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Autore: Adeia Di Elferas    05/04/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Quel 18 aprile entrarono in Forlì i rinforzi arrivati da Cesena, capitanati dai Conti Guido Bagni e Carlo del Piano di Meleto, Ettore Zampeschi e altri ufficiali minori.
 Quasi nello stesso momento, anche un araldo di Giovanni Bentivoglio varcò le porte della città chiedendo di poter parlare subito con Monsignor Savelli.
 Questi, che avrebbe preferito dedicarsi ai suoi uomini, gli accordò comunque un incontro presso quello che era stato il palazzo dei Riario.
 “Parlate pure.” fece Savelli, quando l'araldo gli fu davanti.
 Il Consiglio degli Otto era schierato tutt'attorno al messo straniero. Questi aveva imparato a memoria il discorso del suo signore e lo riferì con un tono così accorato che i più distratti pensarono che quello fosse un ambasciatore milanese, piuttosto che bolognese.
 “Miei signori – cominciò a dire l'uomo, senza inginocchiarsi né concedere altri segni di sottomissione – sono qui per chiedervi di liberare la Contessa Sforza Riario e i suoi figli. Inoltre vi chiedo anche di restituire seduta stante la città nelle mani di Ottaviano Riario e di sua madre, sua legittima reggente.”
 Monsignor Savelli fece un sorrisetto e stava per ribattere con qualche battuta sagace, quando il messo bolognese, con un certo ardire, alzò la mano per far capire che il suo discorso non era ancora concluso.
 “Non fate alcun male ai bambini della Contessa – redarguì – o ve ne pentirete amaramente.”
 Gli Otto sussultarono, cominciando a recriminare e parlottare tra loro. Come osava uno straniero arrivato da bologna dire certe cose davanti a un inviato del papa?!
 “E lo stesso vale per la Contessa. Fatele del male e avrete di che pentirvi.” concluse l'araldo dei Bentivoglio, con durezza.
 “Non abbiamo alcuna intenzione di far male ai bambini. Non siamo bestie.” disse subito Savelli, fingendosi molto offeso.
 “Ci è stato riferito il contrario.” obiettò il messo di Bologna.
 “Vi è stato riferito male. E comunque non faremo del male nemmeno alla Contessa. E neppure al castellano Feo.” si difese Savelli, chiedendosi chi mai ci fosse dietro a quell'invettiva di Giovanni Bentivoglio: “Basterà che loro ci consegnino la rocca di Ravaldino e avranno salva la vita e conservata la salute. La Contessa potrà allora tornarsene coi figli a Imola e l'incidente sarà concluso.”
 “L'incidente...” sussurrò l'araldo, beffardo.
 “Questo è tutto. Andate pure dal vostro augusto signore e riferite la mie parole.” disse Savelli, bruscamente.
 Il messo bolognese lanciò un ultimo sguardo a Savelli e, senza un vero saluto, girò sui tacchi e se ne andò dalla stanza del Consiglio.
 Checco Orsi che, assieme a suo fratello, aveva assistito alla conversazione stando nel suo angolino, approfittò della confusione che si era alzata alla partenza dell'araldo per lasciare la camera e rincorrere proprio il bolognese.
 Le parole di Savelli gli erano parse troppo morbide e misurate. Era chiaro che dietro a Bentivoglio c'era Ludovico Sforza. Dovevano fargli capire che nessuno avrebbe potuto salvare la Contessa Riario, nemmeno le truppe milanesi.
 Riuscì a raggiungere l'araldo quando questi era già nella piazza principale. Senza troppe cerimonie lo afferrò per la spalla e lo fece voltare.
 “Voi! Bolognesi...” cominciò Checco, cercando le parole: “Dovreste starvene tranquilli a casa vostra invece di impicciarvi degli affari di Forlì. Devo forse ricordarvi com'è finita l'ultima volta che Bologna e Forlì si sono date battaglia? Credo che la vostra città ancora ricordi i carri forlivesi che trascinavano i corpi dei bolognesi morti... Ebbene, sappiate che finirà così anche questa volta, se vi lascerete convincere a venir contro di noi. I forlivesi non hanno paura di Bologna, riferitelo al vostro padrone.”
 Il messo dei Bentivoglio scansò Checco Orsi di malagrazia e sibilò: “Riferirò la vostra insolenza, non abbiate paura.”
 
 “Sì, possiamo farli entrare, ma dobbiamo fare in fretta.” spiegò Tommaso Feo, dopo aver ascoltato le parole della sua signora.
 Da tutto il giorno dalla rocca di Ravaldino partivano proietti diretti verso i punti cruciali del governo di Savelli, ma nessun colpo era andato a segno. Dopo tutto, Caterina non voleva radere al suolo una città che forse un giorno sarebbe tornata in mano sua.
 Ora che si avvicinava la sera, alcuni forlivesi che Caterina conosceva bene si erano avvicinati a un lato della rocca e da oltre il fossato avevano lanciato una richiesta legata a una freccia fin dentro le mura della cittadella.
 Chiedevano di potersi unire ai soldati della rocca per proteggere la Contessa e per restituire la libertà a Forlì. Savelli, a quanto scrivevano, si stava dimostrando troppo rigido e violento nel reprimere i moti spontanei di chi voleva consegnare la città a Ottaviano Riario e così loro, che da sempre stavano dalla parte della Contessa, si sentivano in pericolo e desiderosi di combattere per la loro causa.
 “Bene, allora appena cala il buio, li faremo entrare.” concluse Caterina, sorridendo.
 Quella dimostrazione di lealtà da parte di quei forlivesi l'aveva stupita e onorata allo stesso tempo, facendole ritrovare un po' di buon umore.
 “Possiamo fidarci?” chiese Tommaso Feo, restio ad aprire le porte della rocca a qualcuno che non conosceva personalmente.
 “Sono tutti uomini che ho conosciuto nel corso di questi anni.  Certi sono validi artigiani e un paio danno fare i fabbri. Ci servono soldati, loro si offrono...” disse Caterina inclinando un po' la testa: “Se non posso fidarmi nemmeno di cittadini che ho sempre reputato leali, allora non posso più fidarmi di nessuno.”
 Tommaso Feo sospirò e concluse: “Bene, allora sarà fatto, mia signora.”
 
 Il mattino seguente per Forlì serpeggiava una strana voce. Alcuni dicevano che degli uomini erano stati fatti entrare di nascosto nella rocca, eludendo perfino i controlli di soldati appena arrivati da Cesena.
 Monsignor Savelli chiese di saperne di più e in breve ne ebbe conferma. Incollerito e offeso per una simile beffa, ordinò subito a Checco Orsi di occuparsene.
 Questi, chiedendosi cosa mai avrebbe potuto fare per rimediare a una simile figuraccia, si fece stilare un elenco con i nomi dei forlivesi ribelli e andò nelle loro case a prendere le loro mogli e i loro figli.
 Con un piccolo corteo di prigionieri piangenti e urlanti, si presentò davanti alla rocca di Ravaldino, mettendo in scena quella che ormai era una recita trita e ritrita a cui i cittadini accorsi assistettero senza più nessuna traccia di interesse. Tra loro, ormai, c'erano solo paura e malcontento.
 Le donne furono spinte a pregare i mariti di uscire dalla rocca, di convincere il castellano ad arrendersi, addirittura di uccidere la Contessa per guadagnarsi il perdono degli Orsi.
 A un certo punto, una giovane donna in mezzo alle prigioniere, si asciugò le lacrime e disse, rivolgendosi direttamente a Checco Orsi: “Mio marito Bernardino è tra quegli sciocchi, ma io so come farlo uscire, o meglio...” e si avvicinò a Orsi per dirgli a voce più bassa: “So come convincerlo a uccidere la Contessa e il castellano e consegnare a voi la rocca.”
 “E come?” chiese Orsi, credendola una povera illusa.
 “Lasciatemi parlare con lui a quattr'occhi – disse la donna annuendo – e vedrete come lo convinco, signor sì.”
 Checco Orsi sospirò e alla fine, dopo un lungo sguardo alla rocca, si disse che non aveva nulla da perdere. Alla peggio, non avrebbe più avuto indietro quella stupida donna. Una popolana in più o meno che differenza poteva fare a quel punto?
 “E sia.” concesse e si apprestò a chiamare Tommaso Feo sulle merlature, per proporgli di lasciar entrare quella donna che voleva parlare con il marito.
 Tommaso Feo, dopo aver ascoltato le parole di Orsi, guardò un momento Caterina, che stava al suo fianco, ben nascosta dietro le merlature.
 Questa si acciglio, ma poi gli fece segno di accettare e così Tommaso Feo fece calare in fretta il ponte, per lasciar entrare quella strana donna.
 Come la sua signora Caterina aveva fatto pochi giorni addietro, così ora quella donna entrava nella rocca, protetta dagli arcieri schierati sulle merlature e, appena prima di varcare la grata, dedicò a Orsi qualche gestaccio e gridò: “Come si sta bene, in questa rocca!”
 Checco Orsi avvampò, non tanto per quello che la popolana aveva detto e fatto, quanto per la reazione delle altre prigioniere.
 Mentre il ponte veniva rialzato, infatti, tutte le donne che aveva trascinato fino a lì nel tentativo di ammorbidire i volontari che erano passati dalla parte della Contessa nottetempo, cominciarono a inneggiare a Caterina Sforza e a Ottaviano Riario, benedicendo quella loro concittadina che aveva emulato la Contessa, mostrandosi forte quanto e più di un uomo.
 Dalle merlature apparvero i volti dei mariti delle prigioniere e in breve tra questi e le mogli cominciò uno scambio quanto mai gioioso di promesse. Tutti loro dicevano che sarebbero stati dalla parte della Contessa fino alla fine e che era meglio morire liberi che vivere da schiavi.
 Caterina, lasciando tutto in mano a Tommaso, visto che ormai la situazione sembrava essersi risolta in loro favore, scese per salutare quella donna che aveva tanto infiammato gli animi delle sue compari.
 Però, quando arrivò all'ingresso della rocca, si fermò un momento. La coraggiosa giovane era stretta a suo marito Bernardino, in lacrime per la gioia di poterlo riabbracciare.
 Caterina li guardò per un lunghissimo momento, ricordando gli abbracci che aveva visto da bambina tra suo padre e Bona di Savoia. Erano come quello. Marito e moglie si aggrappavano l'uno all'altra come se non ci fosse altro di importante al mondo.
 Con un sorriso triste, Caterina li lasciò al loro amore e se ne tornò nello studiolo, chiedendosi se mai avrebbe davvero capito quel grande mistero che sembrava esserle stato precluso per sempre dal suo primo marito.
 
 “Savelli era su tutte le furie! Ma cosa ti è saltato in mente?!” sbraitò Ludovico Orsi, prendendo suo fratello per le braccia e scuotendolo come fosse stato un bambino capriccioso.
 “Che dovevo fare?!” gridò quello di rimando.
 “Sei caduto due volte nella stessa trappola!” ululò Ludovico: “Non hai pensato che quella donna non sarebbe più uscita dalla rocca? Non hai capito che ascendente ha Caterina Sforza su queste popolane ignoranti?!”
 Checco si sentì scuotere da un moto di disperazione tale che per poco non si mise a piangere.
 Ludovico comprese lo stato mentale del fratello, perciò tentò di calmarsi e concluse: “Bene, scriviamo subito a Lorenzo Medici. Adesso non può più tergiversare. Se non vuole perdere Forlì, dovrà aiutarci, mondo boia!”
 E così dicendo, prese carta e inchiostro e cominciò a buttar giù la lettera più accesa che mai avesse osato spedire al suo sedicente alleato.

 La notizia della morte di Girolamo Riario e di tutto quello che era seguito nelle ore immediatamente seguenti stava facendo il giro delle corti italiane.
 L'araldo dei Bentivoglio si era fermato a Imola, per non dover affrontare di nuovo un lungo viaggio ed era stato accolto dal Governatore come un sostenitore della Contessa Riario e di suo figlio Ottaviano.
 Proprio da Imola, appena aveva messo piede in città, il legato aveva fatto partire staffette rapidissime verso Bologna e Milano, sperando, però, che le voci corressero ancor più rapide, risalendo fino alla valle del Po.
 E certi pettegolezzi, è noto, volano più rapidi dei messaggeri ufficiali.
 Ludovico Sforza ascoltava il resoconto corrucciato, preoccupato per tutte quelle novità sconvolgenti.
 Non si trattava di notizie ufficiali, verissimo, ma erano attendibili senza ombra di dubbio.
 “Dunque mia nipote era ancora viva, quando avete saputo queste cose?” chiese Ludovico, accomodandosi sullo scranno e giungendo le mani sul ventre.
 Il messaggero ufficioso annuì con forza e per un momento esitò. Ludovico capiva che gli stava dicendo solo la mezza messa, perciò lo invogliò a parlar chiaro con un gesto significativo della mano.
 Allora l'informatore sospirò e, abbassando gli occhi, prese a raccontare della scenetta che aveva visto come protagonista una Caterina Sforza pronta a denudarsi in pubblico pur di recare offesa a Monsignor Savelli e fargli paura.
 “E così, mio signore – stava dicendo l'uomo – pare che vostra nipote abbia sollevato la sottana e abbia detto: impiccateli pure, se volete...”
 Ludovico gli occhi stretti e cercava di immaginarsi la scena, mentre il messaggero occasionale arrossiva come un ragazzino nel concludere: “Ho qui il necessario per farne altri. Così gli ha detto...”
 Tutti i presenti restarono basiti e per un momento parve che anche Ludovico fosse rimasto senza parole.
 Di punto in bianco, però, questi prese a ridere come nessuno lo aveva visto fare da anni. Rideva tanto forte che gli vennero le lacrime agli occhi e gli mancò il fiato.
 Per cercare di contenersi, prese a battere la mano sul bracciolo dello scranno, ma ci vollero dieci minuti buoni per farlo tornare in sé.
 Una volta recuperato un minimo di contegno, il reggente del Duca di Milano si asciugò gli occhi con la manica e disse, con la voce ancora scossa dal riso: “Ah! Quella ragazza ha decisamente passato troppo tempo in mezzo ai soldati, quando era bambina!” 
 Dopo averlo ricompensato per le notizie, Ludovico congedò l'informatore e chiese a Calco di seguirlo nelle sue stanze. Dovevano parlare della questione di Forlì e decidere come muoversi.
 “Fate preparare un esercito degno di questo nome. Che scendano in Romagna a marce forzate e spaventino un po' quell'uomo in gonnella di Monsignor Savelli.” disse Ludovico, ancora allegro per la risata di poco prima.
 “Ma non abbiamo la certezza che...” cominciò a dire Calco.
 “Ovviamente prima aspetterò un messaggio ufficiale!” lo zittì Ludovico: “Ma non posso farmi scappare questa occasione.”
 “Che avete in mente?” chiese il cancelliere, perplesso.
 “Ecco, vedete...” cominciò a dire Ludovico, ma venne bloccato da un insistente serie di colpi alla porta: Che c'è?!” chiese.
 Uno dei segretari entrò e, chinando il capo disse: “Un messaggero da Forlì! Da parte di vostra nipote Caterina Riario!”
 Ludovico sorrise e guardò Calco in modo significativo: “E ora pensiamoci noi, a domare questa tigre...” gli sussurrò.

   
 
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