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Autore: Elphie94    17/04/2016    3 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xv.

oltre la maschera




Niente potrebbe descrivere l'orrore che provai quando vidi il suo volto smascherato. Aprii la bocca come per urlare, ma non ne uscì alcun suono. Sul viso mostruoso di Erik si dipinse una uguale espressione di orrore, specchio della mia, perché si era reso conto di aver dimenticato d'indossare la maschera.

Oh, l'orrore di quel viso! Sarebbe impossibile a descriversi, eppure sia Christine che Buquet e mia madre ne avevano fatto un ritratto somigliante. Avrei dovuto essere preparata, ma nel mio stato di tormento emotivo quella vista orripilante fu l'ultima goccia che fece traboccare il vaso.

«Meg…» disse lui in un gemito, ed era talmente pietoso, così simile a un cagnolino respinto dal proprio padrone, che un cuore di ghiaccio si sarebbe sciolto al pensiero. Ma non il mio.

«Stammi lontano» gli comandai, allontanandomi da lui in gran fretta, trascinandomi sul letto di ghiaia che era la riva del lago. L'orlo della mia gonna lambì l'acqua e si bagnò all'istante, ma non m'importava. L'unico mio desiderio in quel momento era mettere la maggior distanza possibile tra me e quella cosa.

Provai ad alzarmi, scossa com'ero, gli occhi ancora arrossati dalle lacrime. Quasi ruzzolai a terra, perdendo l'equilibrio, ma Erik mi afferrò tra le braccia prima che potessi cascare nel lago gelido. Con un brivido d'orrore, mi liberai dalla sua presa, non senza prima avergli dato un pugno sul petto. «Come osi…?» chiesi, evidentemente traumatizzata. Picchiai ancora sul suo petto con i miei piccoli pugni, ma lui era solido come una roccia e non si mosse. «Come osi incantarmi con la tua dannata musica e poi presentarti così?» ringhiai. Un altro piccolo pugno.

«Come osi… io ti ho aperto il mio cuore…»

Crollai a terra, singhiozzando disperata. Lui fece per tendermi una mano in segno d'aiuto, ma io mi allontanai in gran fretta, ancora carponi.

«Non osare toccarmi, tu… razza di mostro…»

Mi alzai a fatica e mi precipitai nella stanza Luigi Filippo, lasciandolo lì, sulla riva del lago, immobile come una statua, paralizzato dal mio stesso orrore. Mi gettai sul letto, il corpo scosso da singhiozzi irregolari. Come avevo potuto dimenticare chi era veramente? Mi ero fidata di lui, senza neanche saperne il perché – forse ero consapevole che solo lui, con la sua oscurità, avrebbe compreso le parti più tenebrose della mia anima.

Come avevo potuto pensare che il nostro rapporto potesse essere civile, ragionevole? Era mio nemico, lo sarebbe sempre stato finché avesse voluto sotterrare insieme a lui e al suo orrido, orrido volto anche la mia amica in quella catacombe. Forse lui sognava una casa normale, con tanto di moglie da portare a passeggio la domenica (neanche fosse un cane) – sognava l'anonimato, ma mai, con quel viso, gli sarebbe stato possibile…

Seppellii il volto tra i cuscini. Piansi per molte ore, o così mi parve, finché non mi calmai e realizzai ciò che avevo fatto. Il completo silenzio regnava nell'appartamento sul lago. Mi chiesi se Erik fosse rimasto paralizzato lì sull'argine come una statua dell'Orrido oppure fosse tornato a rintanarsi nella sua camera della morte. D'un tratto, provai un profondo senso di vergogna.

Mi aveva salvato la vita. Il suo viso era orribile, certo, ma cosa importava? Mi aveva aiutato nel momento del bisogno, senza chiedere nulla in cambio. Non per me, forse per conto di mia madre e Christine, ma l'aveva fatto. E io cosa gli avevo offerto? Solo disprezzo per qualcosa che non poteva controllare. Ripensai ai ragni che mi aveva impedito di uccidere, qualche tempo prima. Non era colpa loro se la natura li aveva resi spregevoli agli occhi degli uomini. Perché punirli per questo?

Avevo molti motivi per essere arrabbiata con Erik, perché molte delle sue azioni erano ingiustificabili; ma non per il suo aspetto. Mi ero comportata esattamente come la madre che lo aveva respinto, la gente che lo chiamava “la Morte Vivente” alle fiere di fenomeni da baraccone. Non ero diversa dagli altri. Lo avevo chiamato mostro. Avevo perso il controllo.

Avvampai di vergogna.

Come era potuto accadere? Forse era stata la sorpresa di ritrovarmi quella… quella cosa davanti, dopo avergli donato il mio cuore raccontandogli delle mie memorie più terribili.

Ricordai l'apprensione nei suoi occhi, rivolta a me – a me, a cui non doveva nulla. C'era qualcosa di terribilmente umano in lui, e io lo avevo ignorato, mentre Christine non poteva cancellarne l'ombra e dimenticarlo così facilmente – una delle tante ragioni per cui, alla fine, tornava sempre da lui.

Avrei dovuto richiamarlo sulle sue azioni, cosa che avevo già fatto numerose volte, ma non sul suo volto. Di quello non aveva colpa, eppure tutto aveva inizio da lì.

Mi sollevai lentamente dal letto e occhieggiai il mio riflesso nello specchio. Ero un disastro, ma non mi aspettavo di meno. Con la spazzola, cercai di districare i nodi tra i miei capelli cespugliosi, invano. Sospirai e uscii fuori, in soggiorno, diretta verso la camera di Erik. Sapevo che l'avrei trovato lì, e così fu. Bussai alla porta con tutta la delicatezza di cui ero capace.

«Entra» disse la voce familiare dall'interno.

La stanza era esattamente come me l'aveva descritta Christine, con le pareti rivestite di nero e un grande baldacchino con lenzuola rosso rubino. Sui tendaggi alle pareti vi erano impresse alcune scritte familiari – il Dies Irae di Mozart, immaginavo – ma ciò che attirò il mio sguardo fu la grande bara che fungeva da letto, posta tra i tendaggi del baldacchino. Doveva aver subito un grande trauma, ed essersi un po' troppo immedesimato nei panni della Morte Vivente, per vivere in quel modo.

Erik era seduto a un magnifico organo, che si era procurato chissà come. Non suonava. Aveva le mani strette a pugno sulle ginocchia. Notai che stavolta indossava la maschera.

Deglutii.

«Erik» dissi, esitante. Era la prima volta che lo chiamavo per nome. Lui sollevò leggermente il capo chino.

«Erik, io… mi dispiace.»

Questo lo prese alla sprovvista. «Prego?»

«Ho detto che mi dispiace, e non farmelo ripetere» dissi io, vergognosa. «Mi dispiace di aver reagito in quel modo. Non avrei dovuto. È stato terribile da parte mia. Ti prego di… di perdonarmi. Puoi farlo?»

Gli tesi la mano in segno di pace. Lui mi guardò negli occhi; notai che erano lucidi. Non si era infuriato come con Christine quando io avevo visto il suo volto perché non solo si era trattato di un mero incidente, una sua dimenticanza, ma anche perché non aveva importanza per lui se io conoscevo la sua bruttezza. Per me non provava alcun interesse amoroso.

«Sono abituato a manifestazioni del genere, Madamoiselle» disse lui con voce grave. «Non hai nulla di cui scusarti.»

«Ti ho chiamato mostro

«Non è quel che sono?» Il tono con cui disse queste parole – così desolato, privo di qualsiasi speranza – mi incrinò qualcosa nel petto.

«Non è detto che tu lo sia. Una faccia non fa l'anima. Potresti essere diverso, se volessi.» Gli tesi ancora la mano. «Pace?»

Lui mi guardò dal basso verso l'alto. Poi tese la mano e strinse la mia in una delicatissima presa, simile a un tocco di rugiada. La sua pelle fredda tremava contro la mia, ma io non avevo più paura.

«Ho un'altra proposta da farti» dissi quando le nostre mani si furono separate. «Erik» saggiai il suo nome sulla lingua, e notai che non era spiacevole all'udito, «stasera ceneresti con me?»

Lui mi guardò come se fossi pazza.

«Cosa?»

«Hai capito. Ceniamo insieme, come due persone civili che abitano nella stessa dimora.»

«Non dovrebbe essere l'uomo ad invitare la donna a cena?» Ne parlava come se fosse un evento tanto estraneo a lui da provenire da un altro pianeta.

«Di solito sì. Ma qui queste sciocche regole di etichetta non valgono.»

Lui ci pensò su per un attimo. «Basta che non metti mano ai fornelli.»

Risi. «No, questa volta lascio fare tutto a te.»



Lo assistetti ai fornelli solamente per vederlo all'opera. Le sue mani erano agili e scattanti in cucina così come sul pianoforte. Quella sera optammo per un magnifico pollo arrosto con patate.

«Dove prendi tutta questa roba?»

«Secondo te rimango chiuso qui dentro tutto il tempo?»

«Vuoi dire che esci allo scoperto?» Me lo immaginai a fare compere come una persona normale: visione improbabile.

«Ho i miei mezzi» rispose lui, enigmatico. Si accinse a raschiare le patate mentre io rimanevo lì ferma a guardare – non voleva neanche farmi avvicinare ai fornelli.

«Per esempio?»

«Una sciarpa, un naso finto, un paio di occhiali e un cappello a tesa larga. Niente di più semplice.»

«Tu hai un naso finto?» esclamai, sgomenta. Cercai di immaginarlo.

«Più di uno. Sono indispensabili, come puoi ben capire. Li ho modellati io stesso. Sono ciò che un medico chiamerebbe “protesi all'avanguardia”.»

Infilò il pollo nel forno – un magnifico esemplare, tornito e invitante – insieme alle patate che aveva appena tagliato con le sue mani agili. Io non riuscivo a staccare gli occhi da quelle dita lunghe e sottili, che si muovevano abilmente, in modo quasi magico sotto il mio sguardo attonito.

«Sei un tuttofare, tu. Musicista, compositore, cantante, prestigiatore, ventriloquo, medico, cuoco… Dimentico qualcosa?»

«Sono anche un architetto.»

«Vuoi dire che hai progettato tu i sotterranei del teatro, la tua casa e tutto il resto?»

«Sì.»

Lo guardai. Non sapevo se essere ammirata o intimorita da tutto quel sapere.

«E non sono esattamente un medico. Ho studiato anatomia per un certo periodo di tempo, in gioventù, e appreso le proprietà di certe erbe.»

«Questa tua conoscenza è stata sufficiente per salvarmi la vita, però.» Avevo un grosso debito nei suoi riguardi, e la cosa non mi piaceva.

Lui chinò il capo in un falso segno di modestia. «È così.»



Non ci rivolgemmo molto la parola se non a cena, attorno alla tavola imbandita. Mi avventai sulla coscia di pollo come se non mangiassi da giorni.

«Tua madre non ti ha insegnato le buone maniere?» chiese Erik, sarcastico. Occupava il posto accanto al mio, e continuava a non mangiare.

Non vuole togliersi la maschera, indovinai.

«Mia madre non è qui per rimproverarmi» risposi con la bocca piena di carne deliziosa.

«Puoi sfilarti la maschera, sai» aggiunsi, con più audacia di quanta me ne sentissi addosso. «Per mangiare, intendo.»

«Non voglio rovinarti l'appetito.»

Annuii, sebbene a malincuore. Effettivamente, non aveva tutti i torti.

«Quanti strumenti suoni?»

«Parecchi. Il pianoforte, il violino, l'organo, l'arpa… non ho mai padroneggiato quelli a fiato, però.»

«E quante lingue conosci?»

«È un interrogatorio?»

«No. È per conoscere meglio il mio ospite. Anche tu puoi farmi delle domande, se vuoi, come il gioco di ieri.» Sperando che non finisca nello stesso modo.

«Oltre al francese, conosco l'inglese, il tedesco, il persiano, un po' d'arabo, l'italiano, lo spagnolo, il russo. E la lingua dei gitani. Ho imparato da me anche il latino e il greco antico, quando ero bambino.»

«Solo questi?» scherzai.

Lui annuì, distorcendo le labbra in una smorfia che potevo prendere per un sorriso.

«Devi aver viaggiato molto.»

«È così.»

Posai il mento su una mano. «Qual è la tua opera preferita? Anche se ho sentito che non apprezzi tanto la musica lirica.»

«Non è che non l'apprezzo. È che esiste un altro genere di musica, ben superiore e terribile, che voialtri con le vostre ariette d'opera non potete immaginare. È una musica che appartiene alla notte.»

Anch'io appartengo alla notte, pensai d'un tratto.

«Vorrei udirla» diedi voce ai miei desideri.

«Non puoi. Ti consumerebbe.»

«Ma io non sono come Christine. Non sono innocente

Ci scambiammo un'occhiata intensa. «Purtroppo sì, Meg, lo so. Ma dovresti dimenticare.»

«Non hai risposto alla mia domanda. Qual è la tua opera preferita?»

«Se proprio devo scegliere, il Faust

«È anche la mia preferita» dissi, non senza una traccia di stupore. «Perché ti piace? Cosa vi trovi di differente dalle altre opere? E qual è il tuo compositore preferito…?»

Lo bersagliai di domande – tutte innocue – per saggiare la sua conoscenza in campo musicale. E in effetti era vastissima: sembrava conoscere a menadito ogni opera, ogni compositore che fossero mai esistiti. Davanti a quell'immenso sapere, io mi facevo piccola piccola e restavo ad ascoltare, affascinata. Capii che nessuno avrebbe potuto interpretare meglio il ruolo di genio della musica, eccetto lui. Stavo assistendo allo spettacolo di un vero genio – uno terreno – all'opera. Sembrava composto di musica e ossa: la musica gli scorreva nelle vene con il sangue e faceva pulsare il suo cuore a una cadenza sconosciuta.

Sentirlo parlare in quel modo era quasi un'esperienza religiosa: qualunque artista sarebbe stato benedetto se avesse avuto anche una sola briciola del suo genio – me ne resi conto immediatamente. Lo avevo già udito suonare il pianoforte e il violino, e non potevo dimenticare la Sirena, ma anche solo sentirlo parlare era ipnotizzante. Ero affascinata, non potevo negarlo.

C'era qualcosa di sinistro e oscuro in lui che non potevo ignorare ma che, anzi, mi attirava come un'aquila alla sua preda; poi intravedevo la sua palese umanità e rimanevo impietosita, basita, incantata. Chiunque fosse, era un essere straordinario.

C'era una domanda che mi volteggiava nella testa: perché proprio Christine? Perché lei e non un'altra delle coriste? Era solo per il suo evidente talento? Ero certa che inizialmente le avesse proposto di darle lezioni di canto solo perché innamorato della sua voce, di cui aveva scorto le potenzialità nascoste. Poi erano trascorsi mesi, e Christine per lui era diventata tutto: oltre ad essere la sua pupilla, era la sua luce, vita – era musica. Forse era per questo che ne era tanto ossessionato.

Non ebbi il coraggio di porgli quella domanda.

«Ti vedo esitante, Meg. Di cosa hai paura?» mi chiese con la sua voce come miele. Certo che poteva essere subdolo.

«Di impazzire. Di diventare come mio padre» dissi senza neanche pensarci. Mi morsi la lingua a sangue – ecco che dalle labbra mi sgorgavano parole come veleno. Mi misi le mani tra i capelli.

«Non so perché ti sto dicendo questo» dissi, lo sguardo chino. Lui mi pose un dito bianco e lungo sotto il mento, sollevandomi il viso. Ci guardammo negli occhi, carbone e oro a contrasto.

«Perché rimarrà qui, in questa tomba, con me solo come testimone» rispose con serietà. «Una volta tornata alla luce, ti dimenticherai di Erik e delle tue paure.»

«Non potrei mai» mormorai io.

Lui scostò il dito dal mio viso e tornò a guardare nel suo piatto vuoto. D'istinto, gli sfiorai un polso, notando le cicatrici sotto la stoffa della camicia.

«Aspetta» dissi, allarmata, «e queste come te le sei procurate?»

Lui ritrasse la mano, coprendosi il polso con fare difensivo. «É stato molto tempo fa, ma certe cicatrici rimangono indelebili» rispose lui, enigmatico come sempre.

«Hai tentato il suicidio?»

«No, anche se molte volte l'ho desiderato.»

Guardai negli occhi come pozze dorate del mio angelo guardiano.

«E allora cos'è successo?»

«Non è una storia per le tue orecchie.»

«Anche la mia non era una storia per le tue orecchie, eppure tu hai ascoltato» ribattei. «Adesso tocca a me, ricordi?»

Lui sospirò, ma alla fine cedette. Il nostro patto era chiaro: una domanda spettava a lui, e un'altra a me.

«Mi sono procurato queste cicatrici la prima volta in cui mi vidi allo specchio. Lo ruppi in mille pezzi. Non potevo avere più di sei anni. I miei ricordi di allora sono confusi, ma quella memoria in particolare resterà indelebile nella mia mente.» Sogghignò. «Vedi? Neanch'io so perché ti sto dicendo queste cose. Non – non dovrei…»

«Eppure entrambi stiamo commettendo lo stesso sbaglio» conclusi io, altrettanto turbata.

Un attimo di silenzio. L'odore del pollo arrostito annebbiava i sensi.

«Vorrei combatterla.»

«Che cosa?» chiese lui, perplesso.

«La mia paura. E la tua?»

«Le mie paure si sono già del tutto avverate» sospirò lui con grande tristezza.

Non potei fare a meno di proseguire con queste parole: «Mi aiuteresti a superare la mia, di paura?»

«E come?»

«Dandomi lezioni di pianoforte. Vorrei recuperare il mio rapporto con quello strumento, così come con la memoria di mio padre. Mi faresti questo favore? Mi basta anche solo un'ora al giorno.» Se non sei troppo occupato a perseguitare Christine, pensai tra me e me.

Lui mi guardò sbalordito. Di certo quella era l'ultima richiesta che si aspettava da me.

«Se prima di andare a dormire mi sentirai suonare il pianoforte, allora la risposta sarà sì.»

«Così sia» acconsentii, e brindai con lui, sebbene il suo bicchiere fosse vuoto.



Quella notte, furono le dolci noti di un notturno di Chopin a cullarmi nel sonno. Sorrisi e mi abbandonai all'abbraccio di Morfeo, aspettandomi chissà cosa dall'indomani.



L'indomani mattina Christine mi fece visita. Questa volta ero in uno stato molto più decoroso, e la tosse mi era passata quasi del tutto. Notai che portava ancora l'anello di Erik al dito.

«Le vostre lezioni continuano, vedo.»

Lei annuì tristemente. «È la condizione per vedere Raoul.»

«Ti permette di stare con lui?» domandai, stupita. Sapevo che il cosiddetto Angelo della Musica, fantasma dell'Opera o quel che era provava una terribile gelosia nei confronti del visconte.

«“Che sia infelice quanto me” dice lui.»

«Perché Raoul dovrà partire presto.»

«Oh, deve farlo. Non posso permettergli di restare qui: è troppo pericoloso.»

Sì, Erik si sarebbe spinto oltre ogni limite pur di eliminare il suo rivale. Dovevo ricordare che, malgrado la sua gentilezza nei miei riguardi in quei giorni, si trattava di Erik. Christine aveva avuto un saggio della sua furia quando lo aveva smascherato, io nella camera dei supplizi. Nessuno si sarebbe chiuso volentieri in una tomba con un cadavere del genere!

«Io non mi sposerò mai» dichiarò Christine con fierezza e disperazione insieme. «Mai!»

I sottintesi di quelle parole erano chiari. Sospirai e, in un gesto molto poco da me, l'abbracciai dolcemente. La cullai tra le mie braccia per un po', consolandola, ignorando le lacrime che bagnavano il satin del mio abito.

Era coraggiosa, molto coraggiosa nell'affrontare tutta quella situazione da sola – persino io non potevo aiutarla. Non potevo salvare quella parte di Christine che ancora, misteriosamente, la riportava ad Erik. Si trattava davvero di sola pietà o paura, checché lei ne dicesse?

Io non credevo proprio. Come lei era attratta dalla sua musica angelica, io non potevo resistere all'inferno nei suoi occhi. Eravamo come due brocche rotte nello stesso punto; c'era qualcosa di marcio in lui – la sofferenza lo aveva trasformato – così come c'era in me, dalla morte di mio padre.

Come lui, anch'io appartenevo alla notte. Christine, invece, era uno splendido uccello estivo, come in quel racconto della piccola Lotte. Come potevano un tale uccello e un tetro corvo essere destinati a stare insieme per l'eternità? Ero certa che anche Erik lo sapesse, ma non riusciva a lasciarla andare. In questo, forse potevo aiutare la mia amica: mi ero resa conto che, malgrado i nostri battibecchi, non mi era indifferente. Mi considerava sua pari, o quasi, e condividevamo un rapporto civile.

Mi ricordava mio padre, con il suo carattere umorale, la ricerca della solitudine, il vuoto negli occhi, il disperato ardore per qualcosa che non c'era. E mi ricordava me stessa, con la rabbia, la voglia di capire senza riuscire a guardarsi allo specchio. Gli incubi nella mente e nel cuore.

Affrontammo l'argomento “Christine” un giorno che mi aiutava a solfeggiare su una composizione di Mozart.

«Hai intenzione di tenerla intrappolata qui per sempre?»

Non ci fu bisogno di precisare a chi mi stavo riferendo.

«Non sono affari che ti riguardano, Meg Giry. Impara il tuo solfeggio.» Ecco che era tornato rabbuiato e minaccioso.

«Invece sì. Si tratta della mia amica.» Balzai in piedi, determinata. «Non puoi conquistarla rendendola tua prigioniera!»

«Non ho alternative.»

«Sì, le hai, invece. Potresti comportarti da gentiluomo, prima di tutto, e non come un pazzo ossessionato da una soprano.»

Si alzò in piedi anche lui, sovrastandomi. «Come osi…?»

Lo ignorai. «Tutte le manipolazioni, le minacce, gli isterismi e le scenate… Questo non è amore, Erik.»

«E tu cosa sai dell'amore, piccola ballerina?» mi rispose lui con durezza.

«Nulla» fui costretta ad ammettere – ed era vero, non mi ero mai innamorata. Al massimo, avevo avuto una lieve cotta per Luc, nient'altro. Sentendo parlottare le mie amiche dei loro pretendenti, io mi sentivo sempre esclusa: prima di tutto perché non ne avevo, secondo perché non riuscivo a capire cosa ci fosse di tanto eccitante. «Ma so che quel che stai facendo è sbagliato.»

«Tutte le “manipolazioni e minacce”, come le definisci tu, sono l'unico modo per assicurarmi la sua compagnia. Non desidero altro da lei, solo la sua presenza. Dopo aver visto la mia maledetta faccia, sapevo che non sarebbe più tornata da me. Per paura…»

«Non è la tua faccia che la fa paura! Per essere un genio, sei davvero ottuso!»

Le orecchie di Erik si infiammarono. «Adesso basta, Meg Giry. Questa è una questione che non ti riguarda. Non ficcare il naso dove non devi, se sei tanto fortunata da averne uno. E ora continua con i solfeggi.»

«É un ordine?» chiesi, alzando un sopracciglio.

«Sono il tuo maestro, adesso. Quindi direi di sì.»

Feci quanto lui mi chiedeva, ma solo per calmarlo. Era più prudente così.



Una voce angelica sovrastava le urla nella mia testa.

«Meg! Meg!»

Una mano ferma mi scosse per le spalle. Aprii gli occhi di scatto. Erik era seduto accanto a me, sul letto della camera Luigi Filippo, in maniche di camicia – s'intravedevano gli avambracci lividi e sottili, con le vene ben in risalto sotto la pelle traslucida, le cicatrici. Accese una candela e un fascio di luce illuminò i nostri visi – il suo mascherato, il mio terreo e sudaticcio.

«Cos'è successo?» mi chiese con la sua voce flautata. «Ti ho udita urlare e…»

«Il solito incubo» mugugnai a malincuore.

«Ne vuoi parlare?» domandò lui con insolita dolcezza.

Annuii. Liberare le catene del mio cuore con lui era semplice come il respirare.

«Temo che si accorgano che c'è qualcosa di sbagliato in me. E che mi portino via, lontano da mia madre e tutti i miei cari…» e da te. Ma questo non lo dissi.

«Chi dovrebbe portarti via, Meg?»

«I medici, con i loro camici bianchi. Mi portano nel manicomio dove è stato rinchiuso mio padre…»

«E cosa succede, allora?» incalzò gentilmente. Era come pungolare un fiore.

«Allora muoio anch'io.» Soffocai il viso nel cuscino. «Mi punto la pistola alla tempia e…»

«Meg, tu non sei tuo padre.»

«Ma gli assomiglio, questo non puoi negarlo.»

«Forse sì, ma tu sei comunque una persona differente.»

Io tenevo ancora il volto seppellito nel cuscino. Lui fece per accarezzarmi i capelli, lentamente – un gesto infimo, come se temesse di spezzare le ali a una farfalla. Ma alla fine ritrasse la mano, sfiorandomi soltanto. La mia delusione per quel gesto incompiuto mi sorprese. Volevo davvero che la sua mano si posasse sul mio capo? A quanto pareva sì.

Devo essere impazzita sul serio.

«Vado a prendere una cosa. Torno subito.» Si alzò dal mio capezzale e si precipitò fuori dalla camera Luigi Filippo. Quando tornò, portava con sé il suo prezioso violino e una boccetta dal contenuto sconosciuto.

«Bevi questa. Ti farà stare meglio.»

Distorsi le labbra in una smorfia, ma feci quanto mi chiedeva. Era la bevanda più amara che avessi mai assaggiato, ma la inghiottii ugualmente, e non tardò a fare effetto. Una nebbia tiepida calò sui miei occhi stanchi, portandomi subito a chiudere le palpebre.

«Che cosa mi hai dato?»

«Qualcosa per farti dormire. Farai un sonno senza sogni.»

«Ti ringrazio.» Poi, vedendo che si stava rialzando, gli afferrai un polso con voracità.

«Aspetta» balbettai, senza sapere quel che stavo facendo. Sapevo soltanto che non volevo restare sola con i miei incubi, non di nuovo.

«Non me ne stavo andando» disse lui, e io allentai la mia morsa. Si accomodò sulla poltrona accanto al mio letto e cominciò a suonare il suo violino – una melodia dolce, probabilmente di Brahms. La musica mi scorreva nelle vene come il sangue, e attutiva il dolore meglio di qualsiasi morfina. Solo chi ha sentito suonare Erik può capire l'effetto che produceva la sua musica. Le sole note erano lacrime d'angelo.

«Ora dormi, Meg. E non temere. Erik resterà qui, se lo desideri.»

Sì, lo desideravo. Non potevo più negarlo. Chiusi gli occhi e mi rannicchiai tra le braccia di Orfeo, cantore degli dei, rinato in quella creatura misteriosa, simile a un demonio ma con la voce di un angelo.

«Grazie» mormorai, prima di cadere in un sonno senza sogni che placò la tempesta che era in me.




Note dell'Autrice: Ebbene, eccoci a un nuovo capitolo – scusate il lieve ritardo. Ora, prima di dire che Meg è una stronza per come si è comportata con Erik dopo averlo visto senza maschera, ricordiamoci una cosa: oltre ad essere (in quel momento) emotivamente traumatizzata e molto scossa, siamo nel 1881. Noi immaginiamo la faccia di Erik con facilità grazie a fanart, e a tutti i film dell'orrore mai creati, ma allora? Non era possibile una cosa del genere. Il viso di Erik è mostruoso, e finora è davvero la cosa più orripilante su cui Meg abbia mai posato gli occhi. Basti pensare alla reazione del pubblico quando vide la faccia truccata di Lon Chaney nel film muto del 1925: alcuni svennero, e altre scene simili. E il viso del mio Erik è ancora peggiore di quello (seppur professionalmente truccato benissimo, soprattutto per l'epoca) di Lon Chaney! Meg ha sbagliato, come farebbero in molti al posto suo, e se ne vergogna (come molti altri non se ne vergognerebbero affatto). Da oggi in poi sarà molto più clemente con il viso di Erik e molto meno con le sue malefatte, non temete. Non voglio difendere la mia "eroina", perché non è perfetta e qui si vede, ma sarebbe stato davvero assurdo se non avesse avuto una reazione molto forte alla vista del viso più mostruoso del mondo, ché tale è quello di quel povero bastardo di Erik. Vorrei anche sottolineare che Christine ha una reazione forte allo smascheramento perché infatuata della Voce che credeva amica e, soprattutto, per via della scenata da manuale di Erik, che davanti a lei da angelo si trasforma in demonio delirante (questa poteva pure risparmiarsela: è stata un comportamento molto violento, il suo). Al posto di Christine, personalmente, anch'io mi sarei spaventata a morte. E probabilmente anche al posto di Meg, qui. Ecco.

Fine del rant. XD

Passiamo ad affari più piacevoli del faccino di Erik:


Malinconica: Cara, spero che tu non sia rimasta delusa dalla reazione di Meg, ma prima ho già spiegato le mie ragioni, quindi… Spero che mi perdonerai. ^^ In realtà Erik non l'ha fatto apposta a non indossare la maschera, certe volte può essere davvero ottuso. XD Il resto del capitolo però consolida il rapporto tra Erik e Meg, quindi spero che non ti abbia delusa. Un bacio, e a presto!


Captain Willard: I tuoi commenti mi fanno sempre morire. No, sul serio, recensisci il più possibile perché è una gioia leggerti. XD Ma passiamo alle cose serie: mi dispiace davvero per tuo padre, spero che leggere la storia di Meg non ti abbia riportato alla mente e al cuore spiacevoli ricordi e sentimenti. :( Stay strong :D Coooomunque, non sei il solo ad avere una cotta per Erik. Meg non lo ammetterebbe mai, ma… ti capirebbe. Il bello è che illogico: è così… orrendo, e così affascinante, non se ne rende conto neanche lui. O il suo fascino sta proprio nell'essere orrendo (dentro e fuori), e nella sua voce ipnotica? Chi lo sa. Comunque sì, è un mezzo psicopatico, anche di questo Meg si è resa conto già da un po'. XD "Piccola granata" è un appellativo perfetto per Meg… ma non glielo diciamo. Non voglio immaginare la sua reazione. XD Spero che tu non sia rimasto deluso da questo capitolo. Un abbraccio :3

   
 
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