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Autore: Adeia Di Elferas    26/03/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Nel palazzo dei Riario, orrendamente devastato e svuotato da tutti i preziosi, quella stessa notte Checco e Ludovico Orsi convocarono il Consiglio degli Anziani.
 Tutti gli aventi diritto entrarono nelle sale del potere stando ben attenti a non calpestare troppo le tracce di sangue lasciate in terra dalla guerriglia che aveva avuto luogo fino a pochi minuti addietro, e presero posto a fatica su qualche sedia salvata in extremis dall'avidità della folla inferocita.
 “Prima di tutto – cominciò Checco Orsi, gonfiando il petto e puntellando i pugni sui fianchi – vorrei ricordare a tutti voi, stimatissimi concittadini, che io sono colui che ha avuto il coraggio di compiere l'eroico gesto. Io vi ho liberati dal tiranno. Inoltre io sono il capo della guarnigione e i miei uomini sono rimasti fedeli a me e presidiano la città.”
 Qualcuno vociò, ma nessuno osò pronunciarsi apertamente contro Checco, perchè Ludovico Orsi, ben ritto e con le armi ancora in mano, guardava torvo i presenti, minacciandoli silenziosamente.
 “Lungi da me criticare l'operato di Checco Orsi – prese a dire Nicolò Tornielli, il capo dei magistrati – però dovrete ammettere con me che senza una protezione da uno Stato potente, non abbiamo possibilità di mantenerci liberi.”
 “Che intendete dire?” domandò Ludovico Orsi, indispettito.
 “Che Ludovico Sforza non lascerà morire la nipote senza pretendere vendetta. Che Firenze non accetterà mai la formazione di un nuovo Stato indipendente così vicino ai suoi confini. Che Roma non si priverà mai di una città strategicamente importante come Forlì.” elencò Tornielli, tenendo il conto con le dita: “E, non ultimo, miei cari concittadini, come pensiamo di far cadere la rocca di Ravaldino? Anche se avessimo un esercito, non potremmo mai espugnarla e finché la rocca non cade, tutti noi rischiamo di divenire carne da cannone!”
 “La rocca cadrà!” lo contraddisse Ludovico Orsi, ridendo: “Il castellano ce la cederà non appena vedrà la sua amata Contessa in pericolo e noi avremo Ravaldino in men che non si dica.”
 “Intendete forse far davvero del male alla Contessa per convincere il castellano di Ravaldino a dichiararsi sconfitto?” domandò attonito Tornielli.
 Tutti i membri del Consiglio attendevano con ansia la risposta degli Orsi. Ormai pareva uno scontro tra loro due e il capo dei magistrati. Entrambi sembravano avere argomenti convincenti ed era difficile decidere da che parte schierarsi.
 “Certo. È nostra prigioniera. Possiamo far di lei quel che vogliamo.” assicurò Checco Orsi, ritrovando la parola.
 “Folli.” decretò Tornielli, con sicurezza: “Se le farete del male, Ludovico Sforza arriverà cavalcando pancia a terra e trasformerà la nostra città in un cimitero.”
 “E allora che intendete proporre?” chiese uno degli Anziani, impaziente.
 “Chiediamo che il papa interceda. Che ci mandi un uomo di sua fiducia che ci aiuti nelle trattative. Lo Sforza abbandonerà in fretta e di buona grazia la nipote, pur di non scatenare una guerra con Roma.” decretò Tornielli: “Se il messo pontificio commetterà errori di valutazione o mosse azzardate, la colpa sarà solo sua e noi saremo ancora in tempo per prendere strade diverse.”
 Tutti gli Anziani presero ad applaudire a quelle parole e così gli Orsi si scambiarono un'occhiata significativa e carica di ansia.
 Non potevano confessare a nessuno che alle loro spalle c'era Lorenzo Medici. E non potevano nemmeno invocarne l'aiuto, non finché la rocca di Ravaldino non fosse caduta nelle loro mani.
 “E sia. Stendiamo subito un atto di dedizione alla Chiesa e poi mandiamolo a Cesena.” disse in fretta Checco Orsi, ricordandosi di quanto il Governatore pontificio di Cesena fosse un uomo facile da plasmare a proprio piacimento: “Che sia Giovanni Battista Savelli, sant'uomo molto vicino al papa, a risolverci questo problema.”
 Tutti quanti si trovarono d'accordo e così si apprestarono subito a stendere l'atto con cui Forlì si rimetteva alle cure di Santa Madre Chiesa.

 “Quell'idiota!” esclamò Caterina, mentre misurava a lunghi e nervosi passi la cella in cui era stata rinchiusa assieme al resto della sua famiglia e alle balie: “Quell'asino d'un Riario! Si è fatto ammazzare come un imbecille!”
 Da quando i congiurati avevano lasciati soli i prigionieri, Caterina non era ancora riuscita a trovare un attimo di requie.
 Se in pubblico aveva cercato di apparire risoluta, ma calma, appena si era trovata senza estranei a fissarla come se fosse una belva in gabbia, aveva dato sfogo a tutta la rabbia che aveva represso fino a quel momento.
 “Caterina, basta, calmati...” le disse Lucrezia, a voce bassa, cercando di farla stare ferma.
 La cella era quasi del tutto buia e priva di qualunque mobilio. Non c'era altro se non umidità e odore di muffa. Quei delinquenti degli Orsi non avevano nemmeno concesso ai prigionieri un giaciglio per il piccolo Sforzino.
 “Quel demente! Quel pazzo furioso! Quel...!” stava proseguendo Caterina, i denti digrignati e i pugni stretti lungo i fianchi.
 Lucrezia riuscì finalmente ad agguantarla per un braccio e la fissò, seppur nell'oscurità non potesse vederla più di tanto: “Caterina. Basta.” le diede un piccolo scossone: “Calmati.”
 Caterina, il respiro affannoso, cercò di dar reta a sua madre, ma era una penitenza.
 “L'hai odiato per sedici anni, adesso basta.” riprese Lucrezia, con tono fermo, ma materno: “È morto. Smettila di farti corrodere dall'odio. È morto, morto, capito? È finita. È morto.”
 Per la prima volta da quando aveva visto il cadavere di suo marito volare giù dalla finestra del palazzo dei Riario, Caterina si ritrovò a pensare che era vero, che Girolamo era morto davvero. La sua schiavitù era finita.
 Così pose con lentezza una mano su quelle della madre e, dopo un profondo sospiro, trovò la forza di dire: “Hai ragione. Basta odio.”
 Lucrezia le accarezzò una guancia e stava per dirle qualcosa, quando Sforzino cominciò a piangere per la fame.
 “Ci penso io...” disse piano una delle balie e per tutto il tempo della poppata, nessuno disse più nulla.

 Monsignor Savelli arrivò il giorno seguente in tarda mattinata e trovò ad accoglierlo una città ancora carica dagli avvenimenti della sera precedente.
 Nessuno aveva dormito, quella notte. Tutti erano troppo eccitati e agitati per riuscire a riposare.
 Quelli che erano riusciti ad accaparrarsi qualcosa nel palazzo dei Riario o al banco dei prestiti degli ebrei – che era stato saccheggiato con la stessa solerzia con cui erano stati saccheggiati i luoghi del potere – avevano trascorso ore e ore a nascondere la refurtiva. Altri, che erano stati più pavidi, avevano impegnato le ore dell'alba per spartirsi quello che era rimasto dopo il saccheggio principale.
 Andre Bernardi, non aveva chiuso occhio, scosso dal pianto per tutta la notte.
 Aveva sofferto come mai in vita sua nel vedere la sua amata Contessa sfilare come un prigioniero comune davanti alla popolazione e aveva patito anche vederne distrutta la dimora e trafugati i beni.
 Spinto dalla sua indole di cronista, aveva osservato ogni cosa, senza sottrarsi a quella che era una notte storica, ma mentre appuntava sul suo taccuino i fatti di quei concitati momenti, non aveva potuto evitare alle lacrime di impastarsi con l'inchiostro.
 Giovanni Battista Savelli si prestò con scarso entusiasmo alla cerimonia d'uso per prendere formalmente possesso di Forlì, anche se in modo temporaneo. Corse la piazza con un cavallo prestato dai forlivesi e, mentre quell'uomo di quasi cinquant'anni altezzoso e dalla barba arruffata, i cittadini che lo incitavano non poterono evitare di fare il confronto con una scena ben diversa avvenuta qualche anno addietro, quando la Contessa, giovanissima e in stato interessante, aveva corso la piazza con una gioia e un'intraprendenza seconda a nessuno.
 
 “Manderò il mio collaboratore, Domenico Galiani a parlare con la prigioniera.” spiegò Savelli, mentre gli Orsi gli porgevano i fogli da loro preparati affinché la Contessa li firmasse, rendendo la sua resa ufficiale.
 “Non sarebbe meglio che andaste voi di persona?” chiese Checco Orsi, accigliandosi.
 “Non sopporto la vista dei carcerati – piegò Savelli, con un'espressione schifata – preferisco delegare questa formalità. In fondo stiamo parlando di una donna spaventata circondata da bambini disperati. Non serve un monsignore per far capitolare una donna...!”
 “Lei non è una donna qualunque.” lo avvertì Ludovico Orsi, ma non insistette oltre, convinto che almeno in quel frangente Caterina Sforza avrebbe ceduto al buonsenso.

 “E i miei figli?” chiese Caterina, con astio, mentre il carceriere la faceva uscire con la forza dalla cella.
 Erano lì da quasi un giorno intero e ancora non era stato dato loro nulla da mangiare e nemmeno da bere. Le balie, forse anche per lo spavento, avevano pochissimo latte e quindi anche Sforzino era stato nutrito in modo insufficiente e cominciava a essere irrequieto e insofferente.
 “Saranno al sicuro, non abbiate paura.” la zittì la guardia, chiudendosi subito alle spalle la porta della cella.
 Condusse Caterina in un'altra stanza, appena più confortevole, dove un prete la stava aspettando, seduto su una sedia rivestita di pelle. I suoi abiti curati e il suo aspetto ordinato fecero capire a Caterina che Roma si era mossa e che qualche emissario di Innocenzo VIII era già pronto a mettere le mani su Forlì.
 Strano, visto il fatto che Girolamo era stato ucciso nei giorni del decimo anniversario della morte di Giuliano Medici, avrebbe creduto di dover trattare con Firenze, non con Roma.
 “Chi siete?” chiese, appena venne lasciata sola con il prete.
 Questi non rispose, allungandole subito un piccolo plico di fogli e ordinando: “Firmateli.”
 “Cosa sono?” domandò la donna, senza nemmeno sfiorarli con un dito per paura di cadere in qualche trappola del vaticano.
 “Con questi documenti cedete la città di Forlì al Santo Padre e rimettete a lui ogni decisione sul governo dello Stato. In fondo, il Consiglio degli Anziani ha già fatto atto di sottomissione, dunque questa è poco più che una formalità.” spiegò in fretta il prete, senza guardarla e mantenendo un tono calmo e fin troppo pacato.
 “Se fosse così, non sareste venuto a farmi firmare un bel niente.” disse Caterina.
 “Con queste carte accettate anche di cedere in modo definitivo la rocca di Ravaldino.” ammise il prete.
 “E io che ci guadagnerei?” Caterina avvertì nella propria voce un velo di incertezza che non avrebbe mai voluto sentire.
 “Il salvacondotto per Imola. Vi permetteremo di ritirarvi lì e mantenere almeno quella città, in modo da non lasciare del tutto privi di sostanze i vostri figli.” disse il religioso, sempre tenendo i fogli tesi versi la Contessa.
 “Chi vi ha accompagnato fino a qui? Ludovico o Checco Orsi? Chi dei due?” chiese Caterina, guardando con sdegno i fogli che avrebbero portato fino alla sua signoria.
 “Ludovico.” rispose il prete, senza dar troppo peso a una domanda tanto strana: “Ma ora concentratevi, forza. Firmate questi fogli e pentitevi per tutti i peccati di cui vi siete macchiata.”
 “Peccati...?” sussurrò Caterina, incredula, mentre il sangue le ribolliva nelle vene.
 “Avete contraddetto più volte e in pubblico degli uomini, non negatelo. E anche adesso vi state opponendo al volere di Santa Madre Chiesa. Quale peccato più grande di questo, mi chiedo.” disse il prete, piatto e monotono.
 Quelle parole fecero scattare una molla in Caterina, che non ragionò più. Afferrò i fogli che il prelato le porgeva e, lasciando stupefatto il pedante religioso, li strappò con furia, facendone mille pezzetti e gettando i resti in aria.
 Dopodichè si buttò contro la porta e gridò, con tutto il fiato che aveva in corpo: “Ludovico Orsi, assassino che non siete altro, levatemi di torno questo stupido prete! E guai a voi se manderete ancora gente tanto indegna a trattare con Caterina Sforza!”
 Ludovico Orsi, che in effetti era abbastanza vicino alla porta da sentire, fece un cenno alla guardia che andò a recuperare la prigioniera e la ricacciò nella sua cella con uno spintone che la mandò gambe all'aria.

 “Ah, ha detto così, eh?” chiese Savelli, mentre il prete gli riferiva le parole sprezzanti della Contessa.
 'Quella strega – pensò il messo pontificio – si crede tanto furba, ma non ha ancora capito che nessuno può opporsi al volere di Santa Madre Chiesa.'
 “Che fare, dunque?” chiese Checco Orsi, deluso dal fallimento di quel piano.
 Si era convinto a tal punto che in fondo Caterina Sforza fosse una donna debole e spaventata, che scoprirla immutata malgrado la tragedia, gli aveva procurato un cerchio alla testa inaudito.
 “Portiamola davanti alla rocca. Facciamo in modo che sia lei in persona a supplicarlo. Se sapremo essere abbastanza convincenti, quello ci cederà subito Ravaldino.” insistette Ludovico Orsi, che aveva proposto già più di una volta quella strategia.
 “Tentare non costa nulla.” concesse Savelli: “Ma siate davvero convincenti, mi raccomando.”

   
 
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