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Autore: Adeia Di Elferas    04/04/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ La balia che era rimasta nella cella della rocchetta di San Pietro accolse con sollievo il ritorno di Ottaviano, Cesare, Lucrezia, Bianca e dell'altra balia.
 Li trovò molto provati, ma non poté esimersi dal fare loro domande di ogni genere. Voleva sapere che era successo, se la Contessa era ancora viva, cosa era stato detto, se c'era speranza.
 “Dobbiamo solo avere fiducia e attendere.” disse Lucrezia, laconica, andando subito a stringere a sé il piccolo Galeazzo Maria che, nel rivederla, era scoppiato in lacrime di sollievo.
 La piccola Bianca era corsa dai due fratelli maggiori e aveva domandato notizie della loro madre.
 “Lei non ci vuole più.” disse Ottaviano, asciugandosi le guance, mentre la sorella lo fissava attonita.
 “Ma cosa dici...” fece la bambina, scettica.
 Visto che Ottaviano restava fisso sulla sua posizione, Bianca cercò lo sguardo dell'altro fratello, ma quando vide che Cesare era scosso e corrucciato, cominciò a credere che fosse tutto vero.
 
 “Non poteva restare a Casa Murata ancora qualche giorno?” chiese agitato Checco Orsi, mentre si asciugava le mani.
 “Che ti devo dire... Non ha voluto sentire ragioni!” ribatté Ludovico, passandosi un pezzo di sapone sopra le unghie ancora incrostate di sangue.
 “Che problema c'è ad avere qui vostro padre?” chiese a quel punto Ronchi, che, assieme a Pansecchi, aspettava che i due fratelli Orsi finissero di lavarsi le mani per andare a tavola.
 “C'è che sono giorni di confusione ed era meglio che se ne fosse rimasto in campagna!” spiegò Checco, agitato come non poco all'idea dell'imminente cena.
 Quando i quattro uomini arrivarono nella sala da pranzo, Andrea Orsi, di ottantacinque anni, era già seduto a capotavola e scrutava ogni cosa con occhi scuri e contrariati.
 Da quando era arrivato, non aveva ancora aperto bocca. Malgrado l'età avanzata e il passo incerto, quell'uomo aveva ancora tutto il vigore dei suoi giorni migliori e manteneva il cipiglio adatto al capo di una famiglia nobile e rispettabile.
 Checco Orsi portò in tavola la cena, povera e semplice, perchè con quel trambusto nessuno aveva avuto modo di fare di meglio, e in un momento tutti si servirono e si sistemarono.
 “Ah, figli miei...” disse piano Andrea Orsi, ignorando il cibo fumante: “Cosa avete fatto...!”
 Il silenzio cadde sulla tavolata, ma Ronchi lo interruppe abbastanza in fretta: “Noi e i vostri figli abbiamo fatto una cosa giustissima. Un predicatore un tempo diceva: chi sarà mai quel topo che ardirà mettere un sonaglio a un gatto? Ecco, noi l'abbiamo fatto e abbiamo liberato questa città dal faraone!”
 Andrea Orsi, gli occhi improvvisamente accesi dalla luce della consapevolezza e del disprezzo, picchiò con forza una mano sul tavolo: “Che Dio voglia che abbiate fatto del bene, come dite voi.”
 “Certo, padre – prese a dire Ludovico Orsi – abbiamo solo fatto al Conte quello che lui avrebbe voluto fare a noi.”
 Andrea Orsi allontanò da sé il piatto, facendo uscire dai bordi un poco di brodo e decretò: “A mio avviso, figlioli miei, non avete fatto né una cosa bella né una cosa buona. Anzi, avete fatto doppiamente male. Dal momento che avete ucciso il Conte, dovevate almeno finire il lavoro. O si lascia stare dall'inizio, o si va fino in fondo. E poi avete lasciato entrare madonna Caterina alla rocca... Se anche il castellano avesse mai voluto cedervi la rocca, ora non lo farà più di sicuro. Vi siete messi contro i Marcobelli e gli Orcioli. E ora non ne porterete l'onta solo voi, ma anche io, che sono vecchio e avrei voluto morire con il cuore leggero.”
 La predica di Andrea Orsi continuò ancora a lungo, mostrando, punto per punto, ogni debolezza dell'operato di Ludovico e Checco.
 Il vecchio concluse dicendo: “Se volete ancora salvare qualcosa, uccidete subito i figli di madonna Caterina e tutti quelli che la sostengono, o quella donna vi farà la guerra e la vincerà.”
 Dicendo così, Andrea Orsi si alzò e andò a riposare, senza più voler dire nulla né ai suoi figli né tanto meno ai loro complici.

 Era quasi l'alba e Caterina era sveglia già da ore. Aveva dormito pochissimo e non era quasi riuscita a mangiare nulla.
 Il pensiero dei suoi figli, di sua madre e sua sorella nelle mani degli Orsi bastava a toglierle il sonno e la fame.
 L'ultimatum mandato a Savelli non era stato apparentemente accolto e dunque ci voleva qualcosa di più convincente per farlo ceder almeno su quel punto.
 Mentre la luce del mattino era ancora lontana, Caterina si era portata sulle merlature, lo sguardo rivolto in direzione della rocchetta di San Pietro. Teneva le mani strette al petto e le labbra serrate in un'espressione preoccupata e triste.
 Non pensava solo ai suoi bambini e al resto della sua famiglia, ma anche a suo marito. La morte di Girolamo era stata tanto improvvisa e tanto violenta da lasciarla incapace di capire a fondo quel che era accaduto. Gli avvenimenti che erano seguiti, poi, l'avevano distolta completamente da quel pensiero e così, a circa tre giorni di distanza, ancora non aveva trovato un momento per riflettere sulla sua nuova condizione.
 Era così immersa nei suoi pensieri che non si accorse dei passi alle spalle e si avvide della presenza del castellano Feo solo quando egli parlò: “Mia signora, come state? Posso fare qualcosa per voi?”
 Caterina sospirò, e si trovò ad asciugarsi una furtiva lacrima con il dorso della mano: “Nulla, mio caro Tommaso.”
 Rimase un momento in silenzio, sempre guardando verso San Pietro, poi disse, in un sussurro: “Stavo pensando a tutto quello che è successo, alla morte di mio marito Girolamo...”
 Feo non aveva ancora avuto il coraggio di nominare il defunto Conte Riario nemmeno una volta, da quando la Contessa era arrivata alla rocca, perciò restò un po' sorpreso quando fu Caterina a parlarne. Forse era legittimo, ma il castellano si era quasi aspettato di non sentirla mai più fare il nome di Girolamo...
 “Mio marito è morto – disse Caterina scuotendo lentamente il capo – eppure non riesco a provare altro che rabbia nei suoi confronti.”
 Tommaso Feo si sentiva in imbarazzo. Che doveva fare? Doveva consolarla? Doveva abbracciarla? Doveva starsene muto e basta?
 “Il mio cuore sanguina.” confessò Caterina, sorprendendosi di essere così loquace con quell'uomo.
 La sapeva ascoltare e apparentemente non la giudicava. In quei giorni si sentiva così sola che poter contare su una presenza tanto rassicurante era una vera benedizione.
 “Non credevo che la morte di vostro marito vi avrebbe spezzato il cuore.” commentò piano Tommaso, non riuscendo a trattenersi.
 “Un cuore può spezzarsi per molti motivi – fece Caterina di rimando – e in molti modi...”
 La pesantezza di quell'affermazione gravò su di loro per parecchio tempo, fino a che non apparve il primo sole dell'alba.
 Solo allora, come risvegliandosi dalla cupezza della notte, Caterina tirò su col naso e appoggiò una mano sul braccio di Tommaso: “Cominciamo a scaricare l'artiglieria sulla città. Andate larghi, per i primi colpi, e fatevi sempre più precisi.”
 Tommaso Feo annuì: “Da che parte cominciamo?”
 Caterina ci pensò un momento, poi disse: “Dalla Torre Pubblica. Cercate di non colpire le case dei forlivesi. Magari date un colpo a quella dell'ambasciatore Oliva, tanto ci scommetto che se n'è già scappato da qualche parte, dunque non gli farà poi tanto male perdere la sua casa di Forlì.”
 Il castellano fece un breve inchino: “Provvedo subito.”
 Caterina lo ringraziò e poi lo accompagnò giù dalle merlature. Quando si separarono, Tommaso andò dagli artiglieri per riferire gli ordini, mentre Caterina si ritirò nelle stanze del castellano per controllare con attenzione le mappe cittadine fare i suoi calcoli.
 Gli Orsi avrebbero capito chi comandava. L'avevano provocata, la minacciavano di ucciderle i figli. Ebbene, lei avrebbe fatto altrettanto con loro. Avrebbe minacciato e colpito là dove faceva più male e una volta messi in ginocchio quei boriosi congiurati, li avrebbe puniti in modo esemplare, anche a costo di andare contro la legge degli uomini.
 In fondo anche Cicerone diceva che le leggi tacciono, in tempo di guerra.

 “Mondo boia!” esclamò uno dei forlivesi che stava nella barberia del Novacula, quando partì l'ennesimo colpo d'artiglieria.
 Anche se per ora tutti i proietti erano andati fuori campo, il fracasso provocato dalle esplosioni aveva scosso tutti i cittadini. I muri tremavano, i bambini piangevano e la sensazione che la morte potesse arrivare da un momento all'altro permeava ogni angolo di Forlì.
 La minaccia arrivava dall'alto, dal cielo, come fosse un castigo divino da cui nessuno potesse ritenersi al sicuro.
 “Vogliono buttar giù la Torre Pubblica!” esclamò un altro, coprendosi la testa con le mani, come se un gesto simile bastasse a mettersi in salvo.
 “Certo che sono scarsi! Non riescono a centrare nemmeno un catafalco simile!” rise un altro, ostentando sicurezza.
 “Ignoranti che non siete altro!” li redarguì Andrea Bernardi: “Non sono ancora andati a segno solo perchè non vogliono, mica perchè non ci riescono!”
 “Tu che sai tutto – lo apostrofò un uomo con il ventre prominente e gli occhi porcini – come credi che finirà questa storia?”
 Il Novacula, il cui negozio era ormai diventato solo il crocevia dei pettegoli e dei cittadini che ancora osavano uscire di casa malgrado i colpi di bombarda, allargò le braccia e buttò lì: “Per me la Contessa vincerà e non ne faccio mistero.”
 “Sai che a parlar così gli Orsi o quel maledetto prete potrebbero impiccarti, vero?” chiese ancora il panciuto forlivese.
 Bernardi alzò le spalle: “Io parlo da cronista che conosce la Storia, non lo dico per simpatia verso la Contessa. Chi ha Ravaldino, ha Forlì. Punto.”
 “Quella bestia selvatica...” sospirò un altro, mentre si udiva un altro colpo di artiglieria librarsi in aria: “Nemmeno davanti ai figli minacciati di morte si è fermata. Per me ha ragione il Novacula.”
 Da qui partì un'accesa discussione tra tutti i presenti, che si concluse in fretta con la voce di un garzone che mise dentro la testa nel negozio per annunciare: “La Torre Pubblica è crollata! E pure la casa dell'ambasciatore Oliva!”
 “Porco mondo, quella tigre ci ammazza tutti alla fine!” sbottò uno dei pettegoli e tutti quanti corsero subito a vedere coi loro occhi i danni alla Torre Pubblica.

 “Questo è troppo!” disse Maso Maldenti, appena eletto a capo del Consiglio degli Otto: “Questa mi pare una dimostrazione sufficiente delle intenzioni della Sforza. Ha osato distruggere un simbolo della città. È una dichiarazione di guerra!”
 “Non perdiamo la testa!” intervenne Savelli che, con la sua barba arruffata e gli occhi fuori dalle orbite, pareva più folle di tutti gli altri messi insieme: “Farò chiamare subito tutti i rappresentati di Roma da Cesena. Arriveranno in fretta e con loro decideremo come muoverci.”
 Maldenti sbuffò, come se trovasse quell'idea inutile, ma non si oppose.
 “Piuttosto, qualcuno ha controllato che l'ambasciatore Oliva si sia salvato dal crollo della sua casa?” domandò accorato Savelli che tutto voleva fuorché venir accusato indirettamente della morte di un diplomatico milanese.
 “Oliva è scappato a Faenza ben prima che la sua casa crollasse.” disse Ludovico Orsi, abbattuto.
 Da quando suo padre aveva apertamente dichiarato la sua delusione nei suoi confronti, Ludovico aveva perso ogni velleità.
 
 “Certo, certo, la cosa è molto strana...” stava dicendo Galeotto Manfredi, leccandosi a una a una le dita sporche di salsa: “Lorenzo Medici non mi sembra uomo da agire in modo così vile...”
 Sua moglie, Francesca Bentivoglio, lo guardava schifata da una simile mancanza di buon gusto nell'atteggiarsi a tavola – soprattutto data la presenza di ospiti illustri come l'ambasciatore milanese Oliva – e non trovava le parole per contraddirlo.
 Di Lorenzo Medici aveva idee molto contrastanti. Da un lato gli era grata perchè era stato lui a far allontanare la Pavoni, l'amante di Galeotto, da Faenza. Solo per quel motivo Francesca era tornata sotto al tetto coniugale. Però era anche vero che aveva mascherato un gesto politicamente interessato come quello sotto la maschera del filantropo umanista.
 “Non so, mio signore...” sospirò Oliva: “Questo è quello che ho sentito dire prima di scappare...”
 “Perchè aspettare dieci anni, dico io, se pensava che il Conte Riario era coinvolto nella congiura dei Pazzi?!” domandò Galeotto, esprimendo una volta di più la sua perplessità.
 “Questo proprio non saprei dirvelo, mio signore.” ammise Olive, accettando di buon grado un nuovo calice di vino.
 “Scriverò al mio amico Lorenzo.” concluse Galeotto: “E gli chieder le cose in modo chiaro. Se c'è lui dietro a questa storia, sono anche pronto a sostenerlo, a patto, chiaro, di ricavarne qualcosa.”
 Francesca fece una risata amara e commentò: “Per esempio recuperare Imola, una città inutile e scialba che vi siete fatto soffiare da sotto al naso dagli Sforza Riario?”
 Galeotto finse di non notare il tono di beffa nelle parole di sua moglie che, da quando aveva saputo della morte di Girolamo Riario, si era fatta più sprezzante e astiosa nei suoi confronti.
 Aveva il dubbio che quella donna si fosse fatta coraggio dopo aver incontrato per l'ultima volta Caterina Sforza. Evidentemente, viste le ultime notizie, aveva cominciato a credere che una donna, anche da sola, può far la voce grossa e comandare...
 “Comunque vadano le cose – soppesò Galeotto – o Firenze o Roma si spartiranno Forlì. L'unica che non otterrà nulla è la vedova del Conte.”
 Francesca fece una sibilo divertito e lanciò un'occhiata significativa all'ambasciatore Oliva, come a dirgli che suo marito Galeotto non aveva mai capito nulla di politica e guerra.

 Anche se non erano ancora arrivati dispacci ufficiali da Forlì, a Roma si erano viste proprio quella sera le prime staffette veloci, mandate per lo più a titolo personale da questo o quell'ambasciatore o possidente.
 Innocenzo VIII, quando seppe quello che era accaduto la sera del 14 aprile a Forlì, si finse estremamente sorpreso.
 A Rodrigo Borja non sfuggì il tono apprensivo, ma speranzoso, con cui chiese personalmente al primo messaggero cosa fosse accaduto di preciso. Il fatto, poi, che avesse domandato notizie precise circa la rocca di Ravaldino, avevano fatto capire allo spagnolo che Innocenzo VIII era tutto fuorché all'oscuro di quella congiura che aveva portato Girolamo Riario alla morte.
 Tuttavia Borja non fece parola con nessuno della sua intuizione, iniziando già a pensare a un modo per sfruttarla a suo favore.
 Solo per un breve istante Rodrigo sentì un briciolo di pietà per i sei figli di quello smidollato Conte, ma unicamente perchè, essendo egli stesso un padre, comprendeva la tragedia umana dietro a quella mossa politica. Non gliene importava nulla, in realtà, dei piccoli Riario, nemmeno di Ottaviano che era il suo figlioccio. Inoltre, a quanto era stato detto, la Contessa non era stata uccisa. I congiurati avevano fatto il lavoro a metà e quindi, Rodrigo ne era pressoché certo, alla fine avrebbero avuto la peggio.
 'Quella donna è una belva – pensò – lasciandola in vita si sono scavati la fossa.'
 Raffaele Sansoni Riario, invece, era rimasto sconvolto dalla notizia. Era stato un vero e proprio fulmine a ciel sereno.
 La morte di suo cugino l'aveva precipitato in uno stato di angoscia che non provava da anni. Si era sentito così sperduto solo quando, davanti ai fedeli fiorentini, aveva assistito impotente all'omicidio di Giuliano Medici.
 Cercava di riscuotersi e di trovare un modo per arginare la catastrofe. Caterina era ancora viva, per quel che si sapeva. Forse avrebbe potuto soccorrerla in qualche modo. Aveva molti soldi, poteva assoldare dei cavalieri e mandarli a Forlì a darle manforte...
 Ma il papa come avrebbe preso una simile azione? Cosa intendeva fare il Santo Padre? Per il momento si era solo dimostrato contrariato e stupito, ma prima o poi si sarebbe schierato...
 Raffaele si mise una mano tra i capelli, maledicendo il giorno in cui suo zio aveva deciso di trasformarlo in un uomo di potere. Se fosse rimasto a Savona, se fosse stato un poveraccio, un pescatore o un marinaio, nessuno si sarebbe aspettato da lui nulla...
 

   
 
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