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Autore: Adeia Di Elferas    30/03/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Mia signora...” cominciò Tommaso Feo, appoggiandosi a uno dei merli con fare volutamente arrogante: “Come mai vi rivedo di nuovo qui?”
 I forlivesi, attirati dal corteo dei congiurati capitanati da Savelli che portavano la Contessa verso la rocca di Ravaldino, si erano schierati tutt'attorno alla scena, per poter assistere una volta di più a un grande spettacolo offerto da quei giorni di agitazione.
 “Tommaso!” prese a dire Caterina, sentendosi gli occhi di tutti addosso: “Vi parlo con il cuore. Non importa più nulla, se non la salvezza dei miei figli! Cedete la rocca ora, immediatamente, ve ne prego!”
 Feo soffiò, mostrandosi molto infastidito: “Ve l'ho già detto, mia signora! Questa rocca io non la cedo per nessun motivo. Poco mi importa della sorte dei vostri figli.”
 “Avanti! Parlate di soldi!” intervenne spazientito Savelli, dando una spintarella a Caterina che non si lasciò smuovere subito da quel tono perentorio, in parte per avvalorare una volta di più la sua recita, in parte per orgoglio.
 “Tommaso! Mettetevi una mano sul cuore!” disse sforzandosi di apparire distrutta: “Cedete la rocca e arrendetevi!”
 “Mai, mia signora!” rispose il castellano, scuotendo platealmente il capo.
 “Convincetelo, se no...!” minacciò Checco Orsi, alzando una mano come se volesse prendere a schiaffi la prigioniera.
 Caterina comprese che era giunto il momento di far scattare la sua pericolosa trappola. Si schiarì la voce e annuì, come a confermare la sua resa.
 “Tommaso!” riprese: “Sono sicura che se potessi parlarvi da sola, potrei ben convincervi a consegnare la rocca! So come farvi arrendere, credetemi!”
 “Non saprei...” fece Tommaso, pensieroso: “Mi dovete molto, mia signora. Se poteste dimostrarmi la vostra volontà di pagare, forse mi arrenderei.”
 Caterina respirava lentamente, talmente tesa nell'udire quello che Tommaso avrebbe detto, da non accorgersi nemmeno del chiacchiericcio che si stava spandendo tra i cittadini.
 “Dopo tutto – precisò Feo – il Governatore Savelli già sa che sarei disposto a cedere ogni cosa, se noi due, mia signora, trovassimo un accordo economico soddisfacente. Dunque, sono disposto a parlamentare, a una condizione però.”
 “Quale?” chiese Ludovico Orsi, con un ringhio.
 “Che lasciate entrare la Contessa da sola. Per convincerla a pagarmi il dovuto, meglio un faccia a faccia, non credete?” disse Tommaso Feo, con un'alzata di spalle: “Concedetemela per tre ore e poi ve la restituirò, insieme alla rocca.”
 Gli Orsi, Savelli e tutti gli altri cominciarono a parlare concitatamente. Caterina stava reprimendo un moto di soddisfazione, per come Tommaso Feo le stava reggendo il gioco, e tentava di capire cosa stessero farfugliando quei buoni a nulla dei suoi carcerieri.
 “Non possiamo lasciarla entrare nella rocca da sola!” stava inveendo Ludovico Orsi: “Siete pazzi se credete che non ci sia sotto qualche sotterfugio!”
 “Si tratta di una donna, Orsi! Cosa volete che faccia, in una rocca piena di soldati?!” ribatté Savelli, con una risatina.
 “Quella cagna non avrà il coraggio di lasciar morire i suoi figli per aver salva una rocca.” disse Ronchi, annuendo con convinzione.
 “Quella donna è una strega, è capace di tutto!” ribadì Ludovico: “Non ricordate forse quel che è stata in grado di fare a Castel Sant'Angelo quando aveva poco più di vent'anni?”
 “Ma a Castel Sant'Angelo è stata sconfitta, alla fine. Non commetterà gli stessi errori di allora!” minimizzò Ronchi.
 “Secondo me è l'unica cosa che possiamo fare...!” notò Checco Orsi, allargando le braccia.
 Dopo qualche momento, Caterina perse la pazienza e si intromise nel discorso: “Che avete da perdere, nel lasciarmi entrare in quella rocca?”
 “Tanto per cominciare, che potreste non uscirne.” rispose Ludovico Orsi, con prontezza: “Non abbiamo nessuna garanzia.”
 Caterina lo fissò dritto negli occhi: “Avete i miei figli. Avete mia sorella. Avete mia madre. Che altre garanzie vi servono?”
 “Questa strega ha ragione.” disse Checco Orsi, che desiderava chiudere in fretta la questione della rocca di Ravaldino per poter scrivere a Lorenzo Medici: “Non si azzarderà  certo a metterci in trappola, visto che abbiamo in mano le uniche persone delle quali lei si sia mai preoccupata in vita sua. Non avrebbe mai il coraggio di rischiare così tanto.”
 Caterina preferì non controbattere a una simile affermazione che la dipingeva non solo come un'egoista, ma anche come una codarda.
 “E va bene.” concesse Savelli, stranito dalla confusione che si stava alzando tra la folla in attesa di sapere che sarebbe accaduto.
 “Ma...!” provò a opporsi Ludovico Orsi, che, inutile dirlo, avrebbe voluto far sì entrare la Contessa nella rocca, ma ben controllata e pilotata da un nutrito numero di guardie.
 “Nessuna madre rischierebbe la vita dei propri figli.” concluse Savelli: “Dunque la garanzia che ci sta dando è accettabile. I suoi sei figli sono in mano nostra, credete davvero che una donna potrebbe azzardarsi a mettersi contro di noi sapendo che la vita di sei bambini dipende dalle sue azioni? Inoltre, se lasceremo questa possibilità di resa incruenta alla prigioniera, sono sicuro che Ludovico Sforza ci guarderà con maggior simpatia che non se la costringessimo con la forza a far alcunché.”
 Tommaso Feo, dall'alto della merlatura, non riusciva a sentire quello che il capannello di uomini stava dicendo e, più la discussione proseguiva, più temeva che il piano sarebbe saltato.
 Vedendo che anche Caterina aveva preso parte all'acceso scambio di idee, si convinse che ogni speranza era perduta e già si vedeva costretto a far puntare i cannoni contro la città, nel vano tentativo di intimidire i congiurati e prendere tempo.
 “Feo!” disse a un certo punto Savelli, guardando verso l'alto.
 Il castellano si ridestò dai suoi pensieri e fece segno al Monsignore di proseguire pure.
 “Abbiamo deciso di concedere alla Contessa di entrare nella rocca. Vi diamo solo tre ore.” decretò Savelli, allungando una mano verso la rocca, come a dire a Caterina che era libera di entrarvi.
 Tommaso Feo ordinò subito agli arganisti di calare il ponte e questi eseguirono a una velocità impressionante.
 Caterina attese che il ponte fosse sceso, prima di raddrizzare la schiena e mettersi a camminare quasi a passo di marcia, fiera come quando aveva dovuto sfilare davanti alla popolazione di Roma nell'uscire da Castel Sant'Angelo. Solo che questa volta non si trattava di una resa, ma dell'inizio di una guerra.
 Quando fu a metà ponte, la sua espressione, da mesta e cupa, si fece trionfante e splendente, tanto che molti dei presenti si chiesero cosa mai avesse tanto infervorato la Contessa decaduta.
 Gli Orsi, Ronchi e Savelli si avvidero tardi di quel cambiamento repentino d'umore e, proprio mentre Ludovico cominciava a muovere un passo verso il ponte, forse per andare a recuperare l'insolente prigioniera, Tommaso Feo ordinò agli arcieri di mostrarsi e così nessuno più si mosse, sentendosi sotto tiro.
 “La Contessa deve entrare da sola, questi sono i patti.” ricordò il castellano, con un sorriso insinuante.
 Caterina si voltò un momento verso i suoi carcerieri, verso gli assassini di Girolamo Riario, verso quelli che avevano creduto di averla sconfitta così facilmente.
 Con una risata che sorprese lei per prima, dedicò a quegli spregevoli individui tutti i gesti volgari imparati in anni di convivenza coi soldati al palazzo di Porta Giovia e, godendosi le loro espressioni stupefatte, corse oltre le grate d'ingresso, appena prima che gli arganisti risollevassero il ponte.
 Senza aspettare un momento, Caterina corse su per le scale, fino alle merlature, dove Tommaso Feo la stava aspettando trepidante.
 Nel momento stesso in cui la vide viva, sana e salva davanti a sé, Tommaso non riuscì più a trattenere il sentimento che credeva di essere riuscito a seppellire in nome del suo spirito da militare.
 Appena Caterina fu abbastanza vicina, mentre erano ancora sotto gli occhi di tutti i forlivesi e di tutti i congiurati, Tommaso Feo la prese tra le braccia e la strinse a sé con il calore di un amante e non di un semplice subordinato.
 Senza ritegno, mosso dall'istinto del momento, dimentico tutto d'un colpo della differenza di status e del momento drammatico che stavano vivendo, Tommaso inspirò l'odore della sua signora, ne apprezzò il calore e ne avvertì il respiro irregolare e affannoso per via della corsa. Avrebbe voluto restare così per sempre.
 “Oh, Tommaso!” esclamò Caterina, a voce abbastanza alta da farsi udire dai suoi avversari: “Come si sta bene qui, senza più Orsi, Savelli e Ronchi! Niente più traditori, niente più assassini!”
 Quelli che videro la scena, ne restarono stupiti. Non solo per il modo in cui Contessa e castellano si erano salutati, ma perchè restavano l'una nelle braccia dell'altro e parevano non curarsi più di quello che accadeva attorno a loro.
 “E ora – sussurrò Caterina nell'orecchio di Tommaso – dimostriamo a tutti che non hanno capito nulla di noi.”
 Il castellano annuì in silenzio e, assieme a Caterina, lasciò le merlature senza guardare più nemmeno per un istante Savelli e compagnia bella.

 “E adesso?” chiese Ludovico Orsi, con il tono di chi dice 've l'avevo detto'.
 Savelli, con ancora gli occhi rivolti verso l'alto, benché ormai la Contessa e il castellano si fossero dileguati, era senza parole.
 “Hanno tre ore.” constatò Checco Orsi, sudando freddo: “Magari quella strega rispetterà il patto. I suoi figli li abbiamo noi, non dimentichiamocene.”
 “Giusto, giusto...” ebbe appena la forza di dire Ronchi, attonito quanto Savelli.
 I forlivesi lì presenti non accennavano ad andarsene e la loro presenza aumentava la pressione a cui erano sottoposti gli Orsi e i loro alleati.
 “Dopodiché – provò a dire Checco Orsi – se non dovesse uscire entro le tre ore prestabilite, allora la ricatteremo usando i suoi figli...”
 “Per il momento – si affrettò a ragionare Ludovico, lasciando perdere l'espressione offesa e le recriminazioni – metterò tre nostri fedeli uomini a far la guardia stretta ai figli di quella strega, poi vedremo.”
 Monsignor Savelli, il cui viso nel frattempo era passato dal bianco cereo al bordeaux acceso, sbottò tutto d'un colpo, iniziando a sgranare, come fosse un rosario, tutti gli epiteti peggiori che gli venivano in mente, pestando i piedi in terra e battendosi i pugni sulle cosce, offrendo ai voraci pettegoli di Forlì una scenetta che difficilmente avrebbero dimenticato.
 Andrea Bernardi, che era tra il pubblico, osservava in silenzio ogni cosa, senza lasciarsi trascinare né dai commenti volgari né da quelli divertiti. Non ci trovava nulla di divertente, in tutto ciò.
 La sua signora stava rischiando più di quel che credeva. Gli Orsi non erano uomini capaci di tirarsi indietro di fronte a certe provocazioni e Savelli, con quella sceneggiata infantile, si stava dimostrando meno stabile e meno diplomatico di quanto il Novacula non avesse sperato.
 Riponendosi il taccuino in saccoccia, Andrea Bernardi lanciò un ultimo sguardo sconsolato alla rocca di Ravaldino, chiedendosi cosa mai stesse accadendo oltre a quelle alte mura, e si avviò verso la sua barberia, lasciando tra i primi il compatto nugolo di curiosi.

 “Prima di tutto datemi un po' di acqua, per favore...” disse Caterina, mentre Tommaso Feo le riassumeva gli eventi delle ultime ore.
 Un soldato portò subito una brocca e un calice e Caterina poté dissetarsi. Quell'acqua, per quanto non fresca e nemmeno particolarmente pura, le sembrò la più buona mai bevuta in vita sua.
 “Mia signora – disse Feo, concluso il resoconto – adesso cosa facciamo?”
 Caterina appoggiò il calice al tavolo e si asciugò le labbra con il dorso della mano: “Adesso dobbiamo sbrigarci a preparare la controffensiva. Gli Orsi non si faranno scrupoli e tenteranno di tutto per farmi cedere. Sfruttiamo queste tre ore. Mentre loro staranno lì a litigare chiedendosi se onorerò o meno il patto, noi piazziamo l'artiglieria e organizziamo la rocca.”
 “Pensate che arriveranno davvero a far del male ai vostri figli?” chiese Tommaso Feo, mentre per la prima volta dall'arrivo alla rocca della sua signora, l'entusiasmo gli smorzava la voce.
 Anche Caterina si fece scura in volto e per un momento non rispose. Chiuse un istante gli occhi, sentendosi improvvisamente stanca, ma anche decisa a non cedere.
 “Potrebbero – ammise – e non solo a loro. Anche mia madre e mia sorella e le balie sono nelle loro mani. Dubito che si farebbero scrupoli a far del male pure a loro, se ne avessero necessità.”
 Tommaso aprì la bocca, per ribattere in qualche modo, ma Caterina intuì in anticipo quello che stava per dire, così lo zittì, mettendogli l'indice sulle labbra: “Sapevo molto bene quello che stavo facendo quando ho ideato questo piano.”
 Il castellano, colpito da quel gesto tanto informale quanto volitivo, non si permise più nessun commento a titolo personale.
 “Forza, andiamo a sistemare l'artiglieria.” fece Caterina, togliendo entrambi dall'imbarazzo del momento.
 Tommaso Feo portò Caterina dal capo dell'artiglieria, che si affrettò a riassumere alla Contessa il numero e il tipo di armi che erano in quel momento nella rocca.
 Bombarde, bombardelle, colubrine, falconi, falconetti, passavolanti, mortai, tutti soprannominati in modo colorito e spesso scurrile dai soldati che se ne prendevano cura.
 Aiutando personalmente a piazzare ogni pezzo d'artiglieria, Caterina si premurò di mettere sotto tiro ogni chiesa, ogni casa degna nota, compresa quella che aveva ospitato la sua famiglia fino alla notte dell'uccisione di Girolamo.
 Finita questa riorganizzazione dell'artiglieria, Caterina mangiò frugalmente qualcosa negli appartamenti di Tommaso Feo, discutendo per tutto il tempo con lui circa le mosse che avrebbero portato avanti nelle ore a venire.
 Finito il pasto, il castellano si permise di chiedere: “Mia signora, sicura di star bene? Siete pallida e vi vedo troppo stanca...”
 Caterina fece un gesto infastidito: “Riposero quando avrò tempo.”
 “Le tre ore non sono ancora scadute. Andate a riposare. Avete troppo sonno, per riuscire a concentrarvi come dovuto. Quando gli Orsi o Savelli si faranno vedere di nuovo, ci penserò io a prendere tempo.” assicurò Tommaso, guardando la sua signora con apprensione.
 Caterina desiderava un letto con tutta se stessa, anche se un po' si vergognava ad ammetterlo. La sua famiglia stava rischiando una morte atroce, come poteva lei permettersi di andare a dormire?
 Eppure Tommaso aveva ragione: non si può agire lucidamente, se si crolla dal sonno.
 “Qualche momento soltanto.” concesse Caterina, sentendo i muscoli farsi rigidi e la testa dolere.
 Tutta la stanchezza e la tensione di quelle infinite ore si stavano facendo sentire senza ritegno.
 “Posso restare qui?” chiese la giovane, sentendo di non aver la forza di raggiungere un'altra stanza, per quanto vicina.
 Tommaso fece un breve inchino e si affrettò a dire: “Vi lascio volentieri le mie stanze per tutto il tempo che riterrete opportuno. Ora vi lascio riposare.” e così dicendo fece un altro rapido cenno con il capo e uscì dalla camera.
 Caterina, rimasta sola, fu per un minuto sopraffatta dalla realtà. La sua situazione era disperata. Il suo piano era folle. Poteva davvero sperare di salvarli tutti? Poteva davvero sperare di salvare la sua città? La sua stessa vita?
 Non poteva pensarci, non mentre era così stanca da faticare anche a spogliarsi.
 Si tolse tutti i vestiti che puzzavano di prigionia e privazioni. Restò solo con una sottilissima sottoveste e cercò di togliere qualche nodo dai capelli, ma senza successo. Quando l'avevano trascinata dalla casa degli Orsi fino a Ravaldino tenendola per la chioma, i suoi aguzzini aveva causato non pochi danni alla sua acconciatura. Avrebbero pagato anche per quello.
 Con passi stanchi e tardi, raggiunse il letto del castellano. Era sfatto e in disordine. Non importava.
 Vi si gettò sopra con un tuffo sordo e, prima ancora di poter ragionare sul fatto che su quelle lenzuola c'era lo stesso odore che aveva sentito nell'abbracciare Tommaso Feo, si addormentò profondamente.

   
 
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