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Autore: Adeia Di Elferas    08/04/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Porta Schiavonia, tenuta fino a quel momento da alcuni soldati fedeli ai Riario, si era arresa a Savelli, sotto la minaccia armata dei suoi soldati.
 Allo stesso modo, temendo di non poter far fronte all'esercito romano che – si diceva – stava per arrivare, anche la rocca di Forlimpopoli si era consegnata spontaneamente a Savelli.
 In segno di buona volontà, il Consiglio degli Otto convinse Savelli a ottemperare a una delle richieste della Contessa.
 In fondo, aveva detto Maldenti, parlando anche a nome dei suoi soci, cadute Porta Schiavonia e la rocca di Forlimpopoli, potevano anche permettersi di liberare due prigionieri su dieci. Quando avesse visto i soldati romani profilarsi all'orizzonte, anche la Contessa avrebbe capito che i suoi giorni erano finiti e avrebbe finalmente firmato la resa. Meglio mostrarsi magnanimi, coi parenti del Duca di Milano, Ludovico Sforza.
 “Reggente del Duca di Milano.” aveva fatto notare Savelli che, però, cominciava a pensarla come Maldenti.
 “Fa poca differenza. A Milano è lui che prende le decisioni e sarà lui a vendicarsi, nel caso lo ritenesse opportuno.” precisò Maldenti e così venne subito ordinata la scarcerazione di Lucrezia e Bianca Landriani.
 “Andranno a Cesena, per dimostrare di aver rispettato gli accordi. Lì verrà loro dato il salvacondotto per Milano.” concesse Savelli, con un ampio gesto della mano.
 
 “Non fare così...” stava dicendo Lucrezia, tenendo la figlia per le braccia.
 “No, non posso lasciarli qui da soli...!” recriminò Bianca, scossa da un leggero pianto.
 “Non sono soli, ci sono le balie con loro – tentò di farla ragionare Lucrezia – non sono soli... Hai sentito quello che ci ha detto Caterina, prima che ci separassimo, no?”
 “Caterina ha detto anche troppo!” esclamò Bianca, scuotendo il capo: “Non lascio sei bambini impauriti in una cella solo per salvarmi la pelle!”
 Lucrezia la fissò un momento. Quella sua giovanissima figlia sapeva essere ostinata e coraggiosa come la sorella maggiore.
 Anche se Caterina aveva detto chiaramente a Lucrezia di accettare ogni offerta di libertà, a costo di lasciare indietro gli altri, Lucrezia doveva ammettere che anche lei era rimasta interdetta, quando un messo di Savelli aveva comunicato loro la decisione di liberarle.
 Poteva lasciare i suoi nipotini in mano a quelle bestie?
 Doveva. Caterina era stata chiara. Se le aveva detto di accettare ogni proposta che le avrebbe permesso di andarsene sana e salva da Forlì, significava che era la cosa migliore da fare.
 Ma con che cuore?
 “Ti prego... Vieni a Cesena con me.” fece Lucrezia, come ultimo tentativo, ma Bianca stava ancora scuotendo il capo.
 “Non posso, non me lo perdonerei mai.” disse piano la giovane, trattenendo a stento un singhiozzo.
 In quel momento l'inviato di Savelli entrò nella stanza in cui le aveva lasciate poco prima. Gli era parso strano che le due prigioniere avessero chiesto del tempo per parlare da sole, ma erano donne, strane per natura...
 Tuttavia mai avrebbe pensato di sentire la prigioniera più giovane – che era davvero poco più di una bambina – dire: “Mia madre accetta la vostra proposta, ma io resterò in cella.”
 “Come preferite.” disse l'uomo di Savelli, a cui era stata paventato un simile scenario e così agguantò Lucrezia e lasciò Bianca ai carcerieri che attendevano alle sue spalle.
 “Stai sbagliando, bambina mia!” disse Lucrezia, lanciando un ultimo sguardo alla figlia, mentre la portavano via.
 Bianca avrebbe voluto congedarsi in modo diverso da sua madre, ma, appena aprì bocca per gridarle qualcosa di rimando, un addio o una dichiarazione d'affetto, il carceriere Serughi le diede un colpo in mezzo alle scapole ringhiando: “Su! Un piede avanti all'altro, muoviti!” e così la ragazzina non ebbe il tempo di emettere altro se non un gemito strozzato.

 Il 29 aprile, l'esercito formato dalle truppe sforzesche e da quelle bolognesi, un totale di dodicimila soldati regolari seguiti da quasi altrettanti sgherri e saccomanni, arrivarono a Cosina, dove allestirono il campo.
 Alla guida c'erano Giovanni Bentivoglio, Giovan Francesco Sanseverino, Giampietro Bergamino e Rodolfo Gonzaga. Ciascuno di loro era stato istruito a dovere da Ludovico Sforza circa quello che avrebbero dovuto fare arrivati in prossimità di Forlì.
 Per prima cosa avrebbero dovuto parlamentare con Savelli o chi per lui e accertarsi che Caterina Sforza era ancora viva e in salute. Poi, avrebbero dovuto fare una prima proposta amichevole, chiedendo ai ribelli una resa incondizionata. In caso di fallita trattativa, allora avrebbero minacciato il sacco della città.
 Per ogni azione militare, comunque, aveva precisato lo Sforza, avrebbero dovuto interpellare Caterina e nessun altro. Avrebbero di certo trovato un modo per comunicare con lei o con un suo portavoce e sarebbe stata la Contessa a decidere come muoversi per salvare la città dalle grinfie della Chiesa.
 “Io dico di mandare Giovanni Landriani.” propose Bergamino, quando il consiglio di guerra si riunì: “Si tratta di un lontano parente del marito di Lucrezia Landriani. Se dovesse riuscire a parlare con la Contessa, lei si fiderebbe.”
 “Per me va bene.” annuì Giovanni Bentivoglio, un po' teso all'idea di mandare quell'uomo in Forlì come loro rappresentante.
 Giovanni Landriani era un soldato di indubbio valore, ma in quanto arte oratoria non era mai stato un talento naturale.
 “Se siamo tutti d'accordo...” fece piano Rodolfo Gonzaga, sollevato dalla brevità di quell'incontro: “Convochiamo il Landriani e istruiamolo sul da farsi.”

 Giovanni Landriani arrivò nel cuore di Forlì che erano quasi le nove di sera. Si era presentato come semplice ambasciatore, ma il suo accento milanese aveva preoccupato molto quelli che lo avevano accolto alle porte della città.
 Venne condotto nella sala del Consiglio degli Otto, illuminata da parecchie candele e da un paio di grosse torce e fu pregato di attendere l'arrivo dei Consiglieri e di Monsignor Savelli.
 Giovanni sospirava di continuo, guardandosi attorno un po' spaesato. Quel palazzo era molto bello e doveva essere stato sfarzoso, tuttavia quella sera sembrava una nave senza nocchiero. Senza contare che – a Landriani non era sfuggito un dettaglio tanto macabro – le scale che aveva percorso erano tutte macchiate di sangue rappreso, ben visibile anche alla fioca luce della sera.
 Prima di entrare nel palazzo era riuscito a farsi dire da alcuni forlivesi i dettagli di quei giorni concitati ed era stato rassicurato sulla salute della Contessa che, a detta di tutti, stava 'd'un gran bene' alla rocca di Ravaldino.
 “Per conto di chi siete qui?” chiese Savelli, con una certa sufficienza, appena venne aperta l'udienza.
 Nessuno faceva più caso agli orari insoliti, perchè in un momento di simile agitazione non si poteva andare tanto per il sottile, tuttavia Monsignor Savelli era molto infastidito dall'ora tarda di quella visita.
 “Sono qui per conto del Duca di Milano.” disse lentamente Giovanni Landriani: “Sono qui per denunciare il barbaro omicidio del Conte Girolamo Riario, fatto a pezzi nella sua casa, sotto gli occhi dei suoi figli e di sua moglie, gettato dalla finestra come un delinquente comune e vilipeso dalla folla. Sono qui per ricordare come Sisto IV avesse dato Forlì a suo nipote affinché governasse fino alla fine naturale della sua vita e affinché poi Forlì passasse al suo primogenito Ottaviano Riario e così via fino alla fine della sua stirpe.”
 Gli Otto ascoltavano in silenzio, assieme a Ludovico e Checco Orsi, sempre presenti a ogni riunione importante, senza capire a cosa servisse davvero quella mera ripresa dei fatti avvenuti nei giorni addietro.
 Solo quando Landriani alzò il mento per fissare Savelli negli occhi qualcuno di loro comprese appieno il motivo di quella visita: “Vi diamo un'ultima possibilità per arrendervi. Fatelo ora e non faremo del male a nessuno.”
 “Non mi fate paura.” disse Savelli, irritato: “E poi vorrei vedere con che mezzi ci fareste del male. Siete solo una manciata di ambasciatori contro l'esercito che sta per arrivare da Roma.”
 “Dunque non accettate la mia proposta?” chiese Landriani, a voce bassissima, come se la cosa gli dispiacesse davvero.
 “Sentite bene!” fece Savelli, alzandosi dal suo scranno: “I Riario sono decaduti perchè non pagavano il dovuto allo Stato della Chiesa, che si è visto costretto a riprendere in mano la città per consegnarla a un nuovo signore. Il Santo Padre ha affidato a me e agli Otto il compito di riportare la pace in Forlì e così faremo. Quindi non ci interessano le vostre minacce. Abbiamo dalla nostra il papa!”
 “Il Conte Riario ha avuto quel che meritava!” sbottò Ludovico Orsi, facendo voltare di scatto verso di lui tutti i presenti: “Abbiamo liberato Forlì da un tiranno! Voi ora venite qui a dirci che siamo noi nel torto, ma non sapete quel che dite! Un esercito sta arrivando da Roma e spazzerà via la vedova del tiranno e tutti i suoi figli!”
 “In tal caso, il Duca di Milano propone che Forlì venga per il momento gestita da due incaricati, uno di Milano e uno di Roma.” disse piano Landriani, sapendo che anche quella ipotesi sarebbe stata scartata.
 Ormai i toni erano troppo accesi per lasciare spazio a intenzioni pacifiche.
 “Mai! Forlì è dello Stato della Chiesa! Milano non c'entra nulla!” inveì Savelli, alzando con stizza un braccio.
 “Bene.” concluse allora Landriani, mentre gli Otto e gli Orsi applaudivano alle parole del Monsignore: “Questa è la vostra decisione. Io ho fatto il possibile. Ve ne pentirete amaramente.”
 Un breve moto di sdegno smosse il Consiglio, ma nessuno ebbe l'iniziativa di fermare il milanese o anche solo di rispondergli a tono.
 Giovanni Landriani lasciò la sala in autonomia, raggiungendo in un lampo la piazza, proprio in tempo per vedere alcune persone che arrivavano di corsa dalla direzione di Porta Cotogni.
 “La Chiesa! La Chiesa!” esultavano questi, quasi tutti soldati di Cesena, a quanto pareva dalle loro armature: “La Chiesa! Arrivano i nostri!”
 Giovanni li guardò sfilare accanto a sé, mentre raggiungevano il palazzo. Era già arrivato, il tanto atteso esercito papale? Peggio per i romani. Avrebbero solo subito una sconfitta in più.

 “Pennacchi, mio signore! La cavalleria!” esclamò il ragazzo che aveva corso più in fretta di tutti per riferire a Savelli quello che aveva visto.
 In lontananza, aveva spiegato, si poteva intravedere un drappello di cavalieri, una cinquantina, probabilmente, con indosso le armature tipiche dei soldati pontifici.
 “Bene, bene!” esclamò Savelli, baciando il crocifisso che portava al collo: “Visto? Il Santo Padre non ci avrebbe mai abbandonati!”
 Subito mandò alcuni soldati a Porta Cotogni per accogliere quella che doveva essere l'avanguardia di un nutrito esercito.
 Tuttavia, quando questi soldati tornarono, ebbero pessime notizie da dare al loro signore.
 “Sì, si tratta di soldati che arrivano da Roma – spiegò uno – ma si sono diretti verso Ravaldino, e sono stati fatti entrare nella rocca...”
 Savelli, deciso a negare perfino l'evidenza, esclamò: “Ah! Geniale! Si sono intrufolati nella rocca per costringere la tigre ad arrendersi!”
 Il soldato scosse il capo: “Quei cinquanta cavalieri portavano lo stemma degli Sforza.”
 Savelli restò senza parole, la bocca appena aperta e gli occhi sgranati. Non poteva credere a quelle parole...
 “Chi li ha mandati?!” chiese Checco Orsi, fuori di sé.
 “Chi può dirlo...” fece spallucce il soldato.
 “Gesummaria, gesummaria...!” cominciò a farfugliare Savelli, stringendosi il crocifisso al petto.
 Proprio mentre gli Otto, gli Orsi e Savelli cercavano di digerire quella novità, un altro soldato entrò nella sala, facendosi largo ed esclamando: “Le nostre spie hanno appena avvistato oltre diecimila soldati milanesi accampati a Cosina!”
 “Gesummaria!” riprese a dire Savelli, come in un litania: “Gesummaria...!”

 “Chi vi manda?” chiese Caterina, rivolgendosi al soldato di testa dei cinquanta cavalieri appena entrati nella rocca.
 Non era stato così semplice far calare il ponte al momento giusto, sfruttare la rapidità dei cavalli ed evitare che qualche soldato di Savelli riuscisse a entrare di nascosto, ma ce l'avevano fatta.
 Tommaso Feo, in realtà, quando aveva visto i cavalieri in lontananza, aveva pregato Caterina di non lasciarli entrare, ma lei era stata irremovibile.
“Lo stemma degli Sforza non può essere sbandierato senza motivo – aveva detto – dunque dobbiamo fidarci.”
 “Siamo qui per conto del Cardinale Raffaele Sansoni Riario, che si professa vostro fedelissimo alleato e vostro più sincero parente.” disse il soldato, con un profondo inchino.
 Caterina sorrise, decisamente sorpresa di sentire quel nome. Per qualche momento era stata certa che quegli uomini le fossero stati mandati da suo zio Ascanio Sforza.
 “Benvenuti a Ravaldino.” disse, dando una pacca sulla spalla a quello che aveva fatto le presentazioni: “Per il momento riposatevi dal viaggio, domani mattina vedremo di far controllare bene i vostri cavalli e vi spiegheremo ogni cosa.”
 “Come desiderate mia signora.” fece il cavaliere, passando una mano sul collo della sua cavalcatura: “Ah, una sola cosa...” soggiunse: “Poco prima di arrivare in città ci è giunta voce che i soldati di vostro zio Ludovico Sforza sono accampati a Cosina e minacciano il sacco di Forlì.”
 Caterina, poche ore prima, aveva anche saputo per vie traverse che sua madre era salva e stava viaggiando verso Cesena. Non era stata contenta di sapere che invece sua sorella Bianca aveva rifiutato l'offerta perchè per lei ogni ostaggio in meno era un pensiero in meno. Tuttavia, sapere salva almeno sua madre era già un gran passo avanti.
 Quindi, quando sentì quella novità, prese quell'ennesima buona notizia come un segno.
 La guerra sarebbe stata vinta.
 L'unica cosa che le restava da fare era assicurarsi che ai suoi figli non venisse fatto nulla di male.
 Per assurdo, erano più in pericolo ora che la sua posizione era migliorata, che non prima, quando rappresentavano una preziosa merce di scambio.

   
 
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