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Autore: Adeia Di Elferas    27/03/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Cosa accadrà ora?” chiese Lucrezia, cercando di cullare il piccolo Sforzino che continuava a piangere inconsolabile.
 “Non lo so...” ammise Caterina, guardando i figli e le donne le cui vite dipendevano da lei in tutto e per tutto.
 Non avevano nulla da mangiare, nulla da bere e le condizioni igieniche in cui versavano presto sarebbero state molto spiacevoli. Quei delinquenti degli Orsi non avevano nemmeno permesso alle balie di prendere qualche cambio per il piccolo Sforzino...
 “Io mi fido di te.” rimarcò Lucrezia, guardando la figlia con lo sguardo apparentemente sereno e tanto bastò a Caterina per ritrovare un briciolo di speranza.
 Prima che fosse sera, Ludovico e Checco Orsi, Pansecchi e Ronchi arrivarono alla cella in cui stavano Caterina e la sua famiglia.
 “Avanti!” sbraitò Ludovico Orsi, prendendo Caterina per i capelli e trascinandola fuori, tra le proteste di Lucrezia e Bianca.
 Caterina non si oppose. Aveva il fisico temprato dai lunghi allenamenti con la spada e forse avrebbe anche potuto scappare da quei quattro uomini, ma non avrebbe potuto perdonarselo mai.
 Doveva fare tutto quel che poteva per non perdere la città di Forlì e per salvare la sua famiglia da quella catastrofe.
 Così si lasciò portare, sempre tenuta per i capelli, come una schiava, fino alla rocca di Ravaldino.
 Lungo la strada incontrarono Monsignor Savelli, che li attendeva, e con lui un discreto pubblico, che si trasformò in una vera e propria folla una volta giunti alla rocca.
 “Avanti, chiama il tuo caro castellano Feo.” intimò Ludovico Orsi, dando uno strattone ai capelli biondi e scapigliati di Caterina: “E fai in modo che ti dia retta o ti taglio la testa qui e subito, capito?” aggiunse, sfiorando l'elsa della spada che teneva al fianco.
 Le lasciò di colpo i capelli e così Caterina fu libera di chiamare Tommaso Feo.
 Mentre faceva il suo nome a voce alta, Caterina sperò che quell'uomo avesse ricevuto il messaggio che lei gli aveva mandato. Già il fatto che il ponte fosse sollevato e che la rocca non fosse ancora stata ceduta, la faceva ben sperare, ma non si poteva mai sapere.
 “Contessa!” rispose Tommaso Feo, affacciandosi dalle merlature: “Come mai siete qui?”
 La sua voce non tradiva alcun sentimento e nemmeno il suo viso, per quanto nel suo cuore Tommaso Feo stesse bruciando.
 La Contessa era in uno stato orribile. I capelli erano arruffati, le vesti imbrattate e sfilacciate e anche da quella distanza erano ben visibili le occhiaie e l'angoscia sul suo viso. Ma Tommaso doveva essere un soldato fedele, non un uomo innamorato.
 “Cedete la rocca agli Orsi, Tommaso!” gridò Caterina, lasciando trapelare in parte la propria disperazione, felice per quel po' di realismo che avrebbe reso quella recita più credibile: “Abbiate pietà di me! Guardate come sono conciata! Pensate ai miei figli...!”
 “Mi spiace, mia signora.” ribatté Tommaso Feo, impassibile: “Ma sono stato fatto castellano per ordine di vostro marito, e sarò castellano fino a che la linea dei Riario non si estinguerà. Dunque la rocca non verrà mai ceduta, fino a che io avrò vita. Che vengano a farmi a pezzi, solo così avranno Ravaldino.”
 Caterina avrebbe voluto sorridere, perchè erano quelle le parole che sperava di sentire. Tuttavia avvertiva la tensione degli Orsi e di tutti gli altri e così si fece forza e fece del suo meglio per apparire convincente.
 Si gettò in ginocchio e supplicò: “Vi prego, Tommaso! Pensate ai miei figli! Se cederete la rocca, Monsignor Savelli li lascerà liberi e in vita! Non commettete questo peccato!”
 “Non consegnerò la rocca, non mi importa dei vostri figli!” ribatté Tommaso, stringendo i pugni lungo i fianchi per riuscire a mantenere la calma.
 “Non mi incanti con questa pantomima.” sussurrò Ludovico Orsi nell'orecchio di Caterina, costringendola a tirarsi in piedi e passandola a Ronchi, che era già pronto con un pugnale in mano.
 Caterina sentì un forte e rozzo braccio di Ronchi tenerla stretta e avvertì il freddo bacio della lama sulla gola.
 “Guarda che l'ammazziamo qui davanti a te, Feo!” gridò Ludovico Orsi, indicando la Contessa con un pugnale puntato alla giugulare: “Non ci facciamo certo problemi, non credere! Cedici la rocca o la sgozziamo!”
 Tommaso Feo sentì un fremito nel profondo della sua anima. Doveva essere deciso e agire secondo gli ordini. Non poteva permettersi errori o la sua Contessa non l'avrebbe mai perdonato, nemmeno dopo la morte.
 “Ammazzatela pure. Ma se lo farete, dovrete vedervela con suo zio, non con me.” concluse il castellano e, con ciò, si voltò e sparì alla vista di quelli che stavano davanti alla rocca.
 Gli Orsi e tutti gli altri congiurati restarono talmente stupiti da una simile dimostrazione di disinteresse che per qualche minuto nessuno di loro riuscì a dire o fare alcunché.
 Ronchi, all'improvviso, colto da un accesso di rabbia per quella situazione assurda, premette un po' la lama del pugnale sulla pelle della Contessa ed esclamò: “Io l'ammazzo davvero!”
 “Ammazzatemi pure. Non vi siete fatti problemi ad uccidere un povero folle com'era mio marito, non mi sorprenderei di vedervi uccidere anche una donna come me.” ribbatté d'istinto Caterina.
 Quelle parole bastarono a placare l'ira di Ronchi, contraddetto dall'ardire della prigioniera, e per fargli abbassare il pugnale.
 Mentre le prime torce venivano accese per far fronte alla penombra della sera, Checco Orsi provò a dire: “Per oggi direi che basta così...”
 Monsignor Savelli annuì e ordinò: “Portate questa donna e gli altri prigionieri nel rivellino di San Pietro.”

 “Il rivellino di San Pietro non è un posto adatto a dei bambini piccoli.” notò Caterina, mentre veniva spintonata verso la sua nuova cella.
 “Lo credo anche io.” ammise Savelli, con un sorriso serafico: “Dunque vi chiedo di nuovo di lasciare la città, firmare la resa, consegnarci la rocca e partire per Imola.”
 “Non ho alcuna intenzione di partire per Imola – sibilò Caterina – e per quanto riguarda la rocca, sono impotente quanto voi, avete sentito il castellano.”
 “Io ho fatto quel che potevo.” sospirò Savelli, prima di voltare il cavallo, ordinando agli Orsi: “Rendetele la vita impossibile, avete il mio permesso.”
 Ludovico Orsi sorrise a quell'affermazione e, una volta che Savelli si fu allontanato, disse, rivolgendosi a Caterina: “Non c'è pericolo, lo faremo volentieri.”
 
 Caterina stava muovendo brevi passi nell'angusta stanza che era diventata la nuova cella della sua famiglia.
 Stava cercando di elaborare un piano e qualche idea cominciava ad arrivare, benché si trattasse di qualcosa di estremamente rischioso e azzardato.
 I bambini erano deboli, provati dalla paura e dal digiuno e, ancora di più, dalla sete.
 L'unico miglioramento, nel passaggio dalla casa degli Orsi alla rocca di San Pietro era stato un piccolo corredino per Sforzino, offerto da alcune donne del paese, che avevano insistito, sfidando perfino le guardie armate, affinché almeno il piccolo avesse un trattamento umano.
 Caterina aveva la gola secca e pure lei cominciava a sentirsi indebolita da tutte quelle privazioni.
 Le balie non avevano più latte e anche Lucrezia appariva pallida e stremata.
 Le ore si inseguivano senza sosta, tanto monotone e angosciose che più di una volta Caterina perse il senso del tempo.
 Infine, abbattuta e assetata, Caterina si lasciò cadere in terra seduta, appoggiando la schiena contro la parete grigia e muffita e si rassegnò all'attesa.
 Era riuscita a elaborare un piano, arditissimo e oltremodo azzardato, ma non poteva metterlo in pratica. Le sarebbe servito un colpo di fortuna di quelli che capitano una volta nella vita, ma non era abbastanza ottimista da credere che l'aiuto sperato sarebbe arrivato.
 Lucrezia si accorse che qualcosa era cambiato nell'umore della figlia, dunque le si avvicinò e le pose un braccio attorno alle spalle, per farle coraggio.
 
 Andrea Bernardi aveva le mani sudate ed era agitatissimo. Non riusciva a capire cosa l'avesse portato a rischiare tanto, ma sentiva come una forza invisibile spingerlo verso la rocca di San Pietro.
 Voleva vedere la Contessa e voleva rendersi utile, a costo della vita. Probabilmente non avrebbe potuto far nulla per la sua signora, ma non avrebbe potuto vivere con il rimpianto di non averci nemmeno provato.
 “Che volete?” chiese una guardia, con freddezza.
 Il Novacula mostrò il suo taccuino e disse, incerto: “Sapete che... Io compilo le cronache della città... Devo... Vorrei poter interrogare i protagonisti di queste vicende... Per onor di cronaca...!”
 La guardia lo fissò a lungo, alla luce della lanterna. Tutti sapevano che dal 1476 Andrea Bernardi dava sfogo alla sua passione per la scrittura annotando minuziosamente tutti i fatti salienti avvenuti in Forlì o nelle immediate vicinanze. Dunque la sua scusa era plausibile e l'ora tarda della visita la si poteva spiegare con la riservatezza e la delicatezza dell'operazione.
 E, in fondo, si disse il soldato, che danni avrebbe mai potuto fare, un barbiere con la fissazione della Storia?
 “In fretta, però. Sbrigatevi.” concesse infine la guardia, lasciandolo passare e accompagnandolo fino alla cella.
 Gli aprì la porta, lo fece entrare e richiuse subito, ribadendo: “Fate in fretta, tra pochi minuti vengo a riprendervi.”
 “Bernardi!” esclamò Caterina, mostrando tutto il suo entusiasmo solo dopo che la guardia li ebbe lasciati soli.
 “Mia signora...!” ricambiò il Novacula, gettando un'occhiata anche agli altri presenti nella cella.
 Erano in tutto undici persone, dodici con il barbiere-storico e la stanza era veramente minuscola.
 “Mia signora...” riprese Andrea, chinando il capo in segno di rispetto: “Sono qui per un unico motivo. Sono qui per offrirvi tutta la mia fedeltà e il mio aiuto, se posso fare qualcosa. Le guardie credono che sia qui per le mie cronache, ma sono qui solo per voi.”
 Caterina lo prese per le mani, quasi facendogli cadere il taccuino e il carboncino: “Andrea! Amico mio carissimo!” poi si fece più seria: “Potrebbe essere molto pericoloso, ve ne rendete conto?”
 “Darei la vita per voi, mia signora.” affermò il barbiere, senza timori.
 “Presto, datemi il necessario per scrivere.” fece Caterina, allungando una mano e afferrando il taccuino.
 Strappò un foglio e scrisse in fretta un messaggio. Lo rilesse un paio di volte, per essere certa di essere stata chiara, poi lo porse a Bernardi.
 “A chi lo devo consegnare?” chiese l'uomo, prendendo il bigliettino come se fosse la cosa più preziosa al mondo.
 Caterina cercò di ricordare il nome del servo fedele che aveva mandato da Feo la notte della congiura e così disse: “A Lodovico Ercolani, che era domestico presso la mia casa. Cercatelo, lo troverete, sono certa che è ancora qui. Con lui andate a Ravaldino, vedendolo il castellano troverà il modo di farvi entrare. Se per caso non lo trovaste, dite a Feo che è stato il soldato fedele che speravo che fosse e vi farà entrare lo stesso e a quel punto il messaggio datelo direttamente a lui.”
 “Allora, avete finito?” chiese la guardia, aprendo improvvisamente la porta.
 Caterina si scostò immediatamente da Bernardi e assunse un'espressione risentita: “Sì, abbiamo finito. Costui continua a farmi domande a cui non voglio rispondere, portatelo via!”
 Il Novacula, per quanto non fosse un bravo attore, si finse contrariato e si lasciò scortare fuori.
 Quando fu di nuovo all'aria aperta, respirò con intensità quel profumo appena accennato di primavera e apprezzò come non mai la libertà.
 Il bigliettino, scritto di suo pugno dalla Contessa, pesava nella sua tasca come un macigno. Quella missiva poteva segnare la sua fine, se gliel'avessero trovata addosso. Poteva togliergli la libertà che tanto apprezzava in quella notte di aprile, e forse anche la vita.
 Lottando con la legittima paura di essere scoperto e punito, Andrea Bernardi si affrettò a raggiungere alcuni pettegoli che, di certo, gli avrebbero più o meno volontariamente svelato dove trovare Lodovico Ercolani.
 
 Mentre l'alba si avvicinava, i bambini erano riusciti ad addormentarsi, vinti dalla stanchezza e dalla debolezza e così avevano fatto anche le balie e Bianca. Solo Caterina e Lucrezia erano ancora sveglie, ognuna immersa nei suoi pensieri.
 “Quell'uomo ci aiuterà?” chiese Lucrezia, a voce bassissima, quando non poté più evitare di toccare l'argomento.
 Da quando il Novacula era uscito dalla cella, nessuno l'aveva più menzionato. Un po' per paura che qualche guardia sentisse, un po' perchè nessuno, a parte Caterina, aveva capito che ruolo avrebbe avuto in quella faccenda.
 “Andrea Bernardi è forse l'uomo di cui mi fido di più in questa città. Oltre a Tommaso Feo.” ammise Caterina, in un bisbiglio appena udibile: “Cercherà di aiutarci anche a costo della sua vita.”
 “Ma ce la farà?” domandò Lucrezia, atterrita all'idea che il loro destino fosse nelle mani di quell'uomo fedele, certo, ma anche un po' impacciato.
 “Lo scopriremo presto.” tagliò corto Caterina, chiudendo gli occhi e fingendo di voler dormire.

   
 
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