Era
ormai tarda sera, e la festa del Conte Capuleti volgeva
ormai al termine. La grande villa, illuminata a giorno, era straripante
di ogni
genere di persone: chi, ubriaco, corteggiava più di una
ragazza, chi,
instancabile, non aveva ancora abbandonato la pista da ballo, o chi,
come
Tebaldo, che non aveva fatto altro che aspettare quella festa per
settimane, se
ne stava in disparte.
Il giovane rampollo dei Capuleti, stretto nella sua pelliccia rossa,
stava
seduto sulle scale che portavano agli alloggi, rigirandosi tra le mani
il
teschio che portava come maschera. Si torceva le mani e guardava gli
invitati
dello zio, uno più strano dell'altro nei loro abiti da festa
colorati, troppo
colorati per i suoi occhi che potevano tollerare solo colori compresi
tra il bianco
e il rosso, che non facevano altro che ridere e bere, bere e ridere.
Quella festa doveva essere la sua occasione per stare un po' di
più con
Giulietta, senza che gli occhi di tutti fossero puntati su di loro, ma
di
Giulietta non aveva potuto sentire nemmeno il dolce profumo: era uscita
dalla
sua camera a festa già cominciata, ed era sfrecciata di
sotto, tra gli
invitati, mettendosi a ballare con quel Paride, quel fiero e spocchioso
Paride,
come le era stato ordinato dal padre.
E come se non bastasse, era poi sparita in mezzo agli invitati,
abbandonando il
salone, lasciando Tebaldo nel più terribile degli sconforti.
Il più fido dei suoi servi, il suo Gatto, stretto al
corrimano della scalinata,
gli si avvicinò.
"Signore mio, qualcosa vi preoccupa?"
Il tono di voce del Gatto, basso e roco, ridestarono Tebaldo dai suoi
pensieri.
"Vai a cercare Giulietta e quando l'avrai trovata vieni a chiamarmi,
vado
a vedere se c'é ancora vino."
Tebaldo si alzò, scendendo lento la scalinata, attirando
l'attenzione degli
ospiti, mentre il Gatto, lontano da occhi indiscreti, strisciava sotto
i tavoli
e passava dietro le colonne, alla ricerca del vestito bianco di
Giulietta,
abbandonando il salone principale.
Tebaldo, in mezzo a quella marea di abiti festosi, a quella moltitudine
di
risate, non riusciva a non sentirsi a disagio. Cos'aveva quella gente
da ridere
così tanto? Il vino che il Conte aveva fatto servire doveva
essere veramente
ottimo.
Decise di assaggiarlo, per sapere se allora la vita sarebbe sembrata
tanto
felice e priva di tristezze anche a lui, ma il vino non produsse
l'effetto
desiderato e nemmeno il ritorno del suo fido.
"Signore…l'ho trovata…"
Tebaldo posò il bicchiere, non dopo averne tracannato il
contenuto in un sol
sorso, e seguì il Gatto, facendosi largo tra la folla. Perso
nei suoi pensieri,
di poco non inciampò, tanto il Gatto si era fermato
bruscamente; lo vide a
terra, davanti alla finestra che dava sul terrazzo, la testa china.
"Allora, dov'è Giulietta?"
Tebaldo si chinò sul servo, passandogli una mano tra i
capelli scuri,
stringendoli e forzandolo a guardarlo in faccia. Il Gatto non si
soffermò un
solo secondo su quegli occhi così chiari, guardò
invece la finestra, per poi
tornare a fissare, quasi con interessamento, il pavimento marmoreo del
palazzo
e sparire tra le gambe dei ballerini.
Tebaldo scostò con un dito la tenda e quello che vide lo
pietrificò da capo a
piedi.
Giulietta, la sua amata cugina, piccola e pura, al pari di una colomba,
era
tenuta tra le braccia da un uomo, un uomo che sembrava avere le
fattezze di un
Montecchi.
"Il peccato dalle mie labbra? Colpa dolcemente rimproverata! Rendimi
dunque il mio peccato."
Giulietta si sporse in avanti e Tebaldo, interpretando il gesto della
cugina,
richiuse bruscamente la tenda, avanzando a falcate tra la gente,
raggiungendo
il parapetto al secondo piano, dal quale il Conte stava assistendo alla
festa.
Mentre, scalino dopo scalino, Tebaldo si avvicinava sempre di
più allo zio, il
suo petto si riempiva di emozioni conosciute. Più forte di
tutte la rabbia,
l'odio, che prendevano il sopravvento su tutto il resto, sullo
stordimento del
vino, sulla voglia di piangere; per odio, certo, ma Tebaldo aveva
bisogno di
piangere.
"Zio!"
"Si?"
Lo zio era tranquillo, forse preoccupato per il vino, ma non sembrava
aver
notato che alla sua bella festa era entrato un nemico.
"Zio, quello é un Montecchi!"
E cercando tra la folla, indicò poi quella giacca azzurra
che aveva visto
stringere Giulietta.
"Si, é il giovane Romeo."
Le certezze di Tebaldo crollarono: lo zio sapeva tutto e non aveva
ancora
agito? Cosa lo frenava? E poi perché tra tutti i Montecchi,
il più stupido era
sempre Romeo? Avrebbe dovuto riconoscerlo fin da subito e irrompere in
quell'assurda scena, non correre dallo zio.
"Lui, lui; lui, proprio lui, un nemico, un nostro nemico! Un miserabile
venuto qui per dispetto, a beffarsi di noi..."
"Moderati!"
Il Conte afferrò Tebaldo per le spalle, scuotendolo con
forza, come a volerlo
ridestare dai suoi pensieri ingiuriosi contro Romeo.
"Nipote caro, lascialo in pace, egli si conduce come un vero
gentiluomo!"
"Un gentiluomo?"
A Tebaldo veniva da ridere, da quando il figlio del loro nemico era un
gentiluomo?
"Si."
La risposta del conte arrivò secca, spontanea, quasi
scontata.
"Ma zio é una vergogna! Datemi un ferro, datemi qualsiasi
cosa, e io
giuro, sull'onore della nostra stirpe che, che se l'ammazzo non
commetto
peccato!"
"VATTENE!"
Il Conte lo prese nuovamente per le spalle, e lo spinse via, lontano
dalla
balaustra che si stendeva sul piano di sotto.
"Vattene insolente, vergogna!"
Lo spinse violentemente contro una colonna, al quale Tebaldo si
aggrappò, come
se quella colonna, quell'unica colonna, in quel momento, fosse stata la
sua
unica ancora di salvezza, come se una colonna lo avrebbe potuto salvare
dalla
violenza del Conte.
Sentì l'aria vibrare e chiuse gli occhi, pronto a incassare
l'ennesimo colpo,
per poi andarsene, senza replicare, dalla zona principale del palazzo,
per
rifugiarsi nella sua ala, e non fare ritorno dalla famiglia, non prima
che
l'ennesimo livido fosse scomparso. Ma a pochi millimetri dal suo volto,
la mano
dello zio si fermò, smorzando l'aria, come la voce di Lady
Capuleti aveva
smorzato il silenzio che si era creato in casa. Dietro le vaporose
pieghe della
gonna della zia, stava nascosto, quatto quatto, il Gatto, che non aveva
mai
veramente lasciato Tebaldo.
Il giovane, approfittando della situazione che si era creata, si
allontanò
dalla colonna, lasciando il piano superiore, fermandosi in mezzo alle
scale,
dove il Gatto lo raggiunse solo quando i padroni di casa si furono
ritirati
negli alloggi.
Con un tacito sguardo, Tebaldo mandò il fido in
avanscoperta, per poi seguirlo
lentamente.
In mezzo al salone, finalmente lontano dalla sua Giulietta, c'era il
giovane
Romeo: accelerò il passo, cercando di evitare il
più possibile la gente,
seguendo la strada aperta del Gatto, ma quando fu sufficientemente
vicino,
Benvolio e Mercuzio lo stavano portando via.
Se non ci fosse stato il Gatto lì con lui a trattenerlo,
probabilmente gli
sarebbe corso dietro, anche in inferiorità numerica, tanto
era grande il suo
sconforto.
"Via da me! Tutti via! Falsi amici via da qui!"
Il tono di voce del giovane Capuleti era rotto dalle lacrime, che
tentava di
soffocare.
E mentre il Gatto, insieme ad altri servi, guidava fuori dalla dimora
tutti gli
invitati, Tebaldo si abbandonava allo sconforto e continuava a
ripetere, più
per convincere se stesso che gli altri, che lui piangesse, come stava
succedendo in quel momento, solo ed esclusivamente per odio, odio che
chiaramente
era stato riacceso dai Montecchi, che avevano oltraggiato il suo
sangue, la sua
famiglia.
Ma le sue lacrime nascondevano qualcosa di molto più grande
dell'odio, qualcosa
che nemmeno Tebaldo riusciva a capire. Sarebbe stato pronto a spiccare
il volo,
bruciato com'era dall'ira, ma qualcosa di pesante, nel petto, lo tirava
giù,
impedendogli di muoversi.
Rimasto solo nel salone, il Gatto si avvicinò a Tebaldo, che
inginocchiato a
terra, sembrava essere in uno stato pietoso, il vino complice del
dolore.
"Signore mio…"
Si avvicinò a lui, sfiorandogli la guancia con il dorso
della mano, che
ritrasse umida.
Tebaldo alzò lo sguardo, artigliando gli occhi scuri del
fedele servo con i
suoi, arrossati e carichi di lacrime.
"Non sento più niente ormai, in me…."
Il Gatto, impietosito dalle lacrime del padrone, lo aiutò ad
alzarsi e
sorreggendolo per la vita percorse gran parte dei corridoi del palazzo,
per
raggiungere all'ala riservata a Tebaldo.
Arrivato alla porta della stanza di Tebaldo, il Gatto lanciò
una tremenda
occhiata alle guardie che vi stavano di fronte, ed esse, senza
replicare, se ne
andarono. Aprì la porta, e sbattendola velocemente, si
chiuse all'interno della
stanza insieme al suo padrone, che adagiò sulla superficie
morbida del letto.
"Signore mio..."
Tebaldo si era gettato tra le coperte, stringendone alcune tra le dita,
tirandole, arrotolandovici le mani dentro, quasi fino a farsi male.
Tutto,
senza smettere di piangere.
"Puoi andare, grazie."
Ma il Gatto non si mosse, si sedette, invece, sul bordo del letto,
rimanendo
immobile. Tebaldo appoggiò la fronte alle sue gambe, e
prendendo grandi boccate
d'aria, finalmente riuscì a calmarsi.
"Tu non-
"Nulla."
Il Gatto lo precedette, lasciandolo soddisfatto, come al solito.
Tebaldo sapeva di potersi fidare di lui, di lui che non lo abbandonava
mai, che
la situazione fosse favorevole od insidiosa, il fedele Gatto era sempre
accanto
a lui.
Tebaldo si alzò, strisciando i piedi fino ad un tavolino
nemmeno troppo
distante dal letto.
Riempì di vino due bicchieri, e si risedette a letto,
porgandone uno al servo.
Forse il vino lo avrebbe aiutato a far passare quel senso di
inquietudine che
si portava dentro, o, nel caso peggiore, lo avrebbe addormentato; certo
era che
non voleva bere ancora da solo e forse era giusto ricompensare quello
che
poteva definire un fedele amico.
Il Gatto, tranquillo, beveva a piccoli sorsi il dolce vino, al
contrario di
Tebaldo, che in un sorso aveva svuotato il bicchiere.
Il silenzio all'interno di quella stanza era interrotto solo dal lieve
ronfare
del Gatto e Tebaldo lo trovava incredibilmente rilassante. La calma:
quella
cosa che Tebaldo provava raramente, assetato com'era dall'odio,
l'orgoglio, la
vendetta e assediato dall'angoscia, la paura e il timore. Paura e
timore di
cosa? Nemmeno lui ne era certo.
Accarezzò lievemente la testa del Gatto e questo si
alzò, riordinando i
bicchieri ormai vuoti e uscendo poi dalla stanza.
Tebaldo si spogliò, ripose gli abiti da festa nell'armadio e
si sommerse di
coperte: quella notte sarebbe stata lunga, gelida, abitata dai suoi
comuni
mostri.
Si ritrovò a ripercorrere, così, la sua
tormentata infanzia all'interno di quei
sogni. La perdita dei genitori, l'ala protettrice e seduttrice di Lady
Capuleti, i colpi del Conte i cui li lividi e cicatrici erano ben
impressi
nella mente e sul corpo di Tebaldo, che ancora adesso, che era il
più abile
spadaccino dell'intera Verona, secondo lo zio, andava corretto. Ma tra
quella
marea di dolori e timori, spuntava una luce, piccola e lieve, molto
più forte,
comunque, di quanto l'età gli consentiva di essere. Ecco, in
mezzo a quelle
ombre, in mezzo ai suoi demoni, spiccava alta la figura della cugina,
bianca,
pura, inondata di luce.
Il sonno di Tebaldo era diventato lieve, ma d'improvviso la luce che
rischiarava il suo sonno venne divorata da un insolito buio. Accanto
alla
piccola e dolce Giulietta era comparso quel dannato traditore del
sangue
Montecchi, Romeo, che prendeva per mano la cugina, e la allontanava
dalla mano
tesa di Tebaldo, che si svegliò di scatto, risoluto a
concludere quella
spiacevole situazione prima che fosse troppo tardi.
"Gatto!"
Subito, il fedele servo, accorse in camera, preoccupato dall'urlo del
padrone.
"Signore mio?"
"Prepara i miei abiti migliori, e affila la spada, oggi si va a
caccia."
Quando poco dopo il Gatto tornò in camera, portando con
sé i vestiti e le armi
per Tebaldo, scoprì che il padrone aveva appena mandato a
chiamare molte più
ragazze di quanto non facesse solitamente e guardò storto in
sua direzione.
"Signore mio?"
"Gatto, é il giorno, oggi o mai."
Il Gatto rimase perplesso, non aveva mai visto Tebaldo così
tanto risoluto
com'era in quel momento.
"Ma signore, non sarebbe meglio-
"Ce ne sarà anche per te, Gatto, e ancora più
tardi, se la caccia andrà
bene."
Tebaldo si avvicinò al servo, tirandoselo a fianco,
passandogli, violenta, una
mano tra i capelli, mentre sul suo viso si dipingeva un ghigno
tremendamente
vittorioso e provocante.
Il Gatto emise un verso simile a delle fusa, ma poi si
staccò dal suo fianco,
per uscire dalla stanza e rientrare solo con al seguito una decina di
ragazze.
Ma Tebaldo, nonostante la varietà di ragazze che si trovava
davanti, non riuscì
nemmeno a farsi passare il più piccolo dei
pensieri, l'idea di Giulietta
tra le braccia di Romeo era più forte di qualsiasi altra
cosa; l'amore faceva
male, così male che avrebbe ucciso pur di non vederla con
lui e chissà, allora,
se lo zio avrebbe ancora dubitato di lui, della sua determinazione e
della sua
forza.
Scacciò, urlando, le ragazze e indossati gli abiti
controllò il filo della
spada: il Gatto aveva fatto un ottimo lavoro, come al solito.
"Andiamo, si va in piazza."
Ma il suo tono di voce e la sua faccia non sembravano convincenti e il
servo lo
guardò perplesso. Stava per aprire bocca quando Tebaldo,
emettendo un sonoro
sbuffo, si lasciò cadere all'indietro sul letto, coprendosi
la faccia con il
lenzuolo. Passò il resto della mattinata così e
il Gatto seduto a terra, ad
attenderlo, appisolato, la testa a ciondoloni sulle spalle; Tebaldo
pensava e
pensava e mentre pensava sbuffava, a volte sonoramente, altre in modo
sommesso,
ma non riusciva a mettersi il cuore in pace.
Era la cosa giusta?
Di certo, per Giulietta, avrebbe ucciso, non sarebbe nemmeno stata la
prima
volta, ma qualcosa lo frenava. Doveva farlo oppure no?
Avrebbe di sicuro compromesso il suo rapporto con Giulietta,
tagliandosi fuori
da solo dalla sua vita, ma era questo che temeva? Sapeva che, qualsiasi
cosa
avrebbe fatto in quella piazza, non ne sarebbe uscito incolume. Si
accorse
quindi che sperava che Romeo si difendesse, che non si lasciasse
uccidere ma
che combattesse, e sperava di rimanerne anche ferito, lui che non era
mai stato
battuto da nessuno, forse solo per avere una scusa al tremendo vuoto
che si
sarebbe formato nel suo cuore. Pensò e rifletté a
lungo, lui, Tebaldo, un
giovane e fiero Capuleti, in fondo, aveva paura di soffrire e di fare
soffrire.
Ma per Giulietta avrebbe sofferto, lo faceva tutt'ora, incrementare la
dose in
quel modo non serviva ad altro che a farlo stare meglio, in seguito; se
lui non
poteva avere Giulietta, non avrebbe di certo permesso che Romeo potesse
tenerla
tutta per se, chiunque, ma non lui.
Risoluto lanciò via il lenzuolo dal volto e
scattò in piedi, facendo ridestare
il Gatto, che aveva ronfato tutto il tempo, creando, insieme ai sospiri
di
Tebaldo, una quasi piacevole melodia.
"Andiamo!"
Questa volta era convinto, e stretta la cintura e afferrata la spada
uscì dalla
camera, seguito dal fidato servo.
All'aperto il sole picchiava forte e Tebaldo rimpiangeva di aver messo
il
mantello, ma era un buon giorno per morire e altrettanto buono per
uscire
vittorioso da tutto questo: magari ferito, ma vittorioso. Camminarono
in
silenzio fino ai pressi della piazza, quando già si
cominciava a sentire il
gran trambusto che quei tre si portavano sempre dietro.
Pochi passi prima di arrivare alla piazza Tebaldo si fermò
improvvisamente,
facendo preoccupare il fedele servo; chiusi gli occhi,
inspirò profondamente e
tutto d'un fiato spinse fuori l'aria, quando riaprì gli
occhi questi brillavano
di una luce nuova, risoluta, violenta.
Raggiunse a grandi falcate la piazza, zittendo, con una sola parola,
tutti i
presenti.
"Messeri!"
I presenti si girarono subito, per guardare in faccia l'interruttore
dei loro
racconti e dei loro festeggiamenti, mentre Romeo e Benvolio si giravano
lentamente e Mercuzio rimaneva a terra in ginocchio, un amaro sorriso
sul
volto.
"Che la pace sia con voi!"
Si fece il segno della croce, toccandosi oltraggiosamente in mezzo alle
gambe,
provocando una smorfia sul viso di Romeo.
"Una parola ad uno di voi altri!"
L'aria in piazza si faceva palpabile, tutti erano sull'attenti e Romeo
si fece
avanti.
"Ah! Eccolo qui! Il mio uomo… Romeo! L'amore che ti porto
non può
permettersi termine migliore di questo! Tu, sei, un, vigliacco!"
Come Tebaldo aveva a lungo sperato, disteso sul suo letto, Romeo ebbe
il
coraggio di rispondere e, trattenuto a malapena da Benvolio, gli
urlò contro.
"Vigliacco io non sono, tu non mi conosci!"
Tebaldo si ritrovò a pensare che fosse una vera fortuna!
Chissà come doveva
essere un tipo come quel Montecchi; di certo si, preferiva non
conoscerlo.
"Ma questo non ripagherà delle tue offese!"
Che lo conoscesse o meno non aveva importanza, con quale diritto lui
piombava
nella sua vita, nella vita di sua cugina?
"Io non ti ho mai offeso!"
Tebaldo aveva la mano sulla spada, pronto a sguainare dopo un simile
affronto,
se Mercuzio non si fosse messo in mezzo, dividendoli.
"Fredda! Vile! Disonorevole sottomissione, Tebaldo!"
Il Capuleti, sentendosi chiamato in causa fece un passo per
allontanarsi
dall'Escaligero, ma poi allargò le braccia, sorridendo
sadico ai presenti in
piazza e urlando a gran voce.
"Acchiappa topi! Fatti avanti!"
Lo avrebbe fatto? Si sarebbe fatto avanti o sarebbe rimasto li, in
balia dei
pensieri di un folle? Si sarebbe davvero messo contro Mercuzio? Lo
avrebbe
minacciato, colpito, nonostante l'obbiettivo fosse un altro? Non ne era
certo e
stette a sentire.
"Che cos’è che angoscia l’uomo? Oh.. oh
davvero sai poi chi siamo? Che
cos’è che squarcia il cuore?"
Lui, proprio lui, stava parlando d'amore. Cosa accidenti ne sapeva lui,
dell'amore?
Tebaldo non ci vide più dalla rabbia e avventandosi su
Mercuzio, lo afferrò per
il collo. Vennero prontamente divisi da Romeo.
"Tebaldo, Mercuzio! Il Principe ha proibito queste zuffe!"
Tebaldo si allontanò dal centro della piazza, non era
Mercuzio il suo uomo, ma
questo lo attaccò.
"Tebaldo sai che sei nei guai!"
Spontaneamente, girandosi nella sua direzione, Tebaldo,
scoppiò a ridere e
Mercuzio, facendosi serio, continuò.
"Ridi che poi non riderai; la spada mia, tu, assaggerai, ti
piacerà
vedrai, miagolerai! Voltati, dai, re dei gatti tu sei: tu, tu non sai
che
nausea mi fai! Tebaldo qui ti scannerò!"
Tebaldo lo guardò, risoluto; effettivamente non era lui il
suo uomo, ma dopo
una provocazione del genere non avrebbe lasciato correre, un duello in
più non
avrebbe fatto male: avrebbe dato una lezione a Mercuzio e in seguito
avrebbe
saldato il suo debito con Romeo.
"Mercuzio! No ma guardati dai! Che uomo sei? Tra le gambe cos'hai? Sei
un
uomo a metà, si, si ecco chi sei! A terra striscerai, la
lingua ingoierai! Tu
appesti la città! Ma che agonia questi anni per me, l'attesa
però compensata
sarà! Mercuzio, io,ti ammazzerò!"
La rabbia stava prendendo il sopravvento e Tebaldo stava perdendo
tempo, prima
avrebbe ucciso Romeo prima tutto quel trambusto sarebbe finito;
Mercuzio era
solo d'intralcio.
Furono interrotti nuovamente da Romeo, ancora e ancora, mentre la loro
lite
diventava sempre più violenta. Ad un tratto, mentre
combattevano a spade
sguainate, Tebaldo sentì deviarsi un colpo dal braccio di
Romeo e la mano
affondare nella carne di qualcuno, il sangue caldo scorrergli tra le
dita e spaventato
si allontanò, lasciando la spada.
Si guardò le mani, bagnate e rosse e rimase immobile. Sapeva
di non aver ferito
l'uomo giusto. Il fedele servo, notando lo sguardo smarrito del
padrone, lo
trasse via dalla mischia, allontanandolo dal centro della piazza.
Tebaldo chiuse gli occhi ed inspirò, quello era l'inizio
della fine.
Guardandosi le mani impregnate di sangue sapeva di aver colpito
abbastanza da
uccidere e sapeva di aver appena decretato la sorte di gran parte della
città.
Mercuzio, infatti, aveva annunciato a tutta la piazza, in particolare a
Romeo,
di essere stato ferito e Benvolio, incredulo, era già corso
a prenderlo tra le
braccia.
A Tebaldo non ci volle molto per capire che il suo piano era andato in
fumo.
Non c'era nessun'onore nell'uccidere un uomo innocente, certo, era
Mercuzio e
non lo aveva mai sopportato, ma non aveva nessuna colpa che meritasse
la morte.
Aveva ucciso per molto meno, ma gente di molto meno conto. Uccidendo la
persona
sbagliata aveva segnato non solo la sua sventura, ma quella di molti
altri.
Prima tra tutti quella dello stesso Mercuzio: non avrebbe resistito ad
un colpo
del genere, ma non sarebbe stato una morte rapida e indolore.
Con la sua morte, Mercuzio, e di conseguenza Tebaldo, avrebbe reso la
vita di
Benvolio un vero inferno. Benvolio, il pacifico e quasi ragionevole
Benvolio,
non avrebbe retto un giorno senza Mercuzio, colui che amava
così teneramente;
sarebbe stato distrutto dalla sua morte e allora anche l'unica anima
sopportabile di Verona sarebbe diventata tormentata, assalita di incubi.
Tebaldo aveva decretato anche la sua sorte, uccidendo un parente del
Principe
non l'avrebbe passata liscia, no di certo. E nemmeno Romeo sarebbe
stato
perdonato, non sarebbe rimasto con le mani in mano, si sarebbe
vendicato e
quindi una minima parte di colpa sarebbe stata anche sua. Se una parte
di colpa
fosse ricaduta su Romeo, Giulietta non lo avrebbe mai sopportato e di
certo non
lo avrebbe perdonato a Tebaldo, togliendogli la parola, il saluto e
magari
anche il sorriso, che era l'unica cosa che portava un po' di sole nella
sua
vita.
Tebaldo ripensò quindi a come doveva andare il suo piano e a
come era andato
realmente; c'era la differenza di un abisso. L'idea era quella di
sbarazzarsi
di Romeo per rendere la sua vita e quella di Giulietta decisamente
migliore, il
risultato era stato quello di aver rovinato tutto, decisamente tutto.
In quel momento, mentre Tebaldo, ancora immobile ripensava a quello che
era
appena successo, Mercuzio stava sprecando il suo ultimo respiro per
baciare
quel traditore di Romeo, suscitando l'immediata reazione dell'intera
piazza e
soprattutto del giovane Benvolio, che aveva ormai gli occhi gonfi e
lucidi.
Caduto a terra esanime, la piazza si fece taciturna, l'aria gelida e
opprimente, l'atmosfera tesa, squarciata solo dall'urlo straziante di
Benvolio,
riverso a terra, in lacrime, tra le mani un pezzo della camicia di
Mercuzio.
Quando quell'urlo giunse alle orecchie di Tebaldo tutto parve perdere
senso, o
acquisirne uno nuovo. Non se la sarebbe sentita di vivere con un peso
così
grande sulla coscienza. Aveva portato la morte sulla città,
morte che non se ne
sarebbe andata tanto presto da un luogo dove ognuno ha motivo di odiare
colui
che non é del suo stesso sangue. Gettò un ultimo
sguardo a Benvolio, ancora
steso sul pavimento della piazza, in lacrime, scosso da tremiti e
sussulti e
decise di non volersi ridurre così.
Tebaldo, respirando un'ultima volta l'aria calda e pura della sua
Verona mise
da parte l'onore, allargò le braccia al suo nemico e
abbracciando la morte che
stava avvolgendo piano piano tutta la città, si
lasciò uccidere per amore della
cugina, della quale non avrebbe sopportato lo sguardo severo ed
accusatorio.
Sentì chiaramente il pugnale di Romeo lacerare la carne,
membra dopo membra, il
sangue scorrere lungo il fianco e impregnare i vestiti, i sensi venir
meno.
Attorno a lui il caos della piazza e i respiri mozzati dei Capuleti che
stavano
accorrendo in suo aiuto. Spiccavano, in tutto quel trambusto, delle
voci che
Tebaldo avrebbe riconosciuto tra mille altre. La flebile voce del
fidato servo,
compagno di avventure e sempre vicino nelle disgrazie, la voce, mai
sprecata,
che pacata dispensava consiglio e riservata non lasciava trapelare i
segreti
del padrone; la voce alta di Lady Capuleti, forse la figura
più carismatica che
avesse mai conosciuto, la più manipolatrice e calcolatrice,
ma comunque l'unica
che alla Villa avesse mai manifestato un po' di amore per lui, dalla
seduzione
alla protezione dal Conte; e poi, più forte delle altre
l'inconfondibile dolce
voce di Giulietta, annacquata e rotta dal pianto, gridare il suo nome a
pieni
polmoni.
Tebaldo chiuse gli occhi, sentì freddo e le braccia del
Gatto non bastarono più
a sorreggerlo.
Cadde a terra con un sorriso nato spontaneamente in volto; la morte lo
aveva
accolto nel migliore dei modi.
~
~
Odioso
angolino della folle cronica:
Saaaaaalve
:3
Scrivo giusto due cosette: molti dei dialoghi trascritti sono i pezzi
presi
direttamente dall'opera, non sono quindi, di mia invenzione.
Mi sembra giusto puntualizzare che so che nel musical italiano Tebaldo
muore
sul colpo e che Giulietta non pare minimamente scossa dalla cosa, ma
nell’originale
francese, non solo Tebaldo rimane in agonia per qualche secondo, ma fa
davvero
in tempo a sentire Giulietta che urla disperata il suo nome; mi
è sembrato
carino concludere la storia così, spero non vi sia
dispiaciuto.
Buona lettura, baci
Ino