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Autore: Elphie94    02/04/2016    2 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xv.

memorie di una ballerina




Per un paio di giorni ci rivolgemmo la parola solo di rado, lui chiuso nella sua tomba, io che spolveravo i libri maneggiando con cura quelli più antichi. La collezione era ricca di molti tomi delle più svariate lingue e argomenti, e cercavo di assimilare tutta la conoscenza che, lo sapevo, non avrei mai potuto apprendere. V'erano romanzi classici, volumi di anatomia e di architettura, alcuni sbiaditi dal tempo, altri in lingue a me ignote. Mi chiesi se Erik sapesse decifrarle. Decisi di chiederlo direttamente a lui. Ma non avevamo più parlato da quel furioso litigio; se ne stava sempre rintanato nella sua camera della morte, probabilmente a scribacchiare certe composizioni con il suo solito inchiostro rosso e la grafia orribile.



Quando Christine venne a trovarmi mi trovavo a letto, nella camera Luigi Filippo, in uno stato pietoso. La nostalgia per la danza mi pulsava nelle vene come fiele. Lei se ne accorse.

«Sei così pallida, Meg.»

«Come potrei non esserlo? Non vedo la luce del sole da giorni.»

Lei si aprì in un sorriso triste. «Guarirai presto.»

«E chi lo dice?»

«Erik.»

«E tu ti fidi lui?»

«Si. Almeno in questo – ha abilità eccellenti in molte pratiche.»

«Certo, è proprio un artista in tutti campi. Non ti hai mai0 accennato alla camera dei supplizi?» Il nostro sguardo sfrecciò sulla porta chiusa ermeticamente alla nostra destra. Demmo entrambe in tremito involuto.

«C'è qualcosa di sbagliato in lui, Meg, lo so. Eppure le mie orecchie sono piene dei suoi sospiri…» Si prese la testa fra le mani, come a voler scongiurare una maledizione. «Dopo quella scenata furiosa dello smascheramento, ho visto in lui un tale odio che ne rimasi paralizzata. Ma poi eccolo che si getta ai miei piedi, piange, maledice se stesso… Come posso abbandonarlo in questo stato, Meg? È il mio maestro e io… c'è stato un tempo in cui non potevo vivere senza di lui.»

«Ma ora devi imparare a farlo» conclusi con fermezza.

Lei annuì, altrettanto risoluta. «Non posso restare con lui solo in ricordo di mio padre, o per le sue minacce. Non lascerò che qualcun altro si faccia del male.» Mi accarezzò il viso con dolcezza, quasi fossi una bambola preziosa che aveva temuto di perdere.

«Se riuscissi a convincere Erik a lasciarti andare…»

Lei scoppiò in una risata amara. «Impossibile. Mi ama troppo per non godere della mia compagnia, così lui mi ha detto.»

«Lui ed io adesso abbiamo un rapporto più o meno civile. Se riuscissi a parlargli…»

«Niente può fermare Erik, neanche Erik» disse Christine con grande serietà, negli occhi una disperazione limpida come il suo sguardo. Poi mutò espressione. «Con te è sempre un gentiluomo, vero?»

Sogghignai. «Si ritiene tale. Non vuole neanche sfiorarmi e sta da me il più lontano possibile.» A parte quella volta in cui ci siamo stretti la mano. O quella in cui gli sono incespicata addosso, pensai, arrossendo in modo molto poco “da me”.

«Si limita a portarmi da mangiare e le medicine, che prepara lui stesso con chissà quali erbe. E in effetti sto molto meglio.»

«Nient'altro?»

«Mi presta i suoi libri, o almeno alcuni di questi, e mi permette di pulire la casa perché non cada preda dell'ozio. Ne impazzirei, lo so.»

Poi aggiunsi, con fare cospiratorio: «Ci può sentire, ora?»

«É chiuso nella sua camera della morte. Ma con Erik non si può mai sapere.»

«Già. Non si può mai sapere.» Mutai discorso. «Come sta mia madre?»

«É TK in pena per te, ma si fida dell'abilità di Erik. Dice che lo ha conosciuto da bambino, è vero?»

Annuii. «Ad una fiera.»

Christine chiuse gli occhi, forse sentendo sulle spalle il dolore del piccolo Erik e del mostro che era diventato. «Le dirò che stai meglio e che sei fuori pericolo. Potete scambiarvi delle lettere, e io farò da tramite.»

Acconsentii, e mi sentii meglio al pensiero che l'indomani avrei rivisto il suo viso amico.



Christine ed Erik continuarono i loro consessi musicali, che dovevano essere straordinari. Tuttavia, io ne ero preclusa, intenta a spolverare la casa e a mettermi alla prova con diversi esperimenti culinari che non andavano mai a buon fine. Un giorno mi saltò alla mente una folle idea: volevo cucinare del pane, anche se erano anni che non mi cimentavo in cucina. Dagli anni dell'Opera non avevo preparato mai neanche un uovo al tegamino, poiché era mia madre che provvedeva a tutti i miei bisogni. L'ultima volta che avevo cucinato era stata con mio padre, che mi aveva insegnato a preparare la pasta, a tenderla e infine a dare ad essa la forma di una pagnotta. Quel ricordo era doloroso, ma dal momento che, dopo gli ultimi incubi, volevo rimettermi in pace con la memoria di mio padre, quell'attività mi sembrava appropriata. Cominciai dal pane e ne uscì fuori un totale disastro, tanto che il fumo che inondò la cucina arrivò fino alle narici di Erik, che fiutò immediatamente la situazione. Dalla sua camera mortuaria, in maniche di camicia, si precipitò in cucina – un piccolo ambiente confortevole, che faceva molto anni Trenta – ed esclamò: «Che diavolo succede? Cosa stai combinando qui?»

Non l'avevo mai visto così scompigliato e furioso. Probabilmente quei miei esperimenti avevano interrotto una sua fase di ispirazione.

«Sto cucinando del pane, non mi sembrava nulla di male.»

«Annegando nel fumo?» disse lui, con fare beffardo ed esasperato insieme. «Avevi detto che non sapevi cucinare, e il risultato si vede.»

Arrossii di rabbia. «Mi annoiavo. Volevo fare qualcosa.»

«Incendiarmi la cucina?» Mormorò qualche maledizione nei miei riguardi e raggiunse il fornello e la forma di pane ormai ridotta ad un ovale di cenere.

«Mi dispiace, va bene?» risposi, anche se non ero del tutto sincera. Il solo pensiero di far bruciare la sua cucina era ben più che allettante. Mi chiesi se non fosse questo che l'anima mi suggeriva, e che perciò mi aveva portato a comportarmi in maniera così sciocca. L'impasse di quei giorni mi uccideva. Avevo ricevuto dei biglietti di mia madre – non aveva potuto vedermi, ero troppo debole per attraversare il lago e il labirinto sotterraneo. In più, Erik non voleva che nessun altro venisse a conoscenza della sua tana, tanto da aver disposto delle vere e proprie trappole mortali per questo – pensai alla camera degli specchi, o al trucco della Sirena.

«Mi dispiace di averti rovinato il forno. Pulirò tutto io» ripetei a bassa voce, piena di vergogna verso me stessa, ma anche stanca di quelle parole così stantie. Tutto, in quel teatro di vite, stava lentamente svanendo, e io non ero che una pedina – non avrei mai potuto fare scacco matto.

Erik mi guardò freddamente, ma anche meno teso. «Sistemiamo questo disastro, allora.»

«Sistemiamo?» dissi incredula.

«No. Tu sistemi questo disastro – l'hai combinato con le tue mani – io torno a lavorare.»

«Ma se stai sempre in camera tua!»

«E cucino, e preparo le medicine che ti stanno salvando la vita. Il minimo che puoi fare è aiutarmi se combini disastri.»

Era vero, ero in debito con lui. La cosa mi dava ai nervi.

Acconsentii con riluttanza e mi accinsi a raschiare il forno con tutta la forza del mio olio di gomito. Erik non tornò in camera. Si sedette al tavolo e mi fissò come se si aspettasse che per lo sforzo dovessi venire meno da un momento all'altro.

«Sto bene» gli rivolsi quelle parole dopo un paio di occhiate esasperanti da parte sua. «Smettila di fissarmi come se dovessi svenirti tra le braccia da un momento all'altro.»

«Sei così piccola che quasi non lo noterei» osservò lui con distacco. Tamburellò le dita sul ripiano del tavolo, in un ritmo che scandiva una musica sconosciuta.

«Non assomigli affatto a Christine. Lei non è così indisciplinata.»

«Scommetto che non fai sgobbare lei in questo modo.»

«Scommetto che lei non causa disastri come te.»

«Potresti venire almeno a darmi una mano invece di star fermo lì, imbambolato?»

Lui sospirò e, con mia grande sorpresa, s'inginocchiò al mio fianco, non senza essersi prima munito di uno straccio ruvido. Anche chino in questo modo, sovrastava la mia forma rannicchiata. Non lavorò molto di gomito, ma almeno collaborò, il che era una novità. Di solito si distanziava da me e da tutti i miei problemi, a meno che non lo riguardassero personalmente. Forse era davvero preoccupato per lo stato della sua cucina. Lo immaginai a fare le pulizie di casa, con tanto di grembiule e cuffietta, e scoppiai a ridere di cuore.

«Perché ridi? Ti pare una situazione comica?»

«Moltissimo. L'avresti mai immaginato – noi due che raschiamo via il bruciato dal forno, frutto di un esperimento culinario andato a male?»

Gli angoli delle sue labbra, simili a cicatrici sulla sua pelle, si distorsero in una smorfia ironica che era solo l'ombra di un sorriso vero e proprio.

«Effettivamente» si limitò a soggiungere lui.

Le nostre mani si sfiorarono ancora una volta, e percepii un brivido che non aveva nulla a che fare con il freddo. «Scusami» disse lui in un sussurro, ma non risposi. Preferii ignorare il vuoto allo stomaco che mi afferrava ogni volta che mi toccava – un misto di paura, diffidenza… ed eccitazione.

Marguerite Giry, mi dissi con fermezza, tu hai qualche problema serio. Ricordati che ha architettato lui quella camera delle torture che ha causato la morte di Buquet. E il lampadario? E il trucco della Sirena? E il rapimento di Christine? No, non va bene.

Sì, ma non credo che sia del tutto privo di compassione, altrimenti non mi avrebbe salvato la vita. È stato quasi gentile con me in questi giorni.

Illusa, è solo perché vuole ingraziarsi Christine e tua madre. Non gliene importa nulla di te.

Non è vero. Non è vero, in fondo.

«Madamoiselle? Stai bene?»

Non risposi.

«Meg.»

Voltai il viso e lo guardai negli occhi; quegli occhi assolutamente magnetici, in un modo disumano. Cosa vi scorgevo dentro? Preoccupazione – era possibile? Cosa c'era dietro la maschera?

Sollevai una mano per sfiorargli il volto – come poteva essere una delle esperienze più straordinarie della mia vita senza che ne conoscessi le fattezze, l'identità, persino il suo vero nome? – ma mi scostai immediatamente. C'era qualcosa di oscuro in lui che mi attraeva come una falena alla fiamma. Dovevo distanziarmene subito.

Mi alzai di scatto, rimettendo in ordine gli stracci.

«Quando potrò tornare a ballare?»

«Fra non molto potrai ricominciare ad esercitarti, ma con moderazione. Domani ti farò una sorpresa.»

«Che tipo di sorpresa?» scattai io, avida e sgomenta al contempo. Che cosa potevo aspettarmi da uno come lui?

«Vedrai» mi rispose enigmatico, prima di tornare nella sua camera della morte.


«Ti godi la lettura?» mi chiese quel pomeriggio. Ero accomodata in una poltrona, avvolta in una coperta, con una tazza di tè caldo, Figaro in grembo e I Miserabili in mano.

«Sì. Certo che Victor Hugo è prolisso. Era proprio necessario quel capitolo, 1817

Erik scrollò le spalle. «Settant'anni fa dava più contesto alla storia di quanto ne possa dare ora, o fra cent'anni.»

«E quelle sessanta pagine solo sul vescovo di Digne? Per carità, scritte benissimo, ma mi ci è voluto un po' per abituarmi.»

«Adesso a che punto della storia ti trovi?»

«A quella di Fantine.» Tremai di rabbia per la sua triste sorte. «Perché noi donne dobbiamo essere sempre personaggi casti e puri, pure mentre erriamo? Non è umano, l'errare? Non abbiamo forse gli stessi desideri maschili, le stesse ambizioni? Nel cuore, non siamo uguali, sebbene differenti nel corpo? Non riesco a capire.»

«Più avanti nella storia troverai un personaggio che risponde in parte ai tuoi requisiti.»

«Davvero?»

Lui annui, e io continuai la mia lettura.

«Dove sei stato finora? Ho sentito che te ne andavi dalla porta.»

«A fare affari.»

«Prego?»

«Ecco, guarda.» Mi porse un fascicolo di pergamene, con disegni di figure femminili che danzavano nelle pose più diverse. Vi erano anche parecchi appunti, scritti in una calligrafia familiare.

«Mia madre.»

«Ti manda lo spartito. Così puoi imparare la parte in tempo. Le ho assicurato che fino ad allora sarai abbastanza forte per esibirti.»

Mi accinsi a sfogliare le pagine che riguardavano il corpo di ballo, di cui avrei fatto parte – le contadine della prima parte e le magnifiche Villi nel secondo atto, cercando il segno di mia madre sul foglio che indicava quale parte dovessi recitare. Ma non trovai niente.

Erik mi fermò gentilmente il polso.

«Dov'è la mia parte nel corps de ballet? Non sono stata esclusa solo perché alla fine dall'audizione mi sono sentita male, vero? Mi sono esercitata così tanto…»

«Meg, nel coro non c'è nessuna parte per te. Sei tu la sostituta per la Regina delle Villi.»

Per poco non crollai dalla poltrona.

«É così. Tua madre è molto orgogliosa di te.»

«Ma com'è possibile? Sono svenuta durante l'audizione!»

«Avevi già finito di esibirti, però. E a quanto pare sei stata apprezzata e promossa a solista.»

«Ma se ero quasi priva di sensi!»

«Hai ballato comunque splendidamente.»

Era la prima volta che ricevevo un complimento da lui. Rimasi così a bocca aperta da assomigliare a un pesciolino in una vasca.

«Dimmi che non c'entri niente con tutto questo. Non hai ricattato nessuno per farmi avere una parte da solista, vero?» insinuai, già fumante di rabbia.

Lui sbuffò, facendo tremare i bordi della maschera. «Certo che no. Erik mantiene le sue promesse, quando gli altri se lo meritano.»

Devo credergli? Decisi di concedergli il beneficio del dubbio.

Sfogliai gli spartiti con una smorfia. C'era un piccolo problema da risolvere, prima.

Non sapevo leggere la musica.



Negli anni che avevo trascorso all'Opera, avevo imparato certe arie e sinfonie, avevo una memoria brillante e una forza straordinaria per la danza, ma se mi trovavo dinanzi a uno spartito ero come intontita. Sapevo leggere le note, ma la musica non risuonava dentro di me come un organo. Mi era impossibile imparare dei passi di danza su una musica intangibile, altrimenti non sarei mai riuscita ad andare a tempo. Come fare? A chi chiedere aiuto? Ovviamente non c'era che una persona disponibile.

Memorizzai i miei passi al meglio, mentre la convivenza con Erik si faceva sempre più civile. Non ci insultavamo né litigavamo più, e questo era un miglioramento.

Mi lasciai andare a qualche esercizio di ginnastica per riscaldare i muscoli e risparmiarmi uno strappo – era l'ultima cosa che desideravo. Ero arrugginita, ma come si dice: “il lupo perde il pelo ma non il vizio”, e presto i miei muscoli cominciarono a sciogliersi.

Ora l'unica cosa da fare, dopo aver imparato i passi a memoria, era procurarmi delle scarpette con la punta di gesso, cosa non facile. Le mie probabilmente si trovavano in qualche remoto cassetto del mio camerino, su in superficie. Lassù le cose erano più chiare, meno ambigue. E questo non mi piaceva.

La mattina dopo trovai ai piedi del letto le mie scarpette da ballo, e con grande sorpresa non mi fu difficile riconoscerne il mandante. Con un largo sorriso, mi vestii in fretta e trangugiai la colazione. Poi, avvolta in una pesante coperta di lana – avevo ancora qualche accesso di tosse, di tanto in tanto – mi precipitai in salotto, dove trovai Erik intento a leggere un pesante tomo di musica, forse sulla vita di Mozart, e di come questa avesse influenzato il suo Don Giovanni. Eppure, sebbene conoscessi il nome del suo capolavoro, mi aspettavo che fosse nettamente diverso da quello di Mozart; Christine stessa me lo aveva descritto.

«Ho un problema» annunciai, non senza un minimo di esitazione, ma determinata ad andare dritta allo scopo. Lui alzò stancamente gli occhi dal libro. Non gli piaceva essere disturbato, soprattutto dalla sottoscritta. Credo che dovesse ancora abituarsi all'idea di avere un ospite in casa.

«So che non te ne importerà, ma devi sapere che non so leggere la musica. Non riesco a sentirla solo tramite le note di un pentagramma. In questo modo non posso esercitarmi nella danza.»

«E io cosa avrei a che fare con tutto questo?» chiese lui, in tono vagamente annoiato.

«Beh, visto che sono costretta a rimanere in questo tuo piccolo ospedale per altre due settimane, pensavo che… ecco…» D'un tratto ero esitante: la mia sfrontatezza si era esaurita. Stavo per chiedere al fantasma dell'Opera di aiutarmi: anche qualcuno più coraggioso di me sarebbe arretrato. Ma Erik si era dimostrato cortese in quei giorni. Dovevo battere il ferro finché era caldo.

«Vuoi che suoni per te, giusto?» indovinò lui subitaneamente.

Tossicchiai. «In poche parole…»

Lui emise un lieve sospiro e mise da parte il suo tomo. Sembrò ponderare con dolorosa concentrazione. Peccato che non potessi vedere il suo viso mascherato. D'un tratto, posò i suoi occhi di falco su di me.

«E così sia. Puoi rubare un'ora del mio tempo ogni giorno, Meg Giry. Per il resto dovrai cavartela da sola, anche perché sei ancora debole e non puoi sforzarti molto se intendi guarire del tutto.»

Non potei trattenere un largo sogghigno di vittoria. «Ti ringrazio.»

Lui chinò il capo in segno di accettazione.



E così iniziarono le nostre prove. Fu come tornare a camminare dopo giorni di inerzia. Avevo la danza nelle vene così come Erik aveva la musica nel sangue, e queste due particolarità si mescolavano bene l'una all'altra. Non mi ci volle molto per capire che Erik era un grandissimo pianista e che si stava solo riscaldando con la musica di Giselle, che stava adattando per pianoforte.

Ogni giorno ballavo per un po' più di tempo, così da riabituarmi allo sforzo che la danza imponeva al mio corpo ancora malaticcio. Erik, in qualità di “dottore”, non permetteva che superassi i limiti. Avevo ancora un po' di tosse, ma nessun dolore all'altezza delle scapole. La febbre era sparita, e così i deliri. Presto sarei risalita in superficie, ma mi stupivo nel pensare che quel periodo di “clausura” era stato migliore di quanto mi aspettassi. Una forza oscura mi attirava verso le tenebre di quel posto, che si adattavano alla mia pelle con agio straordinario. Mi risaltavano ancor più della luce del sole. Scoprire il fascino del buio è sempre pericoloso, perché non sai mai cosa puoi trovare all'interno dell'abisso, chi potrà ricambiare il tuo sguardo. Io osai guardare, e quello fu l'inizio e la fine di tutto1.

Erik batteva il tempo con il tallone, come mia madre col suo bastone da soldato, mentre io ripetevo i passi con diligenza. Non parlavamo in quei momenti: la musica riempiva il vuoto tra di noi con splendida armonia. Non c'era bisogno di parole, bastava uno sguardo per capire che ero fuori tempo o avevo sbagliato un passo, o che dovevo migliorare i miei arabesque.

I miei sentimenti contrastanti verso Erik mi confondevano e m'infuriavano al contempo: non sapevo se essere diffidente (non abbassavo mai la guardia in sua presenza) o semplicemente affascinata dal suo genio, grata perché mi aveva salvato la vita, o impaurita perché conoscevo l'esistenza della camera dei supplizi e ciò di cui – se portato alla disperazione – era capace.



Un giorno mi scoprì ad osservare il pianoforte, terribile e magnifico al contempo, con sguardo distante. Avevamo appena terminato una sessione di prove, e io sfioravo i tasti bianchi e neri in una sorta di estasi. La mia mente non era lì in quel momento, ma altrove, lontano, persa in ricordi che mai sarebbero divenuti nebbia.

«Sai suonarlo?» mi chiese, non senza una certa curiosità.

Mi voltai verso di lui, incredula. «Non dovresti saperlo? Tu sai tutto di tutti, qui all'Opera.»

Erik si aprì in un lieve sogghigno. «Non tutto.»

«Allora ammetti che hai delle manchevolezze.»

«Non ho detto nulla del genere.»

Risi. Parlare con lui mi risultava estremamente facile, come l'acqua di un ruscello si adatta al suo letto e scorre nelle profondità di una foresta.

«Facciamo un gioco» proposi con malizia. Lui alzò lo sguardo verso di me, improvvisamente sull'attenti. Io mi sistemai languidamente sulla poltrona, come un felino che si rilassa. Figaro fece la sua comparsa e si strusciò lungo la gamba di Erik, che lo grattò amichevolmente dietro le orecchie. A quanto pareva apprezzava la compagnia degli animali più di quella degli uomini.

«Che tipo di gioco?»

«Io ti faccio una domanda e tu ne fai una a me. Siamo costretti a dirci la verità al riguardo.»

Lui sembrò ponderarvi su un momento, le braccia conserte. Poi annuì. Ero sicura che avrebbe ignorato il mio monito e avrebbe mentito ugualmente, ma almeno avevo fatto un tentativo. Non era solo per conoscere il mio nemico: era per sapere qualcosa di lui, dell'uomo Erik – non del fantasma né del genio della musica. Avevo già appurato che era il miglior virtuoso del pianoforte che avessi mai visto, persino più di mio padre, che eppure era stato rinomato nel campo. Avevo saggiato la potenza della sua voce con il trucco della Sirena. Ora volevo sapere chi era veramente.

Volevo sapere qualcosa dell'uomo che mi aveva impedito di morire – o peggio, restare afflitta per sempre da una terribile febbre cerebrale.

«Inizio io» dissi senza vergogna. «Da quanto tempo suoni?»

«Da quando ho memoria» rispose lui, laconico.

«E…»

«No, adesso tocca a me» precisò Erik, sollevando un lungo dito ossuto per arrestare il mio flusso di parole. Diavolo, diventavo sempre più curiosa sul conto di quell'uomo. Dovevo ponderare bene le mie domande.

«Com'è morto tuo padre?»

Raggelai. Quella era una domanda che non mi aspettavo.

«Perché vuoi saperlo?»

«Perché, quando eri ancora in delirio, pronunciavi spesso il suo nome. È chiaramente collegato a un incubo. Ma se non ne vuoi parlare…»

«Le regole del gioco valgono per tutto, anche per questo» risposi, improvvisamente piccata. «Vuoi conoscere la mia triste, patetica storia? Ebbene, eccoti servito.» Presi un bel respiro e gli lanciai un'occhiata fulminante. Lo avrei fatto pentire di avermi posto una domanda simile.

«Il ricordo più bello che ho di mio padre è questo: quando avevo cinque anni, mi prese sulle ginocchia e mi insegnò a suonare il pianoforte. Le mie manine ossute si allungavano su quei tasti meravigliosi, e la voce amata di mio padre mi guidava.»

Mi fermai per un attimo. Erik ascoltava con ineccepibile attenzione.

«Questo è uno dei pochi ricordi davvero belli che lo riguardano: gli altri sono solo cenere e polvere intossicanti.» Mi fermai ancora, ma risoluta nel voler continuare a parlarne.

«Non ricordo come ebbe inizio. Qualcosa nella sua mente scattò, e da allora non fu più lo stesso. Da felice qual era, divenne improvvisamente triste. Un giorno restava a letto, e dovevamo costringerlo a mangiare. Un altro giorno, ed eccolo lì, lo spartito in mano, le dita sul pianoforte – poteva strimpellare quanto voleva. Di notte lo udivo piangere col viso seppellito nel cuscino, mentre mia madre gli accarezzava la testa in fiamme.

Non posso sopportare queste voci. Esse mi tormentano in modo inaccettabile. Non posso più vivere così, Antoinette. È per il bene tuo e della nostra piccola Meg.”

Nell'ennesima sfuriata, era solito gettare a terra oggetti del mobilio di casa, quasi fossero le idee che lo ossessionavano. Non capiva cosa aveva, né tanto meno io e mia madre ne comprendevamo le origini. Un uomo buono, talentuoso, sincero… cosa mai gli era accaduto?

Si recò in ospedale di sua spontanea volontà. I medici avrebbero dovuto curarlo, ma così si trattava solo di una tortura. Un giorno mia madre ed io ci avventurammo in quel tetro edificio dalle pareti bianche come la morte. Sentii le urla e i gemiti degli altri prigionieri – perché in fondo si trattava di questo: custodire i malati lontani dalla “gente normale”.

Ero troppo piccola per capire una cosa del genere, ma non abbastanza da non sentire la nostalgia di mio padre. Superammo il corridoio dei supplizi – lo chiamavano così perché in quelle celle erano ricoverati i malati più gravi, che venivano tenuti d'occhio nel caso volessero fare del male a se stessi o ad altri – e arrivammo nella sala delle visite, sempre su quel piano. Non riuscivo a staccare gli occhi dal biancore accecante delle pareti, quasi fosse un riflesso del mio animo intorpidito. Non capivo con esattezza dove mi trovassi e che genere di ospedale fosse quello, ma allora cominciavo ad intuire. Mio padre ci attendeva, più smunto che mai, con degli orribili segni intorno ai polsi. Capii che lo avevano legato durante una delle sue crisi. Nessuno comprendeva la ragione delle “voci” nella sua testa, tanto meno lui che ne soffriva.

Quando fu dimesso, era più morto che mai. Non sapevo cosa gli avessero fatto in manicomio, ma certo non lo avevano aiutato. Si dedicò all'alcol – diceva che gli zittiva la mente – e non potevo più abbracciarlo senza percepire il lezzo di rum che si portava dietro come un vessillo. Presto non fu più in grado di lavorare. Trascorreva intere giornate a letto, per poi mettersi a strimpellare sul vecchio pianoforte con una furia tale da sembrare posseduto. Una volta, dallo spioncino della camera che condivideva con la mamma, lo vidi mettersi le mani nei capelli, tirandoli con tanta forza che mi fece male solo a guardarlo.

All'apparenza aveva tutto: era bello, di buon carattere, lavorava come pianista nell'orchestra dell'Opera Le Péletier, aveva una famiglia che lo amava ed era stimato e rispettato da tutti. E questo era un grande passo, viste le sue origini africane. Ma il suo talento come musicista faceva dimenticare ogni pregiudizio al pubblico più altezzoso.

Cosa si incrinò dentro di lui? Ancora me lo chiedo. Arrivò al punto in cui non riusciva più a parlare, tanto le voci che aveva nella testa lo confondevano. Cominciò a vedere cose che non esistevano, e sia io che mia madre ci spaventammo. Io ero piccola e non potevo fare molto; inoltre, era evidente che i miei genitori volevano tenermi lontana da quell'incubo. Non ci riuscirono.

Poi venne quel giorno… Sapevo che qualcosa sarebbe andato storto. Era una mattina d'inverno, e io corsi con le mie scarpette rosse lungo il boulevard che mi avrebbe riportato a casa, con la cartella che mi ballonzolava sulle spalle come un sacco poco gradito. Ero uscita prima da scuola, col permesso di mia madre, per esercitarmi per il prossimo saggio di Natale di noi allieve ballerine. Ricordo che quel giorno posi in capo a una delle mie compagne più antipatiche un ragnetto che avevo raccolto da terra, tutto intento a tessere la sua tela. La mia compagna urlò con tutto il fiato che aveva in gola, mentre io ridevo tanto che mi doleva lo stomaco. Era uno dei miei soliti scherzi – tutti a scuola sapevano che ero indisciplinata, disobbediente, eppure libera come loro, con tutta quell'etichetta, non avrebbero mai potuto essere.

Tornai a casa dopo aver ricevuto dalla maestra una meritata bastonata sulle mani davanti a tutta la classe per quella mia marachella. Dalla porta della camera dei miei s'intravedeva la luce accesa: insolito, dal momento che mio padre preferiva il buio. Sarà una di quelle giornate in cui resta a letto tutto il giorno, pensai tristemente. Volevo salutarlo, ma non ne ebbi il coraggio. Spiai dalla feritoia della porta: mio padre era chino sul tavolo e scribacchiava qualcosa. Le mani gli tremavano tanto che non riusciva a scrivere correttamente. Io ero ancora sulla soglia, pronta a spalancare la porta per dargli il mio saluto, ma notai che nell'altra mano reggeva un oggetto sconosciuto. Una pistola, intuii poco dopo. Avevo appreso quella parola, riferita a quella particolare arma, nei miei studi e nelle mie letture (anche se preferivo di gran lunga giocare a pallone con Luc e il resto della compagnia piuttosto che restare ore e ore col sedere incollato su una sedia. Non ero una brava studentessa).

La prima cosa che mi chiesi fu: come se l'è procurata? E dopo: cosa ha intenzione di fare?

Si portò la pistola alla tempia, fremente. Non feci in tempo a spalancare la porta che egli premette il grilletto e…» Chinai il capo, mentre le lacrime mi bruciavano le guance. Non avrei lasciato che lui mi vedesse in quello stato. Tamburellai le dita sul pianoforte, senza emettere alcuna nota.

«Meg» disse Erik con voce più dolce del miele. «Meg, se non sei nelle condizioni di parlarne…»

«No, sto bene» risposi, asciugandomi gli occhi. Era apprensione quella che udivo nel suo tono? Era davvero preoccupato per me? Gli lasciai il beneficio del dubbio.

«No, lascia stare. Il dado ormai è tratto.» Presi un profondo respiro, chiusi gli occhi e rivissi la scena così come mi si era palesata undici anni prima. «Il mio “NO!” disperato è stato l'ultimo suono umano che mio padre abbia udito. Dopodiché, il nulla.

Non so per quanto tempo rimasi lì, imbalsamata, le scarpette rosse divenute ancora più rosse, il mio vestito buono per la scuola schizzato di sangue. La stanza sembrava annegare nel sangue – ve n'erano tracce sul letto, sui comodini, sulle tende di pizzo giallastro. Poi iniziai ad urlare e…» Questa volta lacrime roventi mi scivolarono sulle gote arrossate. «Fu la governante a trovarci: il cadavere di mio padre a terra, me in piedi che gridavo con tutta la forza che avevo in gola, destando l'attenzione di tutto il vicinato. Smisi solo quando arrivò mia madre e mi portò via da quella scenografia di morte. Per settimane non parlai. I dottori insistevano che dovessi essere ricoverata in ospedale, che ero in uno stato catatonico, qualunque cosa volesse dire, per il trauma subito. Ma mia madre, dopo l'esperienza avuta con mio padre, non aveva nessuna intenzione di perdere anche sua figlia in manicomio. Fu forse questo che mi risvegliò, alla fine: la consapevolezza che a mia madre non restava nessun altro eccetto me. Lentamente, ricominciai ad osservare, a parlare, a respirare e a danzare – ero come una neonata che si dibatte nella placenta, in attesa di venire alla luce. Ma mi bastava chiudere gli occhi perché rivivessi il suicidio di mio padre, il sangue sul pavimento… erano un'ossessione incancellabile. La danza mi salvò, per fortuna, ma tutt'ora ho incubi al riguardo.» Mi fermai e lo guardai negli occhi. Egli ricambiò il mio sguardo. C'era qualcosa di indecifrabile in lui che non riconoscevo, mentre fissava le mie pupille arrossate dal pianto. Compassione? Pietà? Non mi sembrava tipo da sentimenti simili. Eppure, notai che aveva stretto le mani in due pugni serrati.

«Meg, stai tremando.» Mi pose la sua giacca sulle spalle. «Ecco, tieni.»

La sua cortesia era quasi sospettosa. «Adesso tocca a me» disse in tono enigmatico, ma io lo fermai. «Il gioco è finito. Posso prendere un po' d'aria?»

«Certamente.» Mi accompagnò sulla riva del lago, sorreggendomi per la vita – non aveva tardato ad accorgersi che ero malferma sulle gambe. Oscillavo, la mente annebbiata dai ricordi, ma quel contatto mi rinfrancava. Erik mi depose con dolcezza sulla riva e mi lasciò sola, senza che io glielo dicessi. Aveva intuito che in quel momento preferivo la solitudine dei miei pensieri.

Mi portai le ginocchia al petto, guardando il mio volto riflesso nell'acqua plumbea. Era gonfio e arrossato, gli occhi ancora lucidi. Piansi tutte le amare lacrime che avevo trattenuto in quegli anni, mentre l'ossessione che mi perseguitava la mente tornava ad affondare i suoi artigli dentro di me. Non sapevo se parlarne o meno mi avesse fatto bene. Non avevo mai rivolto quelle parole a nessuno, eccetto forse Christine. Perché proprio lui?

Perché in lui vedevo l'oscurità che mi tormentava, ecco perché. Rivedevo mio padre e i miei incubi. Era l'innominabile della mia vita, e lui ne era il simbolo. Invece di spaventarmi, la notte mi accoglieva beatamente. Mi sentivo protetta – non temevo il buio. Mi cullavo in quell'amnio, la pelle delle guance ancora rovente per le lacrime. D'un tratto udii qualcosa: una musica lontana, angelica, che proveniva dall'appartamento che avevo appena lasciato. Il suono del violino era straziante, eppure meraviglioso – gli angeli avrebbero pianto dinanzi a quella musica celeste. Ora capivo perché Christine aveva creduto che Erik fosse il genio della musica. Non avevo mai udito nessuno suonare con tanta abilità, nemmeno nei miei lunghi anni all'Opera.

Capii che mi stava dedicando quella melodia: un'offerta alla mia disperazione, la tragedia che mi scorreva nelle vene. Caddero lacrime, ma questa volta erano dolci. Quella musica magnifica mi cullò fin sulla soglia del sonno, e mi addormentai lì, scevra di pensieri che non trattassero della sinfonia di Erik.



Ero ancora tra le braccia di Morfeo quando sentii qualcosa picchiettarmi leggermente una spalla.

«Meg, così ti raffredderai» disse la voce d'angelo. «Ti accompagno nella stanza. Devi riscaldarti. Non ho passato una settimana e mezzo a cercare di guarirti se poi questi sono i risultati.»

Annuii e cacciai un mugolio riluttante. Non aveva tutti i torti: in riva al lago faceva freddo, sebbene avessi indosso ancora la giacca di Erik.

Lui mi porse una mano ossuta, bianca come osso. «Vieni, bambina.» Probabilmente era pronto a condurmi di peso nella stanza Luigi Filippo, se avessi rifiutato il suo invito. Malgrado quel “bambina” con cui mi si era rivolto non mi piacesse, accettai la sua stretta. Fu allora che alzai gli occhi e lo guardai in viso – il suo vero viso.

Aveva dimenticato di indossare la maschera.

Note dell'autrice:

1l'inizio e la fine di tutto: frase tratta da Il grande Gatsby di F.S. Fitzgerald.

Eccoci a un nuovo capitolo. Questa volta si scopre il passato di Meg – che dite, è abbastanza traumatico? Non l'avevate intuito? Non fa niente, eccolo qua tutto per voi. Volevo anche precisare che Erik non si scorda della maschera perché all'improvviso è diventato scemo, ma perché ha preso talmente tanto l'abitudine di avere Meg in casa che se n'è dimenticato. Per lui, non è più un'ospite, ma parte della casa, e pertanto si comporta di conseguenza. Come reagirà Meg al vero aspetto di Erik? Si accettano scommesse. XD Un bacio a tutti!


Malinconica: In effetti il gesto del buffetto sulla guancia è un po'… improvviso da parte di Erik, tanto che pure lui ne rimane sorpreso. Il fatto è che condivide una storia con Meg che non ho ancora svelato e che si vedrà fra qualche capitolo (sì, ci sono altri segreti). In fondo, credi che abbia accettato di curare Meg solo per Madame Giry e Christine? C'è un altro motivo, ma taccio al riguardo. Grazie mille per la recensione, spero che anche questo capitolo ti piaccia! <3


Una domanda a voi lettori: dovrei inserire "Tematiche delicate" negli Avvertimenti della fic, visto che si parla di suicidio? Non sono molto pratica di queste cose, quindi accetto un consiglio. Grazie in anticipo.

   
 
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