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Autore: Adeia Di Elferas    06/04/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Sta arrivando una nuova passavolante da Cesena – spiegò Savelli, porgendo un foglio a Maso Maldenti, capo del Consiglio degli Otto – ma nel frattempo dovete leggere questa Breve appena arrivata da Roma a tutta la popolazione.”
 Maldenti prese la missiva e le diede una rapida scorta. Non aveva visto nessun messaggero, quella mattina, dunque da dove arrivava quella lettera?
 “Cosa dice?” chiese l'uomo, senza perdere tempo a leggersela tutta.
 “Che il papa è molto dispiaciuto per la morte orribile fatta dal Conte Riario, ma che condanna aspramente la condotta della vedova, mentre apprezza il comportamento dei forlivesi che si stanno dimostrando un popolo comprensivo e maturo...” disse Savelli, riassumendo in modo estremo il discorso.
 “Comprensivo e maturo!” soffiò Maldenti, agitando il foglio: “Un sacco di panzane.”
 “Che voi leggerete come se ci credeste davvero.” lo redarguì Savelli, gli occhi illuminati da un guizzo di ferocia.
 Maldenti annuì: “Se è questo che vuole il papa...”
 “Fidatevi, è proprio questo che vuole il papa. Queste parole ci faranno prendere tempo e smorzeranno gli animi della città.” assicurò Savelli, facendo segno al Consigliere di andare a svolgere in fretta il suo compito.
 Maldenti lasciò la stanza con passo ciondolante, cominciando a leggere il discorso che avrebbe dovuto riferire ai forlivesi, ignorando completamente che quelle poche righe erano state scritte nottetempo dallo stesso Savelli.

 Lorenzo Medici accartocciò la lettera e la gettò nel fuoco. Prima Stefano da Castrocaro e ora anche Galeotto Manfredi...! Tutti quanti a chiedergli quanto c'entrasse con la congiura degli Orsi!
 Diede un forte pugno al muro, pentendosene subito. La gotta, che aveva preso da qualche giorno a tormentarlo, gli faceva dolere anche le articolazioni della mano e un colpo simile non era certo un piacere.
 Piegandosi su se stesso, la mano dolente in grembo, soffiò per ritrovare la calma.
 Gli Orsi erano stati degli inetti. Avevano agito in modo approssimativo e affrettato, malgrado gli anni passati a complottare e litigare sui dettagli di quell'operazione.
 Avevano ucciso Girolamo Riario, ma avevano lasciato in vita Caterina Sforza e tutti i suoi figli e ora che quella donna era riuscita a entrare a Ravaldino, Forlì era persa per sempre, per Firenze.
 Come avevano potuto essere tanto stupidi da lasciare che quella vipera entrasse nella rocca? Tutti sapevano che il castellano le era fedele!
 Lorenzo si appoggiò al muro, guardando in alto. Nel suo stato di salute si sentiva indifeso e debole. La sua famiglia era sempre di primaria importanza, ma cosa sarebbe accaduto, quando si sarebbe saputo della sua malattia? Secondo i dottori sarebbe peggiorato e anche in fretta, morendo molto prima di suo padre e di suo nonno.
 Aveva forse osato troppo a chiedere di avere una città da donare a suo genero, nella speranza che smettesse di tormentare sua figlia?
 Era stato troppo arrogante nel voler rovesciare un inetto come Girolamo Riario?
 Forse era stato solo troppo superficiale e avventato nel fidarsi di uomini che in fondo non aveva mai conosciuto davvero.
 Se solo Caterina Sforza fosse stata dalla sua parte e non sua avversaria...
 Lorenzo andò alla scrivania e recuperò le ultime lettere inviategli dagli Orsi. Non le aveva ancora distrutte perchè voleva avere un po' di tempo per ragionare bene sulle loro parole.
 Le spiegò una accanto all'altra e le rilesse in rapida successione. Le parole di quegli uomini parevano sempre più concitate e disperate, ben lontane da quelle che sarebbero dovute essere le frasi di un vincitore.
 Invocavano apertamente il suo aiuto, ricordando come l'esercito fiorentino fosse ormai l'unica vera arma di ricatto contro la Contessa Riario, dato che nemmeno minacciarne i figli era servito.
 Innocenzo VIII, che avrebbe dovuto schierarsi subito a favore degli Orsi, prendeva tempo, vacillava e lasciava quel povero diavolo di Savelli in balia di una città scossa fin nelle fondamenta.
 Lorenzo fece un profondo respiro e alla fine si decise a raggruppare tutte le lettere degli Orsi e a buttarle nel fuoco.
 Tutto nel fuoco. Al diavolo gli Orsi, la Sforza e Forlì.
 Al diavolo tutti, la sua vendetta l'aveva avuta, che ora se la sbrigassero loro con i loro intrighi e i loro errori...!

 I controlli attorno alla rocca di Ravaldino si erano fati più serrati. Dopo il vergognoso episodio della donna che aveva emulato la Contessa, Checco Orsi non avrebbe sopportato un'altra umiliazione.
 Perciò, quella sera, quando due uomini cercarono di farsi notare dalle guardie della rocca per consegnare un messaggio, i soldati agli ordini di Savelli non se li fecero scappare.
 Si trattava di due legati dei Bentivoglio, che volevano recapitare un messaggio molto importante alla Contessa, ma che, vedendo sfumare la loro impresa, avevano chiesto apertamente la condanna a morte.
 Ludovico Orsi, per evitare incidenti diplomatici, li lasciò liberi, ma banditi per sempre da Forlì. Con ciò credeva di far cosa gradita a Savelli, che non voleva incidenti con Bologna.
 “Ci sarebbe voluta una pena esemplare – lo rimproverò invece il religioso – dovevate appenderli per i piedi al rivellino di San Pietro, in modo da spaventare chiunque avesse in mente di seguire il loro esempio!”
 
 Nella rocca la vita scorreva in modo più normale di quanto non ci si potesse immaginare.
 La stessa Caterina, passato il primo momento di profondo sconforto, aveva cominciato ad avere delle piccole abitudini che trovava di grande conforto.
 Anche se l'idea della sua famiglia ancora in mano agli Orsi le tormentava il sonno e riduceva l'appetito, il fatto che non ci fossero notizie su nessuno dei suoi figli né su sua madre o sua sorella le faceva capire che erano ancora vivi e che né gli Orsi né Savelli avevano ancora deciso che farne.
 Aveva capito, per quanto cinico apparisse anche a lei questo discorso, che se voleva salvare davvero loro la vita, doveva prima di tutto salvare la propria. Così, ogni volta che le ombre della sua mente la facevano vacillare e prendere in considerazione l'ipotesi di lasciar perdere la rocca, Forlì e il titolo e di accettare il salvacondotto per Imola, si convinceva che l'avrebbero fatta a pezzi non appena avesse messo un piede fuori da Ravaldino e quindi proseguiva nella sua strenua resistenza.
 A conti fatti, la vita nella rocca la stava rinfrancando. Per molti versi, era come vivere ancora nel palazzo di Porta Giovia.
 Passava il suo tempo a pianificare attacchi e consultarsi con Tommaso Feo o con il capo dell'artiglieria e per il resto della sua giornata, studiava le mappe cittadine e ideava messaggi e ultimatum da mandare agli Orsi per convincerli ad arrendersi.
 Aveva anche preso l'abitudine di chiacchierare con la donna che era entrata nella rocca per ricongiungersi con il marito Bernardino.
 Benché Caterina non avesse mai avuto vere e proprie amiche, quella presenza le faceva piacere.
 Quella giovane si era offerta di aiutarla in qualità di cameriera e Caterina aveva accettato, più per il desiderio di avere qualcuno con cui chiacchierare che non per altro.
 In realtà era più la forlivese a parlare, chiacchierando in continuazione di qualunque cosa. Caterina ascoltava e faceva qualche domanda di tanto in tanto, giusto per  non essere completamente passiva.
 Si rese conto in quei giorni di essere davvero una persona poco loquace, come spesso aveva sentito dire. Le rare volte che si trovava ad aprire bocca era per dare ordini o per dire qualche impropero contro i suoi nemici.
 Non poteva evitare di chiedersi se quel suo modo di essere fosse stato forgiato dai lunghi anni passati accanto a Girolamo.
 Una sera, mentre la moglie di Bernardino l'aiutava a svestirsi, Caterina le chiese come aveva conosciuto l'uomo di cui pareva tanto innamorata.
 La donna rispose con semplicità, descrivendo un incontro molto tranquillo, tuttavia Caterina capì dal tono della sua voce che quel 'primo sguardo' di cui aveva parlato la giovane era stato qualcosa di incredibile e difficile da raccontare.
 “Come hai fatto a capire che ne eri innamorata?” chiese Caterina, mentre l'altra le legava i capelli.
 “Non so... Quando capita, lo si sa e basta, mia signora.” rispose la giovane, con un sorriso pacato.
 Caterina non fu soddisfatta da una risposta tanto sommaria, ma non volle darlo a vedere. L'amore era un argomento su cui si sentiva completamente ignorante e non voleva che questa sua mancanza si notasse troppo.
 Tuttavia la forlivese doveva aver intuito la perplessità della Contessa, perchè, prima di lasciarla riposare, le disse, a mo' di incoraggiamento: “Prima o poi capita a tutti di innamorarsi, non abbiate paura, mia signora.”

 Nei pochi giorni che seguirono, ci furono mosse e contromosse di artiglierie e schermaglie verbali che misero a dura prova la fibra di ambo le parti.
 Dalla rocca di Ravaldino partivano, alle ore più strane, colpi di bombarda verso le case delle famiglie ribelli e delle chiese più frequentate, ma senza mai danni importanti.
 Dal passavolante di Savelli venivano sparati altrettanti colpi che però scalfivano appena le spesse mura della cittadella di Ravaldino.
 Parimenti un via vai di ambasciatori e messaggeri continuava senza sosta, con sorti alterne. Perfino i nobili di Cesena vennero scomodati, affinché cercassero di far ragionare i nobili forlivesi, costringendoli a schierarsi apertamente a favore di Monsignor Savelli e di Santa Madre Chiesa.
 Caterina, di rimando, pur senza sapere le mosse del suo avversario, aveva cominciato a far lanciare fuori dalla rocca dei verrettoni con cui intimava la popolazione di arrendersi in fretta a lei, imbracciando le armi contro gli invasori pontifici, prima di incorrere in gravi lutti e orribili conseguenze.
 Siccome al 26 aprile ancora i forlivesi non avevano raccolto questo avvertimento, la Contessa prese l'amara decisione di colpire la città, senza distinzione di rango o nome.
 Dopo aver ricevuto sette colpi dalla bombarda di Savelli piazzata proprio davanti alla rocca, Caterina diede ordine agli artiglieri di rispondere con altrettanti proietti più uno.
 Il primo colpo di bombarda cadde sopra a una bottega chiusa, vicino alla piazza, senza causare danni alle persone, ma solo all'edificio.
 Il secondo fu ancora più innocuo, cadendo nel cortile di una casa. Fece un gran buco nel terreno, ma nessuno rimase ferito.
 Il terzo colpo finì sulla chiesa di San Mercuriale, ma causando pochi danni e non troppo spavento.
 Il quarto finì proprio sulle rovine della già distrutta casa dell'ambasciatore milanese Oliva, che così venne completamente rasa al suolo.
 Il quinto colpo entrò come per miracolo da una finestra della casa di Serughi, uno dei tre carcerieri che vegliavano sulla famiglia di Caterina. Distrusse qualche mobile, sfondo una parete, ma nemmeno questo causò morti né feriti.
 Il sesto diede un brutto danno alla casa di Giovanni Rossi, causando qualche danno, ma nessun lutto.
 Il settimo colpo prese in pieno la casa, per fortuna deserta in quel momento, di Bastiano Bonone.
 L'ottavo colpo arrivò fino alla casa degli Orsi. Come se fosse guidata da una mano invisibile, la palla di ferro si abbattè senza pietà sulla testa di Marco Mirandi, che era appena entrato nella casa per far visita al vecchio Andrea Orsi.
 Quel giorno caddero altri colpi, causando qualche altro ferito e qualche altro crollo minore, ma quell'ottavo colpo, sparato in rimando ai sette colpi del Savelli, venne visto come un segno, non solo dalla popolazione, ma anche dagli Orsi e dallo stesso Monsignore.
 Gli Orsi erano rimasti sconvolti nel vedere parte della propria casa rasa al suolo e nel pensare che il loro anziano padre non era morto per puro miracolo. L'ottantacinquenne non era parso impaurito da quello che era accaduto quel giorno, ma si espresse molto duramente coi figli, spiegando loro che quello era un segno, proprio come andavano ripetendo i cittadini più influenzabili di Forlì.
 Savelli la pensava esattamente come il vecchio Orsi.
 Se l'unico morto c'era stato proprio in quell'ultimo attacco, fatto alla casa degli Orsi, non era forse un chiaro segno del fatto che gli Orsi erano nel torto?
 Quella sera stessa Savelli scrisse di nuovo al papa, senza più usare giri di parole o perifrasi eleganti. Disse chiaramente che servivano soldati e artiglieria, cavalieri e munizioni.
 Quella donna, che aveva bombardato la chiesa di San Mercuriale senza venir incenerita sul posto da Dio, doveva essere distrutta e così la sua maledetta rocca.

   
 
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