Libri > Percy Jackson
Ricorda la storia  |      
Autore: Mikirise    20/04/2016    2 recensioni
Modern!AU: Rachel non trova l'inspirazione e sente che qualcosa le sfugge.
{scritta per la #RachelAppreciation #SpringShower del campmezzosangue}
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Rachel Elizabeth Dare
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Non lo so. Vi voglio bene. Cia'
È che, anche questa volta, qualcosina per la #RachelAppreciation della #SpringShower la volevo fare. Devo dire che mi aiuta a tenere calmi i nervi, avere qualcosa a cui pensare che non sia sempre esami e lavoro. Quindi…
Quindi mi spiace per voi, che mi dovete sopportare.














Non sono una scrittrice

(Ma se scrivessi, scriverei di te)





 
Sometimes the smallest thing take up the most room in your heart
~ Winnie The Pooh








Brutta settimana per smettere.

Rachel afferra la bottiglietta di vernice e sbuffa. Sta lì, rannicchiata davanti al muro, a fissare il vuoto ed è veramente una brutta settimana per smettere, quindi. Cerca vicino una bottiglietta di Coca-Cola e la stappa con un solo movimento delle dita, senza smettere di guardare il muro di mattoni rossi.

Sente Octavian ridere, alle sue spalle, ma non si degna di fare altro, se non alzare gli occhi al cielo e portarsi sui capelli rossi un cappuccio grigio, solo per poi rannicchiarsi sul marciapiede. Il vecchio maglione che le hanno prestato la fa sembrare una pallina verde e grigia.

“Se continui così, tuo padre ti rinchiuderà in clinica per dipendenza da caffeina in tutte le sue forme.” Octavian non sa davvero quando chiudere la bocca. “Di nuovo.”

Rachel ha bisogno d'ispirazione. Prende il suo skateboard, si alza in piedi, pulisce gli jeans dalla polvere della strada e va. Dove non lo sa neanche lei. E Octavian non l'ha guardato nemmeno in faccia.






“No.” Butch le prende il sacchetto di plastica dalle mani e la fa sobbalzare. Seduta sullo scalino, il panorama non sembra migliore e, anche se dei ragazzini continuano a correre di qua e di là, non le sembra per niente bello il mondo. Non c'è niente che sente di dover dire, nulla da dover comunicare.

“Quell'erba mi serve” sbuffa, portandosi, per l'ennesima volta, le ginocchia al petto, e mordendosi le labbra. “Non trovo l'ispirazione.”

“Avevamo detto che questa…” Sventola la bustina, per poi ficcarla dentro lo zaino e guardarsi intorno. “…questa qua non sarebbe mai entrata nel processo creativo. Perché…”

Rachel sospira e si passa il dorso della mano sotto il naso. Alza anche gli occhi al cielo, prima di alzarsi sulle sue vecchie Nike prese volutamente di seconda mano e riprende in mano lo skateboard, per andarsene di nuovo. “Io non ho niente da dire.” Sospira e si gratta la testa. Gli occhi volano dalle rampe ai ragazzini e i loro caschi. “Non più.”

Allora la mette sottosopra, Butch, perché è grande e forte e certe cose riesce a farle con un dito, perché sono il suo dovere. I capelli rossi di lei vanno verso il basso e la sua testa s'infila tra la le braccia e l'ascella, andando quasi a toccare le sue gambe, distese sul petto del ragazzo. Ha preso la posizione di una ciambella e questo la fa sorridere un po'. Ma continua a non avere niente da disegnare. Le bombolette nel suo zaino fanno quel rumore che sa di palline di plastica e lo skate sta a terra, le rotelle verso l'alto.

“Mi sta venendo il sangue al cervello” protesta abbastanza debolmente. Non sta neanche dicendo una bugia. Sente di star per vedere tutto rosso e Butch non sembra nemmeno troppo impressionato.

“Fa come facevi prima.” La voce è calma e serena. Rachel sente vibrare le corde vocali accanto alla coscia e cerca di respirare lentamente. “Cerca il punto di vista diverso.”

La rossa dondola di lato e punta lo sguardo oltre le sue scarpe. I capelli vanno ancora verso il basso e la maglietta si sta avvicinando pericolosamente al suo petto, ma lei aggrotta le sopracciglia e cerca davvero qualcosa da dire, sottosopra. Chiede di tornare a terra, prima di vomitare e ringrazia Butch -che se ne va con la sua erba, ma ehi, a quanto pare lui può fare tutto quello che vuole.

Non gli dice che la cosa della testa in giù non ha aiutato per niente, che lei non ha ancora qualcosa da dire.

Tira su col piede lo skate. Scuote la testa. Non ha ancora niente.








Grover inclina la testa e indica uno scivolo rotto, pieno di firme e di incisioni cancellate, il ricordo di tanti cuori spezzati.

Decidono di sedersi lì, lui sulle scale, lei sullo scivolo di metallo, giocherellando distrattamente con schegge di legno che stanno qua e là. Legge che Jenny ama tanto un certo Jo e pensa che la storia non può andare che male, perché poi la loro coppia si sarebbe chiamata J-alla-seconda e roba così. Chissà se si sono già lasciati. È probabile.

“La roba ce l'hai o no?” Suona più brusca di quello che vorrebbe. Si gratta dietro l'orecchio e sorride con aria di scuse. Il ragazzo non sembra nemmeno farci caso.

“Il problema non è il murales, vero?” Grover lo chiede con la massima gentilezza di cui è capace. Asseconda il bisogno creativo e teatrale di lei e le sta dando le spalle, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Non la sta nemmeno giudicando, perché, davvero, sarebbe il colmo. Sembra solo preoccupato. Grover entra facilmente in empatia con gli altri, è una bella rottura di scatole.

Rachel dondola le braccia , attaccandosi sulla barra di legno. Cosa dovrebbe rispondere, precisamente? Fa una smorfia con le labbra e alza una spalla.

“Prova a seguire il tuo cuore. Ti è sempre andata bene, così.”

Prende un grosso respiro e scivola verso il basso. Non funziona. Saluta con la mano Grover -dopo i fratelli Stoll era la sua ultima speranza di avere roba buona. Sfumata. E come glielo dice che, in tutto quel tempo che ha seguito cuore e intuito neanche se ne era resa conto? Che non funziona. Non ha mai funzionato.

Ovviamente non lo dice. Si dà una spinta con un piede e, mentre l'aria calda d'estate le fa arrossare le orecchie, cerca un modo di riempire uno spazio di mattoni rossi.

Non vede Octavian che si sbraccia accanto a Reyna.







Come facevi prima. Come facevi prima. Butch le ha detto di cercare il punto di vista diverso, Grover di seguire il suo cuore. Hanno detto anche che prima lo faceva.

Quindi c'è un momento che è prima. Poi un punto in cui ha perso le cose da dire. E l'opzione sarebbe tornare a prima. Ma non si può tornare semplicemente a prima, perché c'è un punto in cui le cose sono cambiate e un dopo quel punto. Non si possono combattere ben due elementi per far vincere uno. Ci deve pensare.

Vuole sapere cos'è quella cosa che le ha fatto cercare aiuto per inspirarsi. Cosa le ha tolto. Ma non le viene in mente niente.

Era su questa rampa, che quando era piccola le sembrava così alta da aver paura anche soltanto ad avvicinarcisi. Adesso è abbastanza grande da spaventare i nuovi arrivati al parco e dire loro che tutti i ragazzini inesperti che hanno provato a superarlo si sono rotti quasi tutte le ossa del corpo. Certo, poi c'è Charles che alimenta la leggenda di Percy Jackson, figlio del grande Poseidone che quella rampa l'ha superata all'età di undici anni, perché no.

Percy potrebbe simbolizzare il suo punto. Uhm. Si allaccia il casco e ispira. Lui è accanto a lei che si sbraccia e lei non sa esattamente il perché. Però forse ha la risposta per tornare a prima e non si può lasciar sfuggire l'occasione.

Quindi lo spinge sul suo skate, facendolo cadere verso il fondo della rampa. Lui si riprende in pochissimo tempo. L'equilibrio non gli manca, alza i gomiti e arriva dall'altra parte facendo un'acrobazia gradevole agli occhi, tirando su lo skate e mantenendo una mezza verticale per qualche secondo, poi si ributta sulla rampa e continua a ridere.

“Allora, tu lo sai fare, Grace?”

Ah, ecco perché si stava sbracciando. Rachel non è comunque felice, ferma, immobile sulla rampa. Aveva visto qualcosa per una frazione di secondo: la luce filtrare tra la scarpa del moro e le sue dita a tenere lo skate, che altrimenti sarebbe volato troppo in alto. Gli era sembrata una frazione di secondo bellissima, ma poi aveva pensato che il movimento di Percy era calcolato, nonostante la sua sorpresa, era stato un gesto meccanico, ripetuto e ripetibile. Niente di così spettacolare, quindi.

Sente le dita immobili e morte. Quasi vorrebbe prendersela con Percy, ma non lo fa. Non è colpa sua se non è il suo punto.





Calypso annaffia le piante e ci pensa su. È dovuta uscire dal parco, guadagnarsi le occhiatacce dei vicini ai suoi vestiti e lo skate. Ma lei vale la pena, si dice. Un'amica vale sempre la pena.

I suoi jeans sono sporchi di terra e le sue mani sono diventate nere. È bella, coi capelli sciolti e in faccia e quella smorfia di concentrazione in faccia. È bella. Anche sottosopra. O vista da sopra un ramo. O da per terra, sdraiata sulla pancia. Non c'è una prospettiva diversa per guardarla. Sembra sempre la stessa.

Leo, prima di andare a riparare una fontana che lo insultava in codice morse, prima di ringraziarla per aver riportarto il suo gatto Festus dal parco, ha detto che non è vero. Se la guardi dal basso, e lei è concentrata a fare qualcosa, puoi vedere un accenno di doppio mento e la linea delle labbra sembra più sottile. Se la guardi di lato, dice lui, i suoi capelli le cadono sulle spalle e la fanno sembrare una linea curva e graziosa, come se fosse qualcosa che sta per sbocciare. Se la vedi dall'alto, sembra un po' più bassa e, se hai la fortuna di farle alzare gli occhi, riesci a vedere le sfumature dei suoi occhi nocciola e leggermente allungati.

Rachel si chiede perché non riesca a vedere tutte queste sfaccettature di Cali, che poggia un vaso davanti alle sue ginocchia e le sorride. Forse ha veramente perso la vista. Forse qualcuno gliel'ha tolta, perché è stata così stupida e arrigante da pensare di non poterla perdere mai. E quel muro rosso, allora, rimarrà rosso per sempre?

“Tutti passano per una crisi, prima o poi.” Strofina le mani sul tessuto ruvido dei pantaloni, mentre alza la testa per cercare lo sguardo della rossa. “Il panico del foglio bianco… o del muro rosso. Ma passerà.” Ha il sole davanti agli occhi e posa una mano sulla fronte, per farsi ombra. I suoi occhi sono fessure sottili. Rachel non vede quello che ha descritto Leo. Non vede gli occhi illuminarsi.

“Tu non hai mai avuto crisi. Hai sempre cantato. Non hai mai smesso.” Esce fuori come un'accusa, anche se non vorrebbe. Si inumidisce le labbra e scuote la testa, mentre le braccia dondolano ai lati del ramo su cui si trova, lentamente e stancamente. Il sole la sfiora appena.

“Io non sono una vera artista” dice Calypso. Alza anche gli occhi al cielo, al dirlo, con una punta d'impazienza. “Basta che tu ricominci da capo.”

“Basta tornare a prima” ripete la rossa, allungando pigramente le parole. “Ma io non so quando o chi è stato prima.”

Il sorriso di Calypso si spegne, colpito, forse, da un'illuminazione non piacevole.






“Cosa stai facendo?” La voce di Octavian è irritata e lei riesce a sentire il fatto che il ragazzo ha appena fatto gli occhi in bianco. Per questo continua a non guardarlo in faccia.

Rachel sta sdraiata sul prato, a pancia in giù come i bambini, e guarda i fili d'erba davanti a lei. Una coccinella si è mimetizzata trai suoi capelli rossi e la cosa l'ha divertita. Tra poco guarderà verso il cielo blu. Il sole va pian piano verso l'orizzonte. È ancora alto, ma ha iniziato scendere e continuerà a farlo finché non scomparirà del tutto. Come la sua vista. “Cerco inspirazione” risponde.

Octavian non risponde e Rachel sente che va bene così. Continua a guardare i fili d'erba e il mondo le sembra ancora sterile. Non c'è niente che valga la pena immortalare, niente che vale la pena dire. La verità è che si sente abbastanza vuota e tutti quei colori non sembrano giusti.

Allora chiude gli occhi.

Dietro le palpebre la luce è rossa. Non c'è il vuoto nemmeno chiudendo gli occhi, quello che fai è guardare dietro le palpebre. Sente la presenza di Octavian accanto a lei, ad esempio. Riesce quasi a vederlo, anche se non gli ha degnato uno sguardo per tutta la giornata. Il suo skate. Vede gli insetti e i fili d'erba. In lontananza vede i ragazzini sulla rampa. Vede le sue vernici inutilizzate dentro lo zaino. Ma niente che le sembri così importante.

Tiene così tanto gli occhi chiusi che finisce per addormentarsi. E la cosa è fantastica. Ci sono posti peggiori in cui dormire.






La verità su Rachel Elizabeth Dare è che era una ragazzina piuttosto annoiata. Curiosa ed annoiata. Aperta la vita e annoiata.

Forse per questo sente di non avere una storia da raccontare, un qualcosa che non sia collegato a qualcun altro.

E, comunque, l'integrazione con qualcun altro, non è propria di una storia? In altre parole: il mondo non è semplicemente una rete di vite e storie che si cambiano e influenzano?

Lei era annoiata e si è lasciata influenzare.

La storia di Rachel dovrebbe iniziare con questo ragazzetto con le cuffie nelle orecchie e uno skateboard che non sa usare. Lui le ha mostrato la bellezza della staticità e del movimento lento. Il primo skate che ha usato è stato quello di Apollo, un musicista di strada che passeggiava per la città, che le ha mostrato che oltre al suo quartiere, c'è una vita più vasta, più colorata.

Le ha tenuto la mano mentre metteva il primo piede su uno skateboard, l'ha spinta per la rampa più piccola quando l'ha ritenuta pronta.

Ha riso quando è caduta e si è rotta il naso sulla strada di cemento e lei è dovuta andare all'ospedale, è vero, ma, mentre l'accompagnava, lui continuava a sorridere, come se tutto andasse bene. Poi l'infermiera le aveva chiesto chi fosse, o perché l'avesse accompagnata proprio Apollo e lei, dodici anni, capelli corti e ancora i suoi vestiti di marca addosso, aveva risposto che era il suo ragazzo. Lui aveva riso ancora e lei si era fermata a guardarlo, mentre non riusciva a smettere. Le è sembrato la cosa più bella in questo mondo, da conservare in qualche modo e per questo motivo, per la prima volta aveva preso una matita e aveva disegnato quell'attimo prima che fuggisse via, prima che diventasse qualcos'altro nella sua mente.

Apollo le ha donato la vista. Il mondo si è colorato. È diventato più brillante, pieno di dettagli. Degno di nota. Rachel non è mai stata troppo brava con le parole. A volte balbetta, perché pensa troppo velocemente e la lingua s'intreccia e non sa come farsi capire. Ma così, con un colore in mano, con uno spazio da riempire, è sempre meglio.

Era elettrizzata. Percy l'ha iniziata al movimento, mentre correva di qua e di là, come se scappasse dell'intera vita, dalla sua matita.

Sono le cose che vede Rachel, momento e movimento. A lei piace così. Al parco c'è tanto movimento. Non ricorda un momento in cui tutti sono stati fermi, solo e sempre tanti corpi che si sfioravano e si scontravano. E i corpi sono diventati persone: Butch, il gatto Festus, Annabeth, Grover, Percy… E nonostante questo manca qualcosa.

Un qualcosa che Rachel non riesce ad afferrare. Vede i dettagli ma non capisce. Cosa manca? Cosa le manca?

Apollo se n'è andato. Un guaio con suo padre, una chitarra abbandonata e una felpa verde che le ha prestato e non è più venuto a cercare. Nemmeno un saluto.

A Calypso pare che sia questo che le manca. Ma è da prima che mancava qualcosa, un pezzo del puzzle, che ancora non c'è. Non si trova.

Lei vede il mondo piatto. E cosa c'è di bello in un mondo piatto?

Alla fine rimane annoiata.






Il sole sta lentamente gettandosi in mezzo ai palazzi rossi e grigi della città e Rachel saltella dietro Hazel, che ha una macchia blu trai capelli color cannella.

Quando si è svegliata, accanto a lei non c'era nessuno. Nessuno coccinella, nessun Octavian. Solo il segno dei fili d'erba sulla guancia. La cosa non l'ha nemmeno preoccupata. Si è alzata e ha continuato a cercare la sua inspirazione, prima che cali il sole.

“Cosa faccio quando…?” Hazel sistema una tela dietro la porta e afferra una manciata di pennelli, per poi lavarli nel lavandino. Ma Rachel le compare dietro la spalla e Hazel sobbalza, facendo cadere tutto dalle sue mani. “Cosa stai facendo?”

“Sto cercando di cambiare prospettiva.”

“A-ah, certo.” Come spaventare Hazel e rubarle il talento. Un romanzo di Rachel Dare. La ragazzina si morde il labbro e sorride nervosamente. “Non c'è un modo che vada bene per tutti, penso. Forse… forse dovresti rilassarti, liberare la mente da qualsiasi cosa… cosa stai facendo?”

La rossa sospira e mette giù il pennello col quale stava minacciando un ritratto di Calypso -che, cavolo, continuava a sembrarle uguale anche lì! “Stavo avendo una conversazione con la falsa Calypso… perché hai un suo ritratto qua?”

“Leo.” La piccola pittrice fa un gesto con la mano, come se un semplice nome potesse essere un'intera spiegazione. “Quando non riuscivamo a trovarla, sai, per la storia dei vestiti. È più un identikit che altro. Anche perché manca, beh, quella rughetta vicino alle labbra, quando sorride… e la luce negli occhi… e…”

Rachel pensa soltanto che a lei Calypso sembra Calypso in quel quadro. Allora abbassa lo sguardo e si sente ancora più incompleta. Hazel vede, ecco perché è migliore di lei, disegnando. A lei piace il dettaglio, ma certe cose… alcune cose non riesce a vederle e la domanda è sempre la stessa: perché? Cosa le mancava?

“… ma è anche vero che quella sulla fronte le vengono soltanto quando sta con Leo. In un modo o nell'altro, non pensi che siano a rappresentare il suo amore per lui, no? Perché…” Hazel si gira, sorride nel, verso la porta e si rende conto di non star parlando con nessuno. Sbatte le ciglia, sorpresa.

La stanza è vuota. E Rachel è andata via.







È il crepuscolo e Rachel non sa più dove andare a cercare l'inspirazione.

Sente, comunque, di doverla trovare, che morirà se non la trova. Un tantino melodrammatica, sì, ma è per questo che le piace il teatro, no? Il suono delle vernici le ricorda ad ogni passo che non vede, e che quindi non può rappresentare niente.

Le batte forte il cuore e sente di dover trovare quel pezzo bianco nella sua vista.

Apollo, e poi Percy, non potevano averle donato una vista parziale, incompleta. O forse potevano farlo e stava a lei completarla. Non è neanche capace di questo.

Forse suo padre ha ragione e non sa nulla di quello che sta facendo della sua vita. Forse ha semplicemente vissuto sulle nuvole fini a questo momento.







Tornare a casa sa leggermente di sconfitta, perché non ha trovato nulla. E, soprattutto, non si è trovata.

Prende le chiavi dalla tasca destra, con qualche difficoltà, perché lo skateboard è ingombrante e lo porta in giro tenendolo con due mani, sale gli scalini di cattivo umore. Sente le spalle andare verso il basso contro la sua volontà. Sospira. E allora sente qualcuno schiarirsi la gola, non sa bene dove.

Chris compare dai cespugli, litigando con dei moscerini e sputando passandosi la mano sul viso. “Rachel!” la chiama e lei si sarebbe avvicinata anche prima, se soltanto il vedere un ragazzone litigare con dei minuscoli insetti non fosse uno spettacolo bellissimo.

Sorride e lo saluta. Lui non ricambia, forse perché il sole è tramontato da un pezzo e dovrebbe tornare a casa. Semplicemente corre verso di lei con un pacco, quasi glielo lancia tra le braccia, borbotta qualcosa che la ragazza non capisce molto bene e se ne va. Così.

La rossa prende il pacchetto e si siede sugli scalini, illuminata dalla luce di un vecchio lampione, che sfarfalla un po' e non le fa capire bene cos'ha in mano, all'inizio.

Appena capisce, sente il suo cuore scaldarsi un po' e sorride. Apre lo zaino, si appollottola su se stessa e prende le matite colorate. Sembra una stupidaggine, ma aiuta. Un libro da colorare, contro lo stress, con tante immagini astratte e tanti possibili colori con cui riempire il bianco. Così le piace.

Il bigliettino lo tiene in tasca e promette di non separarsene più.







Il giorno dopo, Rachel ha più cose dentro lo zaino. E ancora non ha capito bene quale sia stata la svolta del giorno prima, ma sente che è stata una cosa importante.

Deve solo rimettere in ordine i pezzi. Per questo guarda il muro rosso.

Poi si gira e tutto ha senso. Un senso incredibile e fantastico.

Octavian si stava avvicinando, dopo aver abbandonato la bicicletta accanto ad un palo, e c'era Festus che è scappato di nuovo di casa e stava giocando con una lucertola. Fin qui niente di strano. Capita che una farfalla inizi a girare intorno al biondo. Gli si posa sul naso e l'immagine diventa quasi tenera, Rachel inclina la testa e sorride. Poi Festus. Il gatto nota la farfalla e le sue ali, le studia per meno di qualche secondo, sistema la coda e salta. Sul naso di Octavian, aggrappandosi con le unghie e mordendolo.

Il biondo grida contro l'animale, cercando di staccarlo da lui, ma Festus si porta via un pezzo della sua faccia, graffiandogli la guancia. E Rachel ride. Non vorrebbe, ma ride.

Festus corre via. Octavian borbotta qualcosa che ha a che fare con una vendetta. E mentre lui maledice, Rachel lo vede e decide sia il momento giusto di abbracciarlo. “Grazie” dice, affondando il naso nelle spalle di lui. “Per il libro da colorare, sai?”

“Non so di cosa tu stia parlando.”

Lei ride e lo abbraccia un po' più forte.








“È un bel murales.”

“E senza erba.”

“Un po' astratto.”

“Dove hai trovato l'idea?”

“Alla fine l'hai trovata l'inspirazione.”

“Mi piace.”

Sono tante persone che stanno lì, davanti a lei. Annabeth, Grover, Butch, i fratelli Stoll, Leo con in braccio Festus, c'è anche Calypso. Rachel sorride e rimane rannicchiata nel suo angolo, a colorare il suo libro.

Quando alza lo sguardo, vede.

Vede un ciuffo di capelli di Annabeth che va dietro l'orecchio, come se volesse ascoltare le persone intorno a lei meglio, e stesse abbassando un muro, uno di quelli che la tiene al sicuro, dietro alle sue giacche e alla sua logica.

Vede Grover asciugarsi le mani sui pantaloni, come se non si sentisse a suo agio trai suoi amici. Lo fa quando è nervoso, quando pensa di non essere abbastanza e cerca di ricordarsi che qualcosina lo è anche lui, che merita di essere quello che è.

Vede Leo, con un il naso arricciato all'insù e un sorriso incompleto. Non lo completa mai, il suo sorriso, a meno che non giri la testa verso Cali, allora entrambi gli angoli della bocca vanno all'insù e sembra che anche lui abbia trovato un posto nel mondo a cui appartenere.

Vede da lontano Octavian, che nessuno vede, se non nel momento. È questa la chiave.

Apollo le ha donato il dettaglio. Percy il movimento. Octavian, il ragazzo antipatico, ambizioso, acido, che nessuno avrebbe voluto come amico, ma che, quando l'ha vista in crisi, alla ricerca di un'inspirazione, si è mobilitato per non farle perdere la speranza, anche se lo avrebbe negato fino alla morte, le ha donato la profondità. È questo quello che Hazel vedeva e che lei non riusciva a cogliere. La profondità.

Che senso ha un momento, senza l'attimo prima? Che senso ha un dettaglio, se non ne conosci la storia?

Il mondo è un insieme di storie e persone legate tra loro. Di sentimenti profondi che non tutti possono cogliere. Di gesti emotivi e interpretazioni erronee.

Ed è da questo che lei prende inspirazione.
“Ora mi ridai l'erba?" borbotta verso Butch.




 
Non voglio che le formiche ti mangino alla ricerca di quello che cerchi. ~Octavian


 
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: Mikirise