo contraddisse Tommaso con fermezza.
 Andre Ricci cadde di colpo in terra, privo di sensi e solo allora il castellano si accorse che il Governatore era ferito seriamente. Guardò Corradino e vide, alla luce malferma delle torce, che pure lui sanguinava molto da una ferita all'addome.
 “Per Dio, siete feriti entrambi... Presto! Portateli dal cerusico, che li medichi subito!” ordinò Tommaso e, prima che i soldati della rocca eseguissero l'ordine, ribadì al suo parente: “So quello che faccio, fidatevi di me, perchè io farò solo ed esclusivamente quello che la Contessa mi ha ordinato di fare.”
 Corradino annuì e si lasciò portare nei locali del cerusico e così Andrea Ricci e gli altri feriti.
 “Alzate il ponte!” ordinò Tommaso Feo, sporgendosi verso gli arganisti: “Che nessuno entri e nessuno esca da questa rocca fino a nuovo ordine!”
 Andò poi ad affacciarsi sulle merlature, mentre il pesante ponte levatoio scricchiolava come a protestare per quella presa di posizione del suo castellano.
 Appoggiandosi alla fredda pietra, Tommaso guardò in direzione del palazzo dei Riario e si chiese con angoscia se mai avrebbe rivisto viva la sua amata Contessa.

   
 
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