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Autore: shanna_b    06/04/2009    5 recensioni
E Tomo? Una rock star come lui dite che sia esente da dubbi lavorativi e problemi di cuore? E se, improvvisamente, un giorno, il suo sound non funzionasse più, la sua ragazza l'avesse mollato, i Leto lo volessero sopprimere e lui dovesse addirittura andare a scuola di chitarra? Guai seri, mie care, guai seri!
E poi nessuno che dedichi una ff al timido, amabile, delicato chitarrista dei 30 Seconds to Mars? Meno male che ci pensa la Shanna_b!!
Dedicata quindi a tutte le fans di Tomo e a Tomo stesso, sapendo che, al solito, io non lo conosco, non ho idea di come sia, non prendo soldi, non mi appartiene etcetc... Leggete e commentate!
Genere: Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tomo Miličević
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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DEL COME EMMA SCOPRE CHE UCCIDEREBBE VOLENTIERI DUE STILISTI ITALIANI, SHANNON SCOPRE CHE VUOLE CAMBIARE LAVORO E DANA SCOPRE CHE JULIA E’ UNA BASTARDA TRADITRICE…

 

 

Dana si osservava allo specchio della camera da letto nell’appartamento londinese di Elisabeth, la futura sposa, e non poteva davvero credere ai propri occhi: il vestito preso in prestito dalla madre di Julius, bianco con tutte frange e paillettes, senza maniche e lungo fino a metà polpaccio, con una scollatura sobria e in stile anni trenta, le stava davvero alla perfezione, come se lo avessero confezionato per lei settant’anni prima. Un salto al mercatino di Portobello con Sarah, le aveva consentito di trovare delle scarpe bianche di vernice con il tacco a rocchetto che erano il non plus ultra per quel vestito. Aveva anche pescato tra le bancarelle una borsetta bianca, sempre con le paillettes, fatta a sacchetto da portare al polso, una collana lunghissima di perle (finte) da annodare al collo, un paio di guanti bianchi di seta lunghi oltre il gomito e una fascia bianca di pizzo da mettere attorno alla testa con tanto di piuma svolazzante!

Insomma: sembrava che il tutto aspettasse solo lei. Completato da un trucco piuttosto accentuato e capelli raccolti dietro sulla nuca in una cascata di riccioli, il travestimento da charleston era praticamente perfetto.

Anche Sarah (testimone della sposa numero uno, abito bianco lungo di seta, pelliccia corta nera, parure di brillanti VERI), Judith (testimone della sposa numero due, vestito nero con paillettes, magrissima, alta, bionda ed eterea), Dora (testimone della sposa numero tre, vestito bianco di pizzo, occhiali spessi, boa di struzzo bianco) ed Elisabeth (vestito nero con pizzi e frange, parure di perle di fiume, emozionata da morire a tre giorni dalle nozze o forse non per quelle) erano a dir poco perfette nei loro abiti rubati alle madri e alle nonne, e il quintetto, alle sette di sera di quello stesso sabato, prese un taxi e si avviò al numero 211 della Stockwell Road, destinazione Brixton Carling Academy.

Dana era contenta di quella bella compagnia, era rilassata e sorridente e anche un po’ incuriosita: nessuna delle ragazze le aveva ancora detto di che gruppo in concerto si trattasse e la possibilità di vedere almeno la locandina dello spettacolo, appesa su una delle colonne del padiglione a semicerchio della parte anteriore della Brixton, andò in fumo quando il taxi, su indicazione di Sarah, si fermò a metà della Stockwell Road, cioè la via laterale che costeggiava la Academy sulla sinistra, e da cui non si vedeva per niente l’entrata del teatro.

Sarah pagò il taxi e tutte le ragazze scesero, guardandosi intorno, un po’ perplesse. Dora e Judith, con un foulard di seta, avevano bendato Elisabeth, che faceva finta di non sapere dove stavano andando, e lo strano gruppetto, con sorpresa di Dana, non si diresse verso l’entrata principale, ma verso il retro della Academy, fermandosi, su ordine di Sarah, davanti ad una porta blu scrostata ed assolutamente anonima.

“Ehm… che facciamo qui?” chiese subito Dana, un po’ in apprensione, mentre i numerosi passanti si giravano a guardarle incuriositi.

“Non ti preoccupare. Ora vedrai…”. Sarah avevo uno strano sorriso astuto.

Elisabeth, da sotto la benda, entrò subito in agitazione, da buona echelon: “Ehm… Ma dovremmo metterci in fila per entrare, no? Sono le sette e mezza…”

“No. Niente fila. Fidatevi.” Miss Carnarvon prese il telefonino dalla borsa e fece un numero. “Sì. Siamo qui, Ed. OK. Grazie.”

Dopo un paio di minuti, la porta si aprì lentamente ed un ragazzo biondino con i capelli lisci e gli occhiali fece capolino, guardando sospettoso la gente che si muoveva sul marciapiede davanti. Si rilassò soltanto quando riconobbe Sarah. “Ehi, cugina!”, le disse, “Quasi non ti riconoscevo vestita così! Vieni, vieni…”

Sarah, facendo velocemente le presentazioni e indicando il ragazzo come il suo cugino preferito (al contrario di Julius), si avviò verso la porta facendo segno alle altre di seguirla e, con sorpresa, le cinque ragazze si ritrovarono all’interno della Brixton Academy, entrate da una vecchia porta di servizio ormai in disuso! Da non credere!

Elisabeth gridò di gioia, nonostante fosse bendata, ed il cugino Ed rinchiuse con catenacci e chiave la porta dietro di loro.

Un corridoio illuminato e deserto portava verso il palco e i camerini, direttamente, ma il gruppo, capitanato da Ed, salì una scala polverosa subito sulla destra. “Il posto che ho pensato per voi è quello in alto sulla sinistra se guardiamo il palco.”, diceva Ed, mentre le accompagnava per altri corridoi e scale semibuie. “E` una specie di piccola loggia da cui potete vedere dall’alto. Non viene quasi mai usata, perché è praticamente irraggiungibile, come potete notare, ma si vede benissimo. Sono solo sei posti, è piccola e quindi non è in vendita. Diciamo che è privata. Serve ogni tanto ai registi degli spettacoli per controllare che tutto vada bene, non stasera però.”

Sarah estrasse dalla borsa i cinque biglietti: “Grazie Ed, ecco i biglietti, comunque…”

Ed, il tuttofare della Brixton, li prese, ne strappò la matrice e li restituì alla cugina. Poi le diede anche cinque braccialetti di plastica bianchi da fissare al polso per entrare alla festa, mentre arrivavano nei pressi di una porta marrone di legno tutta lavorata: “Ecco qui. Quando è finito il concerto vengo a prendervi io e vi riporto giù, altrimenti non vorrei che vi perdeste per il teatro, perché sapete che ogni teatro ha un suo fantasma…”, concluse, ammiccando e aprendo l’uscio.

Judith e Dora si misero a sghignazzare nervosamente, mentre Sarah toglieva la benda ad una fremente Elisabeth e la spingeva dentro per la porta aperta.

Mentre Ed le salutava e se ne andava, anche Dana entrò nel palco, per ultima, e l’immagine che subito ne ricavò fu tale da lasciarla senza fiato. Per un attimo non credette ai propri occhi: vista dalla parte alta, l’interno della Brixton era splendido, luci e colori impressionanti. Dana prese posto su una delle poche sedie e si affacciò a guardare giù, incantata. Le sembrava di stare in cielo, tanto la loggia era alta, ma la vista era perfetta: il palco, dove c’erano gli strumenti già disposti per il gruppo di appoggio, nonostante l’altezza sembrava vicinissimo e, anche se la loro loggia era da un lato, lo stage si poteva vedeva in tutte le sue dimensioni. Dana valutò subito la strumentazione presente, con occhio critico, ma, dagli strumenti, non riusciva ancora ad immaginarsi chi poteva essere il gruppo.

Poi spostò gli occhi sulla gente: una folla spumeggiante premeva sotto il palco e Dana vedeva che i colori dei vestiti delle persone erano prevalentemente bianchi e neri, proprio come i loro. Qualche bandiera appesa o issata, con rose, simboli strani, teschi e croci disegnate, ma nomi Dana non ne vedeva. Non riusciva a scorgere cosa fosse scritto nelle bandiere appese sul palco rialzato centrale sotto di loro e non capiva il perché di quel simbolismo che non conosceva.

A questo punto la ragazza era proprio curiosa: chi era il gruppo che poteva riempire la Brixton in ogni ordine e grado di una folla in così fremente attesa?

 

 

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“Sono arrivati! Sono arrivati!”. Emma, spalancando la porta di scatto, si catapultò dentro il camerino dei 30 Seconds To Mars tirandosi dietro un codazzo costituito da due costumiste, tre truccatrici, due parrucchieri e un visagista. Jared e Tim erano seduti sul divano nel centro della stanza: il primo con un libro in mano e il secondo che giochicchiava con il Nintendo-DS. Shannon picchiettava su un muro con le bacchette, le cuffiette dell’Ipod negli orecchi, e Tomo guardava dalla finestra, dietro le tende, la gente che si assiepava tra le transenne lungo la Astoria Walk per poter entrare in teatro, ormai al buio. Tutti si girarono a guardare l’indemoniata della loro segretaria, che non la smetteva di essere particolarmente indignata. “Sono arrivati! Oddio! Stavolta quei due babbei me la pagano, cazzo!”, ripeteva.

Emma era agitata sin dal primo mattino, quando aveva saputo che i completi dei suoi quattro musicisti erano smarriti chissà dove e non si sapeva se sarebbero arrivati in tempo per il concerto. Quattro abiti Dolce e Gabbana, tre neri e uno bianco, completi di camicie e cravatte, di un costo esorbitante, di una bellezza incredibile, fatti confezionare apposta per quell’evento, persi chissà dove e chissà per quanto??!?!?!

Emma era andata su tutte le furie, aveva preso il telefono e aveva minacciato i due stilisti italiani in tutti i modi, dall’azione legale alla tortura fisica, e alla fine, a meno di un’ora dal concerto, fortunatamente o fortunosamente, i completi erano arrivati, dopo essere stati bloccati in aeroporto per un tutta la mattina e senza un motivo apparente.

Emma cominciò a dirigere subito il traffico all’interno del camerino che, per fortuna, era sufficientemente grande per contenere tutta quella folla. “Allora, ecco qui…”. Si mise ad analizzare i vari pacchi tenuti in mano dai suoi accompagnatori, cominciando a scartare quelli lunghi degli abiti, assistita dalle costumiste. “Dunque… completo bianco, camicia e cravatta bianca… E’ quello di… Jared.” L’uomo si alzò dal divano, prese l’abito e si avviò dentro il bagno senza dire una parola, sapendo che, quando Emma era così, non c’era da discutere ma solo da ubbidire, anche perché era dannatamente tardi.

Mentre le truccatrici cominciavano a sistemare le loro borse del trucco, accendere le luci e predisporre le sedie davanti agli specchi, e uno dei parrucchieri scaldava la piastra per lisciare i capelli, Emma continuò: “Questo… uhm… completo nero, camicia bianca e cravatta nera… é… Tim.”  Il ragazzo balzò dal divano dicendo un “YUPPIE!!!” decisamente convinto: QUELLO era il momento che aspettava da anni, la sua definitiva e certa consacrazione a membro della band! Prese l’abito come se si trattasse di una vestizione papale e si avviò di corsa nel secondo bagno, grato alla sua buona stella e anche a Tomo.

Nel mentre Jared, vestitosi di bianco in un batter di ciglia, usciva dal bagno e si piazzava subito sulla poltrona per il trucco, Emma sistemò anche Shannon: “Completo nero, camicia e cravatta nera. Ecco a te…” L’uomo prese il tutto di malavoglia: aveva gufato tutto il giorno perché gli abiti non arrivassero e per poter suonare soltanto in bermuda e canottiera, ma ancora il malocchio non gli veniva completo, a quanto pareva. Prese gli indumenti e si avviò pure lui al suo destino, giurando a sé stesso che si sarebbe trovato presto un altro posto in un gruppo Death Metal, uomini duri e veri e soprattutto senza orpelli.

Tomo era ancora alla finestra: “Tomo, vieni…” gli disse Emma, dolcemente. “Ecco il tuo: quello nero, come quello di Tim.” Il ragazzo le si avvicinò e lo prese: “Grazie, Emma.”

“Di nulla.” Poi, notata l’espressione poco convinta del chitarrista: “Che c’è, Tomo?”

Il ragazzo scosse la testa: “Niente, niente…”

Emma sapeva della storia di Dana quello che sapevano tutto, cioè quasi niente, però aveva notato che Tomo era rimasto tutto il giorno piuttosto cupo, triste e in disparte. Ma lasciò perdere il discorso, ormai non c’era più tempo per dire niente, né per raccogliere confidenze e/o dare consigli amorosi. Forse solo per un incoraggiamento. “OK. Qualsiasi cosa sia, però…” Emma gli mise una mano sulla spalla, sorridendo. “Stasera cerca di divertirti, OK? E’ una grande serata per i 30 Seconds…”

Tomo rispose al sorriso. “Hai ragione.”

E mentre Jared discuteva con il parrucchiere della corretta consistenza del gel per tenergli indietro i capelli e Tim e Shannon uscivano dai bagni (il primo pavoneggiandosi come se fosse sulla passerella di una sfilata di moda, il secondo trascinando i piedi come se fosse sulla via del patibolo), Tomo si avviò a sua volta verso il bagno, sospirando.

Doveva concentrarsi sul concerto, si disse, era troppo importante per il gruppo.

Non poteva pensare a lei.

Anzi, NON DOVEVA.

Era finita.

Doveva convincersi che era davvero finita tra loro.

Doveva mettere la parola fine.

FINE.

E basta.

Dana non lo aveva voluto.

Dana non lo voleva.

Dana non lo avrebbe MAI voluto.

Chiuso.

E quella sera alla festa magari ne avrebbe trovata un’altra, come aveva detto Shannon, anche migliore di Dana…

No, migliore no…

Diversa, forse…

Si sorrise allo specchio del bagno per un attimo, sforzandosi. “Forza, Tomo, ce la puoi fare… ce la DEVI fare… Coraggio…”, si disse. Poi si passò le mani sul viso come a farsi una carezza, come a voler scacciare i segni della tensione e dell’amarezza, e respirò profondamente… ma non riuscì a convincersi del tutto.

 

 

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Dana sedeva sull’ultima delle cinque poltrone, quella laterale, con la sua quasi-cugina Sarah alla sua destra. Elisabeth era in centro, con le sue due damigelle sempre alla sua destra.

Sarah sgranocchiava popcorn a tutto spiano, mentre le ladies non facevano che parlare della set list, presunta e/o voluta, e recitavano in continuazione titoli di canzoni che Dana non conosceva per niente (A-beautiful-lie-the-kill-the-edge-of-the-earth-echelon-attack-artifact-kings-and-queens-Buddha-for-Mary-the-mission-hurricane…). Ma l’atmosfera tutto sommato era piacevole e il gruppo spalla non era niente male, si disse Dana, appoggiata alla balaustra e battendo il piede per terra a tenere il ritmo. Una specie di alternative rock un po’ banalotto, forse, ma suonato bene, che alle altre ragazze invece non piaceva.

“Sì-sì-bravetti…” ammise ad un tratto Elisabeth, sbadigliando: “Ma niente in confronto ai 30 Seconds to Mars… YUPPIEEEEEEEE!!!”

Dana non capì al primo colpo e mentalmente ripetè il nome: 3-0-S-E-C-O-N-D-S-T-O-M-A-R-S.

30 Seconds to Mars.

30 Seconds to Mars???

30 Seconds to Mars!!!!!

La ragazza balzò dalla sedia, il cuore in gola, gli occhi spalancati: “CHI HAI DETTO CHE SONO?!?”

“I 30 Seconds To Mars, conosci?” Sarah era serafica, come se stesse dicendo la lista della spesa.

“OCCAZZ…” Dana si trattenne per un pelo, risedendosi di peso, tentando di rimanere calma.

“Perché? Non ti piacciono?”, chiese subito Elisabeth, sospettosa e anche un po’ irritata.

Dana arrossì fino alla radice dei capelli, con la sudorazione a manetta e la salivazione azzerata: “Ehm… no… ehm…” Le altre Ladies si girarono subito a guardarla ad occhi spalancati, quasi biasimandola con lo sguardo, in attesa di una risposta. Dana corresse immediatamente il tiro. “Cioè… sì… ehm… cioè… non so… cioè… non li ho mai ascoltati seriamente…”

“Beh, adesso sentirai che forzaaaaaaa!”, cominciò ad agitarsi Elisabeth, ritornando a fissare il palco, mentre Dana si chiedeva dove le fosse finito il cuore che sentiva battere ma non nel posto giusto, bensì dappertutto, in ogni fibra del suo essere.  Elisabeth intanto proseguiva il suo monologo, l’occhio perso nel nulla: “E quel Jared, che canta e suona la chitarra così bene… ed è così sexy… e così… scapolo…”. Il conseguente sospiro della ragazza, a mo’ di tornado, avrebbe potuto spegnere le candeline di dieci torte di compleanno una dietro l’altra.

“E anche Shannon… il batterista…”, intervenne di rimando Judith, con gli occhi a cuore e una leggera bava alla bocca. “Così bravo e anche lui così… scapolo…”

Sarah si mise a ridere sommessamente, guardò Dana scuotendo la testa e a bassa voce le disse: “Ehm… fai finta di niente… hanno gli ormoni in agitazione perenne per quei due tizi là… non so cosa ci trovino… Queste non capiscono più niente, ormai… le abbiamo perse… encefalogramma piatto… biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip…”

Dora non poteva averne di meno, di ormoni: “Anche a me piace tanto-tanto-tanto Shannon… mi piacerebbe tanto-tanto-tanto visitarlo perché lo vedo tanto-tanto-tanto pallido…”

Sarah soffocò una risata: “Faresti il dottorato su Shannon, eh, Dora?”, le chiese, prendendola in giro neppure troppo di nascosto, e Dora, neo laureata in medicina, annuì convinta, sistemandosi gli occhiali sul naso, rossa in viso e cotta come una pera matura.

Dana ritrovò la voce: “Ehm… e gli altri?”, chiese, sottovoce. Già che c’era, forse era il caso di saperne un po’ di più, dei componenti di quel gruppo. Di uno in particolare, magari, di cui non sapeva più nulla da tempo.

Elisabeth si piazzò subito in cattedra, desiderosa di dare una dimostrazione delle sue profonde conoscenze ‘marziane’: “Il bassista si chiama Tim. Ha sostituito Matt Wachter nel marzo del 2007. E’  stato fatto da poco membro ufficiale, prima suonava con i My Darling Murder, ma si sono sciolti nel 2006. E’ fidanzato da anni con una ragazza di nome Brittany. Invece Tomo…”

Dana trattenne il fiato senza volerlo e, per la prima volta, una strana punta di gelosia le pizzicò il cuore. “E’… è fidanzato anche lui?”, chiese, quasi senza volerlo.

Elisabeth si sistemò un ciuffo di capelli che le cadeva sulla fronte: “Uhm… Ci sono strane voci che girano…”

“Che voci?”, chiese Dana, tentando di fare l’indifferente.

“Beh, si dice che sei mesi fa, a Maggio, la sua ragazza lo abbia lasciato senza dirgli niente e sia scappata con un altro. Lui era stato lasciato dalla sua ragazza precedente a Gennaio, quindi… nel giro di sei mesi è stato lasciato due volte… poverino… ma che cappero hanno queste ragazze nella zucca? Come si può mollare un tipo dolce come Tomo?”

Se lo stava chiedendo anche Dana.

Che si stava chiedendo anche come diavolo aveva fatto a ficcarsi in un pasticcio come quello…

 

 

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Tim si guardò allo specchio del camerino per l’ennesima volta e si sistemò la cravatta che, nonostante le estreme cure delle costumiste, a lui pendeva sempre un po’ di sbieco. Si infilò il suo guanto portafortuna alla mano destra (che non c’entrava niente con il completo che indossava, ma a cui lui non avrebbe mai rinunciato), si sistemò per bene il suo ciuffo appena lisciato davanti agli occhi e si preparò per uscire.

“Ehi, fermo!”, gli disse Jared, gli occhi truccati di nero e i capelli tirati indietro con il gel, bloccandolo sulla porta, “Non ti pare che manchi qualcosa?”

“Oh, no!”, rispose Shannon alzandosi dal divano, dopo essersi annodato le scarpe, e battendosi una mano sulla fronte, le bacchette infilate in tasca e i capelli ritti in testa. “Ancora ‘sto cazzo di sangue finto? Non possiamo lasciare che se ne cospargano le echelon soltanto? Non possiamo limitarci a metterci questa cazzo di matita nera sugli occhi, farci fare un po’ i capelli e basta?”

“No. Nemmeno per sogno.” Jared, convinto, se lo spruzzò sulla camicia bianca lasciandolo colare e poi se ne mise qualche ditata in faccia. Con la stessa mano, sporcò anche il viso di Shannon, sulla tempia, e quello di Tim, sulla fronte. Al bassista fece anche una impronta di mano insanguinata sulla camicia bianca, quasi artistica.

“Io me lo metto da solo.” Disse Tomo, prendendogli il tubetto dalla mano e versandosene un po’ sulla camicia, sulla sinistra, all’altezza del cuore. “Qui.” Decretò, con convinzione: “Che il sangue finto coli insieme a quello vero.”

Tutti rimasero di sasso, quasi tramortiti da quella strana confessione di Tomo, tranne lui, che, guardandoli in uno strano modo,  si mise a ridere: “Ehi, che c’è? Era una battuta, eh…”

I suoi tre compagni si rilassarono, respirando forte e ridendo, un po’ troppo nervosamente. Forse Tomo, a modo suo, stava guarendo dalla sua ossessione per Dana, pensò Shannon, certo di esserne l’autore, vista la perfetta opera di convinzione portata avanti quel mattino stesso.

“OK.”, esclamò Jared, contento che Tomo avesse messo via, almeno prima del concerto, il muso lungo che aveva tenuto tutto il giorno. “Sotto con le maschere, ora… Rossa per me, bianca per Shan, nera per Tim e Tomo.”

Shannon trattenne a stento una bestemmia, mentre Jared gli metteva la maschera, giurando a sé stesso che l’indomani avrebbe scritto una lettera accorata ai Korpiklaani per scongiurarli di prenderlo con loro anche solo come suonatore di triangolo.

 

 

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Erano le nove in punto.

Un telo bianco con una fenice rossa era stato calato una decina di minuti prima davanti al palco e Dana non vedeva più lo stage. Vedeva soltanto le vaghe ombre della gente che sistemava le apparecchiature e gli strumenti.

Sentiva la tensione della folla salire a poco a poco.

Perfino le ragazze sul palco con lei parlavano a bassa voce.

E, anche se non avrebbe voluto, pure Dana era in fibrillazione.

Forse per effetto dell’attesa che montava, o forse al pensiero di chi doveva salire sul palco.

Dana voleva scappare, ma voleva vedere Tomo.

Voleva sentirlo suonare, ma era terrorizzata.

Voleva nascondersi, ma voleva far parte di quella serata così importante per lui.

Era come se avesse dovuto suonare lei. No. Era emozionata ancora di più. Le tremavano le mani, capiva per metà quello che le dicevano le ragazze, aveva lo stomaco contratto. Il tempo non passava mai.

Dana era fuori di sé.

Improvvisamente le luci si spensero e nel teatro calò il buio. La gente cominciò ad urlare, in spasmodica attesa.

Una luce rossa spuntò in mezzo al telone bianco, nel centro della Fenice, ed una musica cupa e rimbombante cominciò a risuonare nel teatro. Dapprima Dana non la riconobbe, ma poi, all’udirne le parole, un lungo brivido le percorse la schiena.

“O Fortuna

velut luna

statu variabilis,

semper crescis,

aut decrescis

vita detestabilis…”

Carmina Burana!

Dana smise di respirare.

La luce rossa cominciò lentamente a spostarsi: illuminò uno dopo l’altro i quattro simboli attorno al corpo della fenice, poi si spostò sulle ali, illuminò il cerchio esterno, nella parte inferiore, con il motto del gruppo, poi la parte superiore con il nome. Infine si allargò ad illuminare tutto il gigantesco logo e il fatto che il telone si muovesse per l’effetto casuale delle correnti d’aria interne al teatro, faceva sì che la fenice sembrasse prendere il volo da un momento all’altro.

Un brivido le corse lungo la schiena.

Erano delle visioni fantastiche ed emozionanti.

Così suggestive che Dana faticava a staccare gli occhi, evitava quasi di sbattere per ciglia per non perdere nemmeno un millesimo di secondo. Specialmente verso la fine del pezzo, quando, in sincrono con la musica, le luci si accesero dietro al telone e, per un momento, le ombre di quattro musicisti apparvero.

Poi una intro di batteria spaccò il silenzio.

“THE BATTLE OF ONE!” gridarono le Ladies, e Dana vide l’ombra di un uomo che suonava la batteria. Doveva essere Shannon, quel famoso Shannon Leto che le pagava le lezioni di chitarra di Tomo.

I giochi di luce sul telone e sul palco continuavano e Dana vide altre tre persone sullo stage, ma i loro visi sembravano in qualche modo deformati. La batteria suonò per tre volte lo stesso fraseggio, mentre due chitarre erano entrate a costruire una lieve melodia sonora.

Poi, su un deciso colpo di piatto, il telone cadde, la folla urlò e Dana cercò immediatamente di vedere Tomo. Ma non riusciva a capire quale fosse, perché tutti i musicisti erano mascherati. Guardò subito a destra del palco ma il ragazzo alto e magro, scuro di capelli, con la maschera nera e vestito di nero, suonava un basso. Quello doveva essere Tim.

Spostò lo sguardo al centro, ma l’uomo con la maschera rossa, subito gettata via per cantare al microfono, vestito di bianco e con una strana chitarra nera, era sicuramente Jared.

Non rimaneva che l’ultimo.

Dana spostò lentamente lo sguardo sulla sinistra.

E rimase a bocca aperta.

Eccolo!

Era lui!

Era il suo Tomo.

Vestito di nero, maschera nera.

Con la Gibson Les Paul nera…

No.

Con una chitarra bianca.

Dana spalancò gli occhi, sorpresa.

Chitarra bianca?!?

Ibanez bianca.

Con un quadrifoglio rosso attaccato vicino al ponte delle corde.

Il cuore di Dana perse un colpo.

QUELLA CHITARRA ERA LA SUA IBANEZ!

Dana gettò un grido, cui  nessuno, per fortuna, fece caso.

MALEDETTA JANE! O benedetta? Ma perché l’aveva fatto? Perché l’aveva data a Tomo? Dana era fuori di sé, non credeva ai propri occhi.Non sapeva se essere adirata o in qualche modo lieta che il suo adorato strumento fosse finito a qualcuno che le aveva voluto bene.

E a cui lei ora, improvvisamente, scopriva di volere in qualche modo bene a sua volta.

Sentiva di apprezzare.

Forse di amare.

O forse no.

Era in preda ad emozioni che non riusciva ad identificare, non sapeva dire cosa provava per Tomo in quel momento.

Tutto e niente.

Riprese a fissare il ragazzo che suonava la sua Ibanez: Tomo suonava benissimo, teneva il tempo, era sicuro di sé, si muoveva su e giù per il palco, era bellissimo vestito di nero, molto sexy, era splendido. Dana non l’aveva mai visto così e non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Per un momento le venne in mente che forse aveva avuto tra le mani un diamante e non se n’era resa conto.

Ad un tratto si accorse che la canzone stava per finire.

Tomo eseguì l’ultimo accordo, poi tolse le mani dalle corde, si levò velocemente la maschera e la fece volare verso il pubblico, con un urlo quasi rabbioso, quindi gettò via anche il plettro, sollevò la chitarra verso il teatro e la baciò.

Dana sobbalzò.

Non poteva essere.

Quel bacio era rivolto a lei, ne era certa.

Era un tributo per Dana.

Un grazie.

Forse.

Oppure un addio?

O anche un vaffanculo.

Una presa in giro.

Cosa?

Dana non sapeva rispondere ma, qualsiasi cosa fosse, si rese conto che Tomo non l’aveva scordata.

Purtroppo per lui.

 

 

P.S. Dedico questo capitolo a Jcp, appena aggiunta alla lista delle appassionate di ff. E al solito ringrazio le mie beta readers (che mi hanno dato delle dritte sulla Brixton Academy visto che loro ci sono state…) e tutte le persone che recensiscono: ‘Without you, I’m nothing’… 

   
 
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