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Autore: ElyJez    15/04/2016    4 recensioni
Era un posto strano quello, dotato di una perfezione anormale, di un ciclicità tranquilla che non poteva essere interrotta, eppure nonostante ciò, qualcosa era successo. Era morta una donna e nessuno ne parlava. Sembrava che il mio fantasma fosse stato ingoiato dall’asfalto pulito o dalla luce fioca dei lampioni ed anch’io, mentre abbandonavo quelle stradicciole debolmente illuminate, sentivo di sparire poco a poco.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Quinto Capitolo
Il fantasma

 
La mattinata non fu poi così impegnativa, a parte ripulire le tracce del mio scontro, rassettare in modo superficiale la casa, ed aiutare il nonno ad alzarsi dal letto e vestirsi, non c’era stato molto movimento, avrei potuto persino guardare i cartoni animati in tv. Dico avrei, perché giustamente le cose non andarono così.
<< Rebekah, dovresti fare la spesa>>
Dovresti, comunemente analizzato come: voce del verbo dovere, modo condizionale, tempo presente, seconda persona singolare. Come ho appena detto, questo è come viene comunemente analizzato, ma c’era qualcosa in Victor Shay che lo faceva sembrare una persona comune?
Il condizionale per il vecchio aveva la stessa valenza- o forse anche di più perché utilizzato in maniera cordiale- del caro e vecchio imperativo.
Quindi quel “Rebekah, dovresti fare la spesa”, doveva essere inteso più o meno così:” Rebekah, giovane ventunenne con lavoro saltuario, va a procacciare del cibo per un anziano e rispettabile membro della comunità, nonché tuo parente più prossimo, e non fare ritorno a casa finché il carrello della spesa non sarà pieno!”. Sì, credo che questo fosse esattamente il significato traslato di quelle cinque parole.
Così, con mia grande gioia, salita sulla cinquecento di Vic, mi recai al supermercato più vicino, perdendo venti minuti davanti al banco dei surgelati incerta su cosa avrei dovuto comprare, optando infine per un pacco di pollo piccante.
Altri venti minuti li passai in fila, aspettando che il cassiere accrescesse la sua autostima parlando con una bionda ossigenata che aveva intrapreso una conversazione stimolante sulle palestre e sui bicipiti scolpiti dell’uomo.
Avevo come la sensazione che la prossima volta sarei entrata al supermercato con una pistola, non con il fine di rapinarlo, parliamoci chiaro, ma per saltare la coda, o almeno per sparare alle gambe del primo che avesse iniziato a chiacchierare anche solo per chiedere lo scontrino.
Dopo aver caricato le buste in macchina, mi godei per la prima volta la vista di Raven’s Hill. La cittadina, che contava all’incirca cinquemila abitanti, era piuttosto ordinaria.
Pulita, semplice ed oppressa da lunghe nuvole plumbee, la vita, all’interno di quel paesino, sembrava svolgersi con un entusiasmo sbiadito dalla bile.
Le donne tornavano a casa con passi lenti e pesanti, i fiori sui davanzali piegavano la testa gravati dal maltempo, le cameriere portavano le ordinazioni a clienti pigri ed indolenti.
Una ragazza completamente nuda dal ventre squarciato attraversava la strada di fronte a me.
Inchiodai di colpo, istintivamente, salvo poi maledirmi per ciò che avevo appena fatto.
Le persone normali non fermano la macchina in mezzo alla strada perché hanno visto uno spirito.
Socchiusi con forza gli occhi sperando che non se ne fosse accorta e che continuasse a vagare nel nulla eterno dell’Altrove. Cercai di ripartire, ma lei si girò di scatto nella mia direzione, fissandomi con i suoi occhi bianchi, privi di qualsiasi espressione se non della consapevolezza di ciò che ero in grado di fare.
Chiusi completamente le palpebre respirando profondamente. Forse se ne va. Forse se ne va. Forse se ne va. Forse se ne va. Forse se ne va.
Aprii lentamente gli occhi. Era possibile che le mie preghiere fossero state ascoltate? Lo spirito era sparito?
Una mano cinerea, fredda, rigida, mi afferrò il braccio. Se non mi giro sparisce.
Il suo respiro fetido aumentava. Se non mi giro sparisce.
La sua mano, la mano di un cadavere fresco in balia del rigor mortis, era ancora lì, sul mio avambraccio, stretta così forte da lasciarmi dei lividi.
<< Credevo di piacergli >>
Mormorò con voce tremante mentre qualcosa le fuoriusciva dalla bocca impedendole di dire altro.
Mi girai verso di lei. Non potevo fare più nulla, mi aveva vista, ed era inutile continuare a pregare.
Ora sapevo cosa usciva dalla sua bocca: era sangue, era vomito, ed era sempre sangue nero e lento quello che le colava dai seni martoriati e dallo stomaco sventrato.
<< Vattene via>>
Scandii guardandola fissa negli occhi privi di espressione.
<< Perché mi ha fatto questo?>>
Urlò afferrandomi convulsamente il braccio, stringendolo fino a lacerare con le unghie la carne arrossata, vomitandomi addosso ciò che una volta era nel fegato e negli altri organi vitali.
<< Vattene via! Vattene! Lasciami in pace. Vattene! >>
Gridai così forte che i passanti si voltarono a fissarmi nonostante tutti i finestrini fossero alzati. Con l’urlo di un’aquila ferita, tanto acuto da perforarmi i timpani, la donna si scostò da me, quasi come se il contatto con la mia pelle l’avesse ustionata.
Si ripiegò su se stessa, sempre di più, stringendo il petto sulle ginocchia ossute e bianche. Le mani segnate da profonde vene, graffiarono le cosce lasciando lunghi segni neri e profondi.
Le vertebre della colonna sembravano bucarle la pelle, spingere verso l’esterno in una lotta di supremazia, ed i capelli lucidi e neri le battevano addosso cercando di avvolgerla e portarla via.
Afferrai la busta della spesa dal sedile posteriore, sfilai la chiave dal cruscotto, e nonostante lei fosse sparita senza lasciare traccia, sbattei la portiera dell’auto, correndo verso casa sotto lo sguardo sbigottito della gente.
Corsi, corsi contro il vento d’ottobre, contro lo sguardo sbigottito dei passanti, corsi contro il mondo.
Il cuore batteva forte, veloce come le ali di un colibrì, desideroso di essere sputato fuori dalla gola mosso da un impeto di pietà e amor proprio. I muscoli delle gambe si appesantivano sempre di più ad ogni falcata, intorpidendosi, contraendosi dolorosamente.
L’aria fredda mi spiaccicava in faccia i capelli bianchi con frustrate fredde e lisce.
Salii i gradini del porticato così velocemente che per poco non inciampai sui miei stessi piedi e, solo quando infine aprii la porta di casa, chiudendomela alle spalle riuscii a respirare.
Non sapevo neanch’io per quanto avessi corso. Due, tre chilometri? Non era importante, l’unica cosa che davo per scontato era di dover chiamare un carroattrezzi per riavere la macchina perché io non sarei uscita di casa neanche per tutto l’oro del mondo. Sperando di non essermi persa niente per strada, andai in cucina dove il nonno se ne stava a guardare il telegiornale.
<< Dopo chiamerò il carroattrezzi>>
Dissi facendo la mia entrata in cucina cercando di riacquisire un minimo di calma, e quindi di concentrarmi su qualcos’altro che non fosse il mio stato d’animo attuale.
Con un sospiro mi avvicinai al lavabo. Avevo bisogno di sciacquare via i segni che lo spirito mi aveva lasciato addosso, come se un po’ d’acqua corrente potesse servire a qualcosa. Chiusi gli occhi.
<< Come mai il carroattrezzi?>>
Chiese senza dar cenno di preoccupazione, gli occhi fissi sul televisore.
Con uno sbuffo, afferrai l’asciugamano di spugna poggiato sul tavolo, andando a recuperare poi una padella in cui poter riscaldare le alette precotte.
<< Non riuscivo a far ripartire la macchina>>
Mentii andando alla disperata ricerca dell’olio che riuscii a scovare nell’angolo della cucina, sepolto dietro scatolette di fagioli e ceci.
<< Che strano, ieri sembrava funzionare bene>>
Disse continuando a fissare la televisione. Dal mondo in cui parlava non riuscivo a capire se stesse ascoltando ciò che diceva il giornalista oppure no. Sembrava molto più interessato a ciò che si vedeva nello schermo.
<< Beh, forse è ora di cambiarla, no?>>
<< E forse è ora di smetterla con questa recita, chi sei? >>
Mi girai di scatto verso il vecchio che ormai aveva smesso di darmi le spalle e mi fissava con quegli occhi rossi.
<< Come scusa?>>
Chiesi ridacchiando innervosita. Che scherzo era quello? Da quando il vecchio aveva il senso dell’umorismo?
<< Mi hai capito bene, non c’è motivo di ripeterlo>>
Insistette continuando a guardarmi ossessivamente con quello sguardo da corvo che mi spinse ad indietreggiare fino a toccare l’isola.
<< Che cavolo di domanda è? >>
Sbottai seccata. Chi ero? Sapevo bene chi ero, perché diceva certe cose? Di cosa diamine stava parlando?
<< Rebekah è mancina>>
Chiarì indicando la mano destra in cui stringevo saldamente il coltello. Non ero mai stata mancina in tutta la mia vita.
<< Smettila! >>
Gridai e finalmente capii cosa c’era di tanto interessante nel televisore. Il mio riflesso.
Capelli neri, lunghi, serpentini. Sopracciglia scomposte, arricciate. Naso grande, narici larghe. Bocca secca, corrugata in un’espressione di disgusto e inconsapevolezza. Occhi vitrei, inespressivi. Pelle grigia. I miei vestiti erano stati abbandonati chissà dove e lì, dove una volta c’era un ventre piatto e liscio ora, in un gioco perverso, l’intestino si arrotolava pendendo fuori dalla carne.
<< Vattene! >>
Scandì deciso guardandomi con quegli occhi fastidiosi. La mano mi tremava così tanto.
<< Perché?>>
La mia voce era poco più di un sussurro oscillante.
<< Va via >>
Ripeté.
Sostenni il suo sguardo con falsa determinazione. Gli occhi umidi desideravano chiudersi ed abbandonarsi in un disperato grido. Nel petto una sola certezza:
<< Credevo di piacergli!>>
Urlai contro quel vecchio maledetto. Lui non capiva, non capiva niente!
Non avevo fatto nulla di male. Cos’avevo fatto di male? Perché ero lì? Il mondo si sbiadiva in una lenta agonia.
Cercai di aggrapparmi a qualcosa, al dolore, alla rabbia, alla delusione.
Dall’altra parte non c’era nulla. Si moriva continuamente. Afferrai ancora più saldamente il coltello. Non era giusto. Avevo così a lungo sentito parlare dell’immortalità dell’anima, del cielo e degli angeli ed ora mi sembrava tutto così fottutamente ridicolo. Non potevo essere morta. Se fossi morta ora non avrebbe avuto senso, nulla ne avrebbe avuto.
Non sarei stata né in cielo, né in terra; l’Inferno mi avrebbe ignorata. Mi sarei dissolta, sgretolata, sbiadita a poco, a poco e sarei sparita.
Non mi ero mai resa conto che tutto ciò che consideravo scocciature, danni collaterali, in realtà erano le fondamenta della vita. Ora, con la consapevolezza del vero, il nulla eterno si rivelava insopportabile. Quel silenzio … quel buio … il vuoto m’inghiottiva. Avrei barattato tutto per un’opportunità, un attimo, un’emozione che fosse dolore o felicità, qualsiasi cosa piuttosto che il vuoto.
<< Vattene via! >>
<< No! >>
Urlai disperatamente affondando il coltello nell’intestino. Quello che feci dopo fu l’ultimo respiro che tanto avevo agognato. L’ultimo respiro prima di perdere i sensi e morire.

Angolo dell'autrice:
Ciao a tutti! Ok, per prima cosa voglio ringraziare chi è arrivato a leggere fino a questo punto e poi ... boh, ormai si è capito che l'angolo dell'autrice mi mette sempre in crisi >.< Comunque, tralasciando i miei scleri momentanei, cosa ne pensate della storia? Sta proseguendo come ve lo aspettavate?
Vi aspetto al prossimo capitolo,
Ciao ciao
  
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