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Autore: were_all_dead_now    12/04/2016    9 recensioni
Quando vai a scuola, nessuno ti insegna a vivere.
Io avrei saputo risolvere un logaritmo in pochi secondi, ma avevo paura di chiudere gli occhi e restare da solo con me stesso.
[...]
Mi chiamo Frank. Questa è la mia storia.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera e buon martedì. 
Non so veramente come o come mai, ma in meno di un mese sono riuscita a scrivere un nuovo capitolo. Quindi adesso ve lo mostro.
Mi piace abbastanza, devo dire la verità. E mi è piaciuto anche scriverlo (soprattutto la parte con Mikey).
Vorrei ringraziare le tante persone che hanno recensito in queste ultime settimane. Ho avuto modo di parlare con qualcuno che ha appena iniziato a leggere e con altri che hanno seguito la storia sin da subito. Ma, indipendentemente da ciò, è sempre bellissimo leggere i vostri pareri, critiche, opinioni, correzioni, parole. 
Quindi, come sempre, questo capitolo è per tutti voi.

Vorrei solo precisare che, al contrario di questo, il prossimo aggiornamento dovrebbe contenere più "azione" e forse meno dialoghi.
Ma non so ancora. 

La canzone è dei Placebo ed è bellissima. Quindi, se vi va...


 
CAPITOLO DICIASSETTESIMO 

Every time I rise I see you falling.
Can you find me space inside your bleeding heart?
( Passive Aggressive )



 
Tiravamo i sassi nel fiume.
Ecco cosa facevamo io e Mikey, quel pomeriggio.
 
E la sera prima, invece, io avevo pianto.
E l’avevo fatto mentre tremavo e provavo a parlare.
 
Ma capii che è davvero difficile parlare mentre tutto ciò che desideri fare è piangere.
Piangere così forte da strapparti di dosso tutti i pezzettini di dolore.
A uno a uno, con foga.
 
Mentre Gerard mi stringeva, io piangevo.
Lui no.
Era così dannatamente fatto di cristallo.
 
Così, mentre lui non poteva vedermi, scrissi velocemente su un pezzettino di carta.
Lo lasciai sul mobile all’ingresso in casa sua. Quello in legno scuro.
A destra delle chiavi ma a sinistra del pacchetto di sigarette.
 
E corsi via, senza darmi il tempo di provare a immaginare la sua espressione mentre avrebbe letto le mie parole.
 
Perché quando corri non pensi a piangere. 
Pensi solo a correre.
Sempre più veloce.
 
-
 
Quel pomeriggio, tra le pieghe dell’acqua, c’era un colore indefinibile.
E pensai che un tramonto non si può limitare al cielo, che riguarda tutto ciò che viene investito dalla sua luce.
A una certa ora del giorno, tutto è tramonto.
Anche noi stessi.
 
Quando Mikey iniziò a parlare, un sasso scivolava ancora a intermittenza sul fiume.
 
«Sai Frank… io non sono mai stato troppo bravo con le parole. Quando ero piccolo-- quando eravamo piccoli, Gerard era in grado di portare avanti un discorso sensato senza alcuna difficoltà. E ricordo che la gente lo guardava, lo ascoltava, ed era come se per qualche minuto al mondo non esistesse nient’altro. Spesso lo guardavo anch’io e pensavo. Ci si ritrova a pensare molto quando si smette di parlare… e più lo guardavo, più mi convincevo del fatto che un giorno sarebbe diventato una grande persona. Non necessariamente qualcuno di famoso o uno di quelli che fanno tanti soldi. Semplicemente una grande persona.» - poi mi guardò - «E lo sai perché? Perché in quel secondo, mentre parlava, lui non era realmente lì. E lo si percepiva. Gerard non è mai stato realmente presente, in qualsiasi luogo si trovasse. E questa cosa traspariva da ogni sua parola, ogni sguardo.»
 
Una pausa.
 
«Poi, quando si è ammalato- è lì che ho iniziato a temere sul serio per la sua vita. Perché sapevo quanto dolore si portasse dentro, e quindi mi chiedevo, guardandolo, in quali luoghi si trovasse e dove potesse portarlo la sua mente. E avevo paura della risposta.»
 
Mikey sospirò pesantemente. Poi, però, ripartì leggero.
 
«Ho passato ore su ore a controllarlo. Lui non lo sapeva. Anche se credo che, col tempo, abbia iniziato a capirlo da sé. Stavo con lui per intere giornate e lo osservavo. Però era diverso rispetto a quando eravamo più piccoli. Non lo facevo più per ammirazione ma per terrore.
Aspettavo solo di vederlo crollare sotto il mio sguardo, da un momento all’altro. E invece, al contrario, era come se lui si desse un contegno - si trattenesse - a causa della mia presenza.
Quello è stato il periodo in cui la mia famiglia iniziò di nuovo a sembrare una vera famiglia.
Ma di questo non voglio parlartene perché non mi sembra giusto. Deve essere Gerard a farlo…»
 
Durante la sua seconda pausa capii che stava per dirmi qualcosa di inaspettato.
 
«E ora arrivo al motivo per cui ti ho detto tutto ciò: tu.»
 
Rimasi senza fiato.
 
«Quando ho capito che tipo di.. rapporto c’è tra te e Gee, ho tirato un sospiro di sollievo. Lo so che tu-- voi avevate paura di dirmelo. Ma va bene. Anzi, va più che bene, Frank. A volte vorrei poterti trascinare con me, indietro nel tempo, e farti conoscere il Gerard di qualche anno fa» - scosse piano la testa - «cazzo.. anche solo di qualche mese fa.»
 
Prese una mia mano tra le sue.
 
«Frank, la verità è che di te mi fido. Non so nemmeno perché, però mi sono fidato sin dal primo secondo in cui ho incrociato il tuo sguardo. Quindi oggi ti sto parlando da fratello. Non da amico, non da Mikey… solo da fratello. Non ti chiedo di essere impeccabile, né tantomeno di andare contro te stesso.. ti chiedo solo di prenderti cura di Gerard. Finché potrai, finché vorrai, per favore, prenditi cura di lui. Non farlo soffrire più del necessario e soprattutto… osservalo. Guardalo, di tanto in tanto, e accertati che si ricordi ancora di respirare e di essere vivo.
Io non sto andando via, però mi sto facendo da parte. Perché credo sia arrivato il momento, per tutti noi, di tornare ad aspirare a qualcosa di migliore.»
 
E io- io avrei avuto così tanto da dire che non dissi nulla.
Semplicemente lo abbracciai.
 
- -
 
E corsi anche tornando a casa.
Con l’aria contro la faccia, tra i capelli, nei polmoni.
Tantissima aria nei polmoni.
 
Con la bici che slittava sulle strade di città come sul ghiaccio.
Forse, realizzai, a volte non si ha proprio tempo per andare piano, per non correre.
E chiusi anche gli occhi, per un brevissimo istante. Feci finta che tutto il resto fosse un film e scelsi la mia colonna sonora.
Iniziai dall’inizio della mia storia.
 
I Misfits, la panchina;
Gerard.
 
E Ray, con la sua chitarra e i Ramones. Ripensai a Mark.
 
Poi Mikey. Oh, Mikey.
Mikey e Bowie.
I primi accordi di chittara di Space Oddity.
Mi sentii tanto perso nello spazio quanto Major Tom.
 
E Gerard era anche in quel ricordo.
Era in tutti i cazzo di ricordi.
Anche in quelli in cui non doveva esserci.
 
E pensai a me stesso. Per una volta.
A come mi sarei aggrappato a tutte quelle immagini, un giorno.
A come le avrei viste sbiadire davanti ai miei occhi.
 
E ripensai al biglietto per Gerard.
 
Poi arrivai a casa.
 
-
 
C’era mia madre ad aspettarmi e, più mi avvicinavo, più vedevo scemare dal suo sguardo la densità della sua preoccupazione.
Poi, all’improvviso, mi corse in contro e mi strinse forte a sé.
 
«Frank… Frank… ma dove sei stato? Dio mio, Frank..» - disse, tra un bacio sui capelli e un altro.
 
«Mamma» - mi allontanai da lei di qualche centimetro - «Mamma, credi che papà ce l’avesse con me?»
 
-
 
E lo immaginai, Gerard. In quello stesso momento, in casa sua.
Mi chiesi se gli tremassero le mani mentre quel pezzo di carta stava semplicemente adagiato sul suo palmo.
Mi chiesi se gli tremasse anche lo sguardo, con le lacrime a bagnare l’orlo dei suoi occhi.
Il colore incredibile delle sue iridi sommerso da onde che si muovevano al ritmo delle mie righe.
Delle mie parole.
 
E mi chiesi se quelle parole gli avrebbero fatto male.
Perché poi, alla fine, io non lo sapevo affatto come ci si prende cura di qualcuno.
Sapevo solo costruire per distruggere, amare per poi lasciare andare.
 
La mia vita gocciolava via dal mio corpo. Ed era rumorosa. Rumorosissima.
Come quando il troppo silenzio inizia a sibilare.
 
E io ero irrimediabilmente ubriaco di dolore. Ce n’era così tanto, quella sera, da sentire il mio cuore e il mio petto trapassati da decine e decine di minuscoli aghi.
Come se dentro di me tutto continuasse a correre, mentre io affondavo come piombo sui cuscini del divano.
 
Come se ogni organo e grammo di sangue e tessuto che mi appartenesse stesse provando a fuggire via da me. Perché nessuno - niente avrebbe desiderato starmi accanto in quel momento.
Nemmeno io stesso.
 

 
«Amore, no! Lui-- come avrebbe potuto avercela con te? Eri la cosa più bella che gli fosse mai capitata, ti stringeva come se fossi di un valore incalcolabile»
 
«E allora perché, mamma? Perché…»
 
Mi accorsi di stare piangendo per la seconda volta in così poco tempo.
 
«Io non lo so perché, Frankie..»
 
«Cazzate»
 
«Io non--» - e capii che aveva bisogno di raccogliere tutte le sue forze, per quella frase - «Non mi ha dato tempo per chiederglielo… non ho avuto modo di chiederglielo.»
 
Poi riprese.
 
«E mi faccio questa stessa domanda ogni giorno della mia vita. Credi che io non pensi, non ricordi? Non è così, Frank. Ma lui ci amava, e credo che questa sia l’unica risposta che valga davvero qualcosa. Tutto il resto… le storie e le teorie che potremmo continuare a costruire, sono basate su stronzate. Perché la verità, quella che conta, è ciò che papà ci ha dimostrato fino all’ultimo secondo in cui ha respirato. Ed è l’amore che ci muove, nel bene o nel male. È l’amore che l’ha mosso.»
 
Ritrovammo la sua macchina due giorni dopo la sua scomparsa.
Ma non fu un incidente.
E questo lo sapevamo io, mia madre, e credo anche tutti gli altri.
 
Anche se mi rendo conto che a volte è più semplice dare a noi stessi delle risposte che facciano meno male.
 
Però il perché te lo chiedi.
Ti guardi dentro e non puoi fare a meno di pensare che possa essere colpa tua. Anche colpa tua.
Ma comunque colpa tua.
 
“Buona giornata oggi a scuola, tesoro.”
 
Questo è l’ultimo ricordo che ho della sua voce.
Quella fu l’ultima buona giornata di scuola che vissi per un po’ ti tempo.
 
Quando tornai a casa lui non c’era più. Lo cercammo per ore interminabili.
Credo che mamma sospettasse. Sapesse.
 
Ma, comunque, piangemmo tutti; indistintamente.
 
Un incidente è una cosa che accade per sbaglio. Ecco perché quello non fu un incidente.
E mi piace pensare che non fu nemmeno uno sbaglio.
 
Dopo il suicidio di papà le cose andarono a rilento, ma andarono meglio.
Ricevemmo degli aiuti finanziari; ma la notte, nel buio e nel silenzio, non si riusciva più a vivere.
Non si riusciva a non pensare a cosa fosse stato necessario sacrificare per poter star bene.
E comunque non si stava bene.
 
Si stava solo con del cibo in più e una sedia in meno.
Un paio di scarpe nuovo contro il lato destro del letto di mamma vuoto.
 
E tutto, tutto, faceva dannatamente male.
 
-
 
Erano le 4 e 18 del mattino quando ricevetti quel messaggio.
Ma io non stavo dormendo, pensavo solo al mio biglietto per Gerard.
E lui, evidentemente, pensava a me.
 
“Se hai intenzione di andare via, mi piacerebbe almeno poterti dire addio. Vorrei vederti, Frank. E vorrei stringerti e tenere i tuoi capelli tra le mie dita mentre ti bacio, ma non so se questo tu lo vuoi ancora. Però permettimi almeno di parlarti. Decidi tu quando e dove. Ti voglio bene.”
 
-
 
In una casa, dell’inchiostro stava su carta.
In un’altra, un’anima stava troppo stretta in un corpo solo. In un letto semivuoto.
 
E Gerard. Chissà dove fosse, chissà come stesse.
 
-
 
Ore 3.37.
Notte ma mattina.
Un cuore trema, sussulta, si ferma.
E il dolore… il dolore aveva una misura perfetta per poter star bene tra un mazzo di chiavi e un pacchetto di sigarette.
Ma non tra le dita di una mano.
 

 
 Mi dispiace.
Gee, mi dispiace per prima.
È solo che a volte mi fa paura immaginare che un giorno passerò da casa tua senza trovarti.
Che osserverò il tuo palazzo e le mie dita tremeranno al pensiero di premere quel pulsantino di metallo. E poi a colpirmi ci sarà la consapevolezza di non poter sentire la tua voce provenire dall’altro lato del citofono.
Allora, forse, lo sfiorerò soltanto; e sarà tutta un’illusione.
Un’enorme presa per il culo.
 
E ho anche paura di essere assalito e sommerso dai ricordi.
A volte mi chiedo dove mi troverò tra qualche mese.
Cosa farò il sabato pomeriggio e come passerò il giorno del tuo compleanno quando non potrò più festeggiarlo con te.
 
Ma in realtà, più di tutto ciò, temo il momento in cui inizierò a dimenticarti.
Già lo immagino.
 
Sarà prima il tuo tocco, poi la tua voce, il colore del tuo maglione preferito e i dettagli da cui capisco che, da un momento all’altro, sorriderai.
 
E io ho una buona memoria fotografica, ma le tue mani… mi chiedo se dimenticherò anche quelle.
Le tue mani e i tuoi occhi.
Le mille parole dentro il tuo sguardo.
 
Perché se dimentico allora è tutto finito.
Perché tu non ci sarai più a ricordarmi ognuna di queste cose.
 
Quindi, se scivoli via da me, io non potrò più salvarti.
Non potrò farci più nulla.
 
È così che si perdono le persone, Gerard.
E io l’ho già vissuto una volta.
 
Ho solo tanta paura che tu vada via.
 
P.S. : Scusami se oggi sono stato io a farlo, ma sento ancora i tuoi polpastrelli sulla mia pelle ed è così che voglio allontanarmi da te. Ogni giorno, per il resto dei giorni.
 
- Con dolore e affetto.
Frank.
 
 
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Spero che la lettura sia stata gradevole e spero di poter sentire i vostri commenti ancora una volta.
Un abbraccio. 

-C.




 
  
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