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Autore: Adeia Di Elferas    01/04/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Caterina Riario!” chiamavano a gran voce Ludovico Orsi e Monsignor Savelli: “Uscite! Le tre ore sono passate!”
 Checco Orsi stava parlottando animatamente con Ronchi. Entrambi avevano cominciato a chiedersi che fine avesse mai fatto Matteo Menghi che, ora che ci pensavano, non si vedeva dalla notte del colpo di Stato.
 “Basta gridare!” rispose a un certo punto Corradino Feo, appena ripresosi dalla ferite, da dietro le merlature: “Sappiamo che le ore concesse sono scadute, ma la Contessa e il castellano ancora non sono giunti a un accordo!”
 “Che si sbrighino!” ululò Savelli, fuori di sé.
 “Certo – riprese Corradino – se voi ci consegnaste subito Luffo Numai e Guido Orselli, vi riconsegneremmo la Contessa molto più in fretta.”
 Checco Orsi smise di parlottare con Ronchi e guardò verso Corradino Feo. Quella richiesta puzzava di bruciato. Come potevano pensare a un simile scambio? Ormai era ovvio che li stavano prendendo in giro...
 “Non siate ridicolo!” ribatté Ludovico Orsi, pensandola come il fratello: “Sapete bene che non possiamo consegnarvi uomini che stanno dalla vostra parte solo per far uscire dalla rocca quella stupida donna!”
 “Allora abbiamo concluso di parlare, per ora.” fece Corradino Feo, salutando con la mano come se si stesse congedando da dei vecchi amici con cui aveva chiacchierato amabilmente per un po'.
 “Quel...! Quel...!” prese a dire Savelli, ma venne subito interrotto da uno dei suoi soldati che lo raggiunse di corsa.
 “Mio signore!” disse l'uomo in armi: “Al Banco dei Pegni stanno saccheggiando tutto! Gli ebrei sono presi d'assalto! Ogni cosa sta andando perduta! Invocano il vostro soccorso!”
 Savelli, gli occhi iniettati di sangue e le tempie che pulsavano, si vide obbligato a rispondere a quell'appello e così lasciò la scena, dicendo agli Orsi: “Fate quel che dovete, per Dio! E questa volta non fatevi più gabbare come dei mentecatti!”
 
 Il resto della giornata portò molto scompiglio tra i congiurati.
 L'episodio che più riuscì a destabilizzarli vide come protagonista Lodovico Ercolani che, credendo di potersi confondere con la folla di curiosi, si era mostrato in pubblica piazza ed era stato subito riconosciuto da Ludovico Orsi che l'aveva immediatamente agguantato e preso a male parole.
 “Tu ci hai ingannati!” gli aveva gridato contro: “Sei sempre stato d'accordo con quella strega e invece ci hai fatto credere di essere dalla nostra parte!”
 Proprio in quel mentre, però, era arrivato Galassi, un congiurato che stava prendendo potere nel Consiglio degli Otto per via della sua parlantina. Proprio questi convinse l'Orsi a lasciar libero Lodovico che era, per altro, suo nipote.
 Quando gli altri, soprattutto Ronchi, seppero che Ludovico aveva lasciato libero quel maledetto servo della Contessa che li aveva indotti all'errore, se la presero con lui.
 Savelli, ancora molto scosso per essere riuscito con difficoltà a sedare la rivolta nel quartiere degli ebrei, non voleva sentirne di queste storie. Era già abbastanza faticoso far fronte alle rimostranze di famiglie importanti come i Marcobelli o gli Orcioli, che si stavano lentamente schierando in modo sempre più aperto in favore della Contessa decaduta, senza bisogno di dover dividere gli Orsi, Ronchi e Pansecchi come fossero bambini che litigavano per lo stesso giocattolo.
 “Non vi avevo detto di trovare il modo per stanare quella cagna di una Sforza?! E allora fatelo!” li redarguì, per metterli a tacere una volta per tutte.

 “Cosa state facendo?!” chiese Lucrezia quando vide che i loro tre nuovi carcerieri aprivano la porta della cella e indicavano a delle guardie Ottaviano e Cesare.
 “Non sono affari tuoi donna.” disse uno di loro.
 “Orsi ha detto anche la madre, la sorella e una delle balie.” fece notare un altro.
 “Buon divertimento.” augurò il terzo, dando uno spintone a Lucrezia, a Bianca e una delle due balie in modo che seguissero i due bambini fuori dalla prigione.
 Lucrezia continuava a fidarsi di Caterina. Non si era illusa di vedersi liberare da un momento all'altro e il fatto che nessuno li avesse ancora uccisi stava a indicare che sua figlia era ancora viva e che, in qualche modo, era riuscita a temporeggiare.
 Però essere trascinata da una parte all'altra della città con le mani legate dietro la schiena era una prova che non avrebbe mai voluto affrontare.
 Quando i cinque prigionieri arrivarono davanti alla rocca di Ravaldino, trovarono ad aspettarli entrambi i fratelli Orsi, Pansecchi, Ronchi e Galassi, oltre alla solita folla di forlivesi che assistevano attenti e silenziosi ad ogni avvenimento.
 Lucrezia e Bianca – l'una seria e silenziosa, l'altra preda di implacabili singhiozzi – furono messe l'una accanto all'altra, immobilizzate dalle corde e tenute ferme da due soldati. Poco più avanti c'era Cesare, il viso trasformato in una maschera, gli occhi terrorizzati, ma asciutti e risoluti, per quanto la sua età lo permettesse. Accanto a lui c'era la balia, paralizzata dal panico.
 In testa a tutti, con un Orsi per parte, stava Ottaviano, in lacrime, tremante come una foglia, il viso deformato dalla paura.
 “Prova tu.” disse Ronchi, dando un colpo alla balia: “Di' alla tua padrona che deve uscire o giuro su Dio che ti sgozzo come un maiale.”
 Questa, dopo qualche tentativo, riuscì a trovare la voce per dire: “Mia signora! Mia signora! Vi prego! Uscite dalla rocca! Ne va della nostra vita!”
 “Più convincente.” intimò Ronchi, appoggiandole la lama del pugnale al collo: “La tua padrona ancora non si vede. Piangi, se necessario. Implorala.”
 “Mia signora!” singhiozzò la balia, come impazzita: “Vi prego...! Uccideranno vostra madre! I vostri figli! Anche il piccolo Sforzino!”
 Ma di Caterina non c'era traccia, né sulle merlature né altrove. Perfino i soldati di ronda erano scomparsi alla vista dei forlivesi.
 “Castellano! Signor Feo!” provò allora la balia, ormai annebbiata dalla paura di morire: “Vi prego! Fatela ragionare! Che senso ha avere una rocca se i propri figli muoiono?!”
 Il silenzio che arrivò come risposta dalla rocca bastò a far perdere la pazienza a Ronchi.
 Con uno strattone gettò in terra la balia e ordinò ai suoi: “Riportatela subito in carcere, questa buona a nulla. Tu!” disse poi andando ad afferrare per i capelli Bianca: “Dillo tu a quella tua maledetta sorella che vi ammazzo tutti se non esce subito di lì e ci consegna la rocca!”
 Bianca cadde in ginocchio appena Ronchi le lasciò i capelli e prese subito a dire, con voce rotta: “Caterina! Se sei mia sorella, ti prego! Esci da lì! Fallo per i tuoi figli, se non vuoi farlo per me!”
 Ancora nulla, così Bianca cercò di convincere davvero sua sorella: “Fai ragionare Tommaso Feo, quell'uomo ti ascolta! Fallo cedere! Te ne prego! O uccideranno me, nostra madre e i tuoi bambini! Sarebbe un'onta, per loro, uccidere degli innocenti, ma lo sarebbe anche per te! Se hai ancora un briciolo di amor proprio, arrenditi!”
 A sorpresa, ad affacciarsi alle merlature non fu Caterina Sforza, ma Tommaso Feo.
 “Andatevene!” intimò, senza guardare nessuno in particolare.
 La scena che aveva di fronte era talmente crudele da fargli dolere il petto, ma per nessun motivo doveva cedere. La sua signora si fidava di lui e lui avrebbe fatto quello che lei gli aveva chiesto di fare, a costo di vendere l'anima al diavolo prima di sera.
 “Ma uccideranno i suoi figli...!” ululò Bianca, ormai priva di forze.
 “Che lo facciano pure! La mia signora ha tutto l'interesse a far estinguere la stirpe dei Riario!” ringhiò Tommaso Feo, sentendosi un vile a parlar così davanti ai due figli maggiori della sua signora: “Anche se voi le restituiste tutti e sei i figli, lei stessa li avvelenerebbe prima che tramonti il sole, in modo da non dover più sentir pronunciare il nome del suo primo marito! Ella è giovane e prenderà presto un nuovo marito, dunque non avete armi contro di lei!”
 Bianca fissava Tommaso Feo senza riuscire a dire più nulla. Anche i congiurati e i forlivesi tutti erano rimasti basiti di fronte a simili affermazioni.
 Tuttavia Ludovico Orsi si riscosse abbastanza in fretta. Buttò di lato Bianca, come fosse merce avariata e si avventò su Ottaviano.
 Lo strapazzò un po' tenendolo per la spalla e lo minacciò: “Avanti, fai venir fuori tua madre. Dille che ti ammazziamo qui davanti alla sua amata rocca, se non si arrende.”
 
 Caterina era stata svegliata da Corradino Feo con una certa urgenza.
 “Hanno vostra sorella, vostra madre, una balia e due dei vostri figli. Stiamo cercando di prendere tempo, ma temo che faranno qualche gesto avventato se non vi mostrerete almeno sulle merlature...” spiegò l'uomo.
 Caterina lo ringraziò e uscì dalla stanza in cui si era messa a dormire poche ore prima con la velocità di un fulmine.
 Indossava solo la vestaglia e aveva i capelli arruffati e i piedi nudi, ma non erano dettagli importanti. Quel breve sonno l'aveva rinfrancata e le aveva dato una forza che credeva di non avere più.
 Salì le scale fin sulle merlature e, senza farsi vedere da chi stava fuori dalla rocca, si fece notare da Tommaso Feo, che con un cenno le fece intendere di averla vista.
 Acquattata come un gatto dietro alle merlature, fece in modo di guardare giù con discrezione.
 Vide sua sorella in terra, viva, ma evidentemente folle di paura. Vide la balia piangere senza consolazione. Vide sua madre ritta in piedi, apparentemente calma, ma pallida come un cencio. E poi vide i suoi due figli.
 Cesare era un ometto. Fermo, altero. Anche lui bianchissimo, ma fiero come un piccolo soldato.
 Ottaviano, invece, piangeva senza ritegno, le gote in fiamme, la bocca spalancata e le spalle scosse da un tremito irrefrenabile.
 Accanto a lui stava Ludovico Orsi e continuava a dirgli qualcosa nell'orecchio. Caterina pensò che gli stesse sciorinando una serie di improperi o magari di minacce. Qualunque cosa gli stesse dicendo, lo stava distruggendo.
 “Madre...!” disse alla fine Ottaviano, la voce acuta e appena comprensibile: “Vi prego! Per l'amore di Dio e di mio padre che è morto! Convincete il castellano a cedere la rocca a me e a mio fratello Cesare...”
 Le parole si interruppero un momento perchè il pianto aveva avuto ragione del discorso, ma Ottaviano dovette ricominciare in fretta, minacciato dalla spada si Orsi.
 Tirando su con il naso e sforzandosi di non piangere più, Ottaviano riprese: “Così potremo renderla a questo prete di Cesena...! Questi uomini vogliono ucciderci e questo sarà l'ultimo giorno della nostra vita se non vi arrenderete...! La prigionia è tale che mi fa sperare di raggiungere presto l'Onnipotente...!” terminò Ottaviano, riprendendo a piangere come un neonato.
 Caterina aveva ascoltato tutto e sentiva il cuore sanguinarle nel non poter far nulla, nell'immediato, per liberare davvero i suoi figli. Se si fosse arresa, avrebbe perso la rocca, la città e la vita tutte in un unico colpo.
 “Insomma, basta, vergognatevi!” sbraitò Tommaso Feo: “Con che animo fate patire tanto un povero bambino di nove anni?!”
 “Voi dovreste vergognarvi!” ribatté Savelli che era appena arrivato a dar man forte a quelli che ormai riteneva degli inetti: “A non arrendervi nemmeno davanti al pianto di un bambino.”
 Tommaso si morse il labbro e lanciò un'occhiata da sguincio a Caterina, accucciata a pochi metri da lui. Questa gli fece un segno inequivocabile e così il castellano, pur con riluttanza, gonfiò il petto e ostentò una certa sicurezza.
 “Andate con Dio, Monsignore!” esclamò e poi ordinò agli archibugieri di sparare qualche colpo, ma, si fece intendere, senza andare a segno, per paura di centrare uno dei figli della sua signora.
 Malgrado il fuoco nemico li lambisse, nessuno indietreggiò, in parte per ostinazione in parte perchè presi alla sprovvista.
 “Andatevene!” ribadì Tommaso, agitando le braccia e mettendosi in posa come se stesse per ordinare una seconda scarica di archibugi.
 “Ebbene, se la tua donna non vuole arrendersi – prese a dire Ludovico Orsi acciuffando per la collottola Ottaviano – cominceremo a fare a pezzi questo piagnucolone.”
 Caterina fissava la scena dalla breccia della merlatura e sperava che anche quella volta la minaccia di Orsi fosse solo uno specchietto per le allodole.
 Tuttavia, quando vide brillare la lama del coltello, il braccio di Ludovico Orsi caricarsi con un guizzo, e gli occhi di Savelli riempirsi di sorpresa, comprese che non si stava più scherzando.
 Si tirò in piedi, mostrandosi improvvisamente e zittendo tutti quelli che fuori dalla rocca stavano cominciando a vociare contro o in favore del gesto di Ludovico Orsi.
 Questi bloccò il braccio a mezz'aria e guardò in alto: “Oh, che piacere vedervi.” disse, con un sorrisetto arrogante.
 Gli altri non parlavano. L'apparizione improvvisa di Caterina li aveva resi muti. Anche Tommaso Feo la fissava attonito. Era l'emblema della feracità più totale. I capelli arruffati, la veste stracciata e sottile, che lasciava intravedere più di quanto fosse lecito, gli occhi assetati di sangue e i denti digrignati come una vera belva.
 Una tigre, ecco cosa sembrava.
 Savelli tossicchiò un paio di volte, trovando quell'abbigliamento sconcio e inadatto a una donna, seppur fosse solo una prigioniera.
 Cercò di tralasciare i suoi pudori da religioso e si impose un tono serio, ma moderato nel dire: “Consegnateci la rocca, se non volete che i vostri figli facciano una fine inadatta a dei bambini innocenti.”
 Caterina si limitava a puntare le sue iridi di fuoco ora sull'uno ora sull'altro, senza dire una parola.
 Sapeva che molte cose dipendevano da quello che sarebbe accaduto in quella manciata di minuti e la pressione data da quella consapevolezza le toglieva il fiato.
 “Non siate sciocca! Arrendetevi!” fece Savelli: “O uccideremo i vostri figli, vostra madre e vostra sorella!”
 “Fate loro anche solo un graffio – disse Caterina, con una tranquillità che stonava con il suo aspetto – e ridurrò Forlì in cenere. Raderò al suolo ogni casa e ogni chiesa e trasformerò questa città in un cimitero.”
 “Ragionate!” provò di nuovo Savelli: “Siete solo una donna in un mondo di uomini! Come potete pensare che una donna come voi possa davvero piegare al suo volere degli uomini?!”
 Ogni prudenza, ogni ragionamento, ogni paura finì alle ortiche in quel preciso istante.
 Continuavano tutti a dirle che era solo una donna, come se fosse il peggiore dei difetti, il più grave dei peccati, la più grande delle limitazioni.
 Ebbene, quel giorno non solo non l'avrebbe negato, anzi, l'avrebbe sbandierato come un motivo d'orgoglio e di superiorità.
 “Giustizieremo i vostri figli se non vi arrendete!” continuava a dire Savelli, monotono e mesto: “Siete solo una donna! Non ostinatevi così!”
 Caterina non ci vide più. Non sentiva nemmeno più il pianto ormai dirotto di Ottaviano, che la implorava e la pregava come mai aveva fatto in vita sua.
 “Siete solo una povera donna! Lasciate la città a un uomo che saprà come governarla!” insisteva Savelli.
 Ecco, era davvero il momento di dimostrare a tutti che sì, era davvero una donna. Lo era eccome.
 “Li uccideremo!” ribadì ancora una volta Savelli.
 “Impiccateli pure davanti a me, se volete!” ringhiò Caterina, mentre un boato della folla accoglieva questa sua affermazione.
 Afferrò il bordo della sottoveste e l'alzò più che potè, mettendo in mostra il suo corpo nudo fino al seno: “Ho qui il necessario per farne altri!”
 E così dicendo, senza più guardare nessuno né dire altro, Caterina lasciò ricadere la veste e sparì di nuovo nelle viscere della rocca.

 Mentre vedeva sua madre andarsene senza neppure degnarlo di uno sguardo, Ottaviano comprese che sua madre lo aveva ingannato, anni prima, come poche ore addietro, quando gli aveva promesso che non l'avrebbe mai abbandonato.
 L'aveva appena fatto.
 E se c'era una caratteristica che Ottaviano aveva preso da sua madre era l'incapacità di perdonare e dimenticare i torti subiti e le promesse disattese.
 Savelli fece segno ai suoi di non far del male ai prigionieri. Per quanto estremamente scandalizzato da quel che era appena accaduto, vedeva anche la grande potenzialità delle maldicenze che ne sarebbero nate. Avrebbe descritto a tutti quella donna come una tigre, come una belva feroce incapace di provare pudore per se stessa e pietà per i suoi figli.
 In quanto agli ostaggi, magari qualcuno avrebbe pagato una bella somma per averli.
 “Possibile che il cuore di tua madre non si sia smosso nemmeno a sentirti piangere come un vitello?!” chiese Ludovico Orsi, strattonando Ottaviano, ma rimettendo la lama nel fodero.
 “Mia madre non ce l'ha, un cuore.” rispose il bambino di nove anni, che aveva smesso di piangere di colpo, nell'istante stesso in cui aveva capito che di sua madre non si sarebbe mai più potuto fidare.
 
 “Mia signora...” disse piano Tommaso Feo, che aveva lasciato le merlature quasi nello stesso momento in cui anche Caterina se n'era andata.
 La giovane era corsa fino a un luogo remoto della rocca, dove sapeva che nessuno andava mai e, prima di potersi calmare, aveva vomitato tutto quello che aveva mangiato al suo arrivo a Ravaldino.
 Restando piegata, una mano sulla fronte, l'altra sullo stomaco, disse, con voce spezzata: “Non riferite mai a nessuno quello che state vedendo in questo momento.”
 Tommaso Feo si affrettò a dire che no, non avrebbe mai detto nulla a nessuno.
 Dopo averla guardata a lungo, Tommaso le si inginocchiò accanto, non curandosi dello sporco sul pavimento né delle lacrime che stavano riempiendo gli occhi della sua signora e la strinse con forza a sé, nella speranza di darle un minimo di conforto.
 Caterina si lasciò prendere da quelle braccia forti, ma non ne trovò conforto.
 Per quanto fosse certa che ciò che aveva appena detto e appena fatto avrebbero placato per qualche tempo la furia degli Orsi e, soprattutto di Savelli, era altrettanto certa che quelle stesse cose le avrebbero fatto perdere Ottaviano per sempre.
 E forse non solo lui.
 “Avete fatto partire i messaggeri per Milano?” chiese Caterina con un filo di voce, quando finalmente riuscì di nuovo a parlare.
 Tommaso Feo annuì e, aiutandola a rialzarsi, aggiunse: “Altri messaggi da inviare, mia signora?”
 Caterina ci pensò un momento, poi alzò un sopracciglio: “Mandiamo un ultimatum a Savelli. Che prepari due salvacondotti, uno per mia madre e uno per mia sorella, affinché possano tornare a Milano sane e salve. Resteranno le balie e i miei figli come garanzia. Direi che sei bambini e due ragazze dovrebbero bastare, a quelle bestie degli Orsi.”
 Tommaso Feo deglutì, ma non commentò in alcun modo quella decisione e Caterina gliene fu estremamente grata.

   
 
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