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Autore: Nightkey    22/04/2016    0 recensioni
A diciannove anni, Rebecca Montagnani sa molte cose. Sa di avere le capacità per essere ammessa alla facoltà di Ingegneria, sa che per dover frequentare quell'Università dovrà andare a vivere in un'altra città e abbandonare i suoi vecchi amici, sa che d'ora in poi la strada per arrivare in cima non sarà affatto facile. Nuova vita, nuovi ambienti e nuove amicizie. Un nuovo mondo che schiuderà il suo cuore aprendolo all'amore.
La vita prende spesso delle svolte inaspettate. A volte occorre solo assecondarle e lasciarsi trascinare dal fluire degli eventi, perché vivere è anche sfidare l'imprevedibile.
Questa storia è stata scritta in collaborazione con un'altra autrice.
Tale storia appartiene all'IronìaNoodles team.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Vagavo fra i corridoi del Politecnico di Nastrige già da ben quindici minuti abbondanti. Non sapevo esattamente dove mi trovassi, né come potessi fare a tornare sui miei passi. Ebbi più volte l'impressione di girare in tondo, senza allontanarmi mai davvero. Le pareti si ripetevano tutte uguali e la loro monotonia non giovava certo a mio favore.
Studiai ancora una volta la foto sul mio cellulare. L'avevo scattata quella stessa mattina, onde evitare di ritrovarmi esattamente in quella situazione disastrosa. Era la cartina dell'istituto che avevo trovato sulla parete accanto alla segreteria alunni. Dei tondini rossi indicavano il nome delle aule, ma servivano a ben poco visto il dedalo di corridoi in cui ero rimasta intrappolata. 
Mi maledissi per non aver dato ascolto al consiglio di mio cugino: "Esplora la struttura prima dell'inizio delle lezioni, così ti sarà più facile orientarti." Avrei dovuto farlo finché ne avessi avuto la possibilità. Avrei davvero, davvero dovuto farlo. E lo avrei fatto, se il trasferimento e tutto ciò che un cambio di città comporta non mi avessero trattenuta così tanto. Avevo rimandato l'esplorazione così tante volte che alla fine vi avevo semplicemente rinunciato. E questo era il risultato. Un pessimo, frustante risultato.
Il Politecnico era una struttura dalle dimensioni mostruose che occupava una buona porzione della città. Nulla in confronto alle altre Università, che invece si espandevano perlopiù in piccole aree del centro storico o in periferia. Le sue dimensioni imponenti erano facilmente intuibili dall'esterno, ma ciò che nascondeva all'interno era tutt'altra storia. 
La situazione era piuttosto snervante già così. E, come se non fosse bastato, non vi era nessuno che percorreva quei corridoi. Nessuno a cui poter chiedere informazioni. Nessuno che mi potesse guidare fuori da quel labirinto. 
Non andava bene, non andava affatto bene. Come primo giorno si stava dimostrando una catastrofe totale. Non era così che avevo immaginato quella prima ora della mia nuova vita. Non sarebbe dovuta andare così.
Quando vidi per circa la settima volta lo stesso calendario appeso alla parete, sentii la mia fiducia venir meno. Crollai a sedere a terra, in un angolo non troppo appartato. Fissai i numeri in grassetto sul foglio di fronte. Numeri di giorni vecchi di qualche mese. Una devastante tristezza si fece largo nella mia mente, invadente, indesiderata. Ma la lasciai comunque fare.
Mi portai le ginocchia al petto e nascosi il viso fra le mani. Sospirai rumorosamente e non ci impiegai molto, prima di ritrovarmi a fantasticare su cosa avrebbe potuto rendere peggiore quell'inizio. Probabilmente non sarei mai riuscita a venir fuori da quella situazione da sola. Non avrei trovato la mia aula. Avrei saltato la mia prima lezione. E se anche ci fossi riuscita alla fine, avrei finito con l'arrivare comunque in ritardo. Mi sarei ritrovata a strisciare fra i banchi in cerca di un posto libero, sotto gli sguardi di tutti. E i professori poi... Un brivido mi attraversò la schiena da capo a piedi. Chissà se anche loro odiavano i ritardatari quanto gli insegnanti del Liceo.
E se l'unico posto fosse stato in fondo all'aula? Non ero una tipa da primo banco, ma sedermi lontano non avrebbe favorito la mia vista e sarei finita col riuscire a copiare poco o niente dalla lavagna. Dopotutto le aule universitarie non sono esattamente come quelle del Liceo.
Tutti questi confronti col Liceo non mi avrebbero aiutato. Sentivo solo farsi strada in me un forte senso di nostalgia che non aiutava di certo. E il delirio si stava impossessando di me. 
Dovevo darmi una smossa.
Mancavano ancora quasi dieci minuti all'inizio della lezione e se mi fossi sbrigata, con un po' di fortuna, avrei potuto evitare quella catastrofe incombente che percepivo già come reale. Che mi era preso? Da quando in qua mi davo per vinta così presto? 
Mi diedi una spinta con le braccia e mi sollevai sulle punte dei piedi. Alzai la testa di scatto, fin troppo velocemente, e finii con l'urtare qualcosa di freddo e duro. Mi lasciai sfuggire un ahia a denti stretti e mi massaggiai la tempia che aveva subito l'urto.
Sollevando lo sguardo, incontrai due occhi sorpresi, quasi divertiti. «Ehi, bel colpo di testa» disse allora, ammiccando. Era un ragazzo alto e la sua pelle portava ancora il colore dell'abbronzatura estiva, segno di lunghe giornate trascorse al mare. Si stava massaggiando una tempia esattamente come me. 
«Oddio, scusami! Non volevo, non mi ero accorta di te.» Chinai la testa, frustata. Ecco cosa poteva andare peggio: dare testate a gente sconosciuta. Scossi impercettibilmente il capo. Mai porsi delle domande se non si vogliono conoscere le risposte.
«Fa', niente. Tu stai bene?» Quando tornai a guardarlo, aveva la testa inclinata, nel tentativo di scorgere la mia espressione. Il suo sorriso era tirato e sembrava essere davvero preoccupato per me.
Mi sforzai di ridere, sperando che non intuisse la falsità di quel suono. «Sì, il dolore è già passato.»
«Non mi riferivo a quello.» Il suo sguardo si fece più serio.
Lo guardai confusa, non sapendo cosa volesse sapere di preciso. 
«Poco fa non mi hai visto perché avevi il volto coperto dalle mani.» Vedendo che non accennavo a rispondere, continuò: «Mi sono solo avvicinato per assicurarmi che andasse tutto bene.» Due fossette presero vita agli angoli del sua bocca, conferendogli un aspetto giovane, più di quanto non fosse in realtà. Distolsi lo sguardo, imbarazzata e lusingata da quelle attenzioni.
«Sto bene, è solo che...» piegai le labbra in una smorfia. «Ecco, mi sono persa.»
Ridacchiò. Ma non fu una risata di derisione, quanto più di solidarietà. «Primo anno, eh?»
«Già.»
«Tranquilla, ti accompagno io.»
I miei occhi si illuminarono, rinnovati da una gioia inattesa. «Davvero?» Il mio sorriso riconoscente doveva essere eccessivo, perché rise ancora una volta. Mi stavo abituando a quel suono spensierato.
Iniziò a camminare e gli andai dietro, discostandomi di poco da lui. «Sono del terzo anno. Conosco questi corridoi quanto le tasche dei miei jeans.» Poi, rivolgendomi uno sguardo furtivo: «E ti assicuro che quelle le conosco davvero bene».
Gli sorrisi grata ancora una volta. Se fossi riuscita ad arrivare in tempo e a trovare un buon posto, avrei dovuto ringraziare solo lui.
«Io sono Dario, comunque.» Mi allungò la mano e la strinsi leggermente.
«Rebecca. Ma puoi chiamarmi Becks.»
Accelerai il passo, cercando invano di adattarlo al suo. Sembrò accorgersene, perché rallentò di colpo la sua andatura. «Come fai a sapere dove devo andare?»
«Primo giorno, primo anno. Sarete tutti nell'aula A.» Si sistemò la tracolla sulla spalla e si volse a guardarmi. «Ho indovinato?»
«Be', sì.» Feci spallucce e mi sentii rassicurata dalla sua sicurezza.
«Ogni anno è sempre la stessa storia. Fin troppo prevedibile.» Ridacchiai insieme a lui e per tutto il resto del tragitto restammo in silenzio, ognuno preso dai propri pensieri. 
Ne approfittai per scrutarlo davvero per la prima volta. I capelli del colore del grano erano lunghi e gli sfioravano appena le spalle. Arruffati com'erano, sembrava che si fosse appena alzato dal letto e non si fosse nemmeno preoccupato di guardarsi allo specchio e sistemarli. Niente male come primo risveglio. Di certo io non avrei potuto contare sullo stesso effetto della mia negligenza.
I lineamenti morbidi e delicati gli conferivano un aspetto affascinante e tenero al tempo stesso. Era bello, di una bellezza semplice e quotidiana. 
Distolsi lo sguardo e guardai dritto davanti a me. Una A in rosso spiccava in fondo al corridoio, posta esattamente sopra una porta larga e massiccia. Qualche ragazzo occupava ancora l'entrata, attendendo l'arrivo dell'insegnante prima di prendere posto. Chiacchieravano animatamente e avevano tutta l'aria di conoscersi da tempo. Mi ricordai che lì dentro nessuno mi conosceva, nessuno avrebbe saputo chi fossi. Avrei dovuto fare il possibile per integrarmi.
«Dario!» Una voce lontana ruppe il silenzio, richiamando la nostra attenzione. Ci voltammo contemporaneamente in direzione della sorgente. 
Quando vidi di chi si trattava, capii perché quel suono non mi era apparso poi così nuovo. Un ragazzo dai folti ricci castani ci stava venendo incontro, scrutandoci dietro la montatura degli occhiali. Quando ci fu vicino, avevamo ormai raggiunto l'ingresso dell'aula.
«Federico!» Dario gli batté una pacca sulle spalle. «Ehi, amico, che fine avevi fatto?»
«Ho avuto un contrattempo e...» Spostò lo sguardo su di me, accorgendosi per la prima volta della mia presenza. «Ciao.»
Gli sorrisi appena. Sarei voluta scomparire. Se l'amico gli avesse detto che mi fossi persa, avrebbe trovato un nuovo motivo per prendersi gioco di me, confermando l'idea che si era fatto della sottoscritta.
Fu proprio Dario a riprendere la parola. «Voi due vi conoscete?» Trapelava una certa meraviglia dal suo tono.
«Più o meno» rispose l'altro. Quante possibilità c'erano che capitasse anche lui nel mio corso? Evidentemente troppe. «Abbiamo fatto il test d'ingresso insieme, ma non credo che lei si ricordi di me.» Rise beffardo e mi trattenni dal lanciargli un'occhiata gelida. Come se avessi potuto dimenticare il suo tono di presunzione!
«Ottimo. Vi presento ufficialmente allora: Federico, lei è Rebecca. Rebecca, Federico.» Accompagnò le presentazioni con dei gesti alternati delle mani, come si è soliti fare. Quella situazione sembrava divertirlo per qualche motivo a me sconosciuto. Magari erano fin troppe le ragazze che aveva conosciuto e che il suo amico aveva sfacciatamente fatto irritare. 
Mi ero trattenuta fin troppo. «Io devo andare adesso.» Sarei dovuta entrare a prendere posto, altrimenti l'aiuto di Dario sarebbe servito a ben poco. Mi rivolsi a lui, cercando di far trapelare la mia gratitudine dal mio sguardo. «Grazie ancora» dissi.
«Non c'è di che.» Un sorriso sincero coinvolse anche i suoi occhi. «Buona prima lezione. Ci si vede in giro.» Agitò la mano in segno di saluto ed io risposi con un «ciao», senza sapere esattamente se fosse rivolto solo a lui o anche all'amico. 
Mi voltai e mentre varcavo la soglia sentii anche Federico salutare Dario. Lasciai che la porta si chiudesse alle mie spalle, non avendo alcuna intenzione di aspettarlo. Camminando lungo il corridoio vuoto fra i banchi, sentii poco dopo la porta aprirsi e chiudersi nuovamente mentre anche lui entrava nell'aula. 
Scrutai un posto libero in terza fila. Niente male.
Quando presi posto, due ragazze che occupavano i posti alla mia sinistra si voltarono ad osservarmi, incuriosite dal mio arrivo. 
«Ciao» dissi loro, cercando di non far trapelare il mio nervosismo.
Una delle due, quella con i capelli rossi e una spruzzata di lentiggini sulle guance e il naso, batté velocemente gli occhi, evidentemente sorpresa dal mio saluto. 
Fu l'altra a rispondere così. «Ciao a te.» Un sorriso luminoso a trentadue denti risaltò sulla sua pelle color cannella. «Io sono Cristina. E lei è Eleonora» disse poi indicando l'amica.
Risposi al sorriso, lieta della sua allegria. «Becks. Piacere di conoscervi.»
«Il piacere è nostro.» Questa volta fu Eleonora a rispondere. Fui lieta di notare che l'espressione sorpresa avesse abbandonato il suo volto. Quella sorpresa sarebbe potuta essere in realtà semplicemente un impeto di fastidio. E per quel primo giorno avrei preferito essere vista di buon occhio, piuttosto che inimicarmi i miei nuovi compagni di corso.
«Siamo davvero in molti» osservò Cristina. Per la prima volta mi guardai intorno, rimanendo sopraffatta dalla veridicità di quelle parole. Non potei fare altro che concordare. File intere di banchi erano stracolme di ragazzi, tutti intenti a chiacchierare e a tirar fuori dagli zaini o dalle borse il necessario per la lezione. Ero colpita, affascinata e terrorizzata dal grande numero di persone presenti. Non ero abituata a stare in una classe con così tanti miei coetanei. Era tutto così nuovo e sconosciuto.
Mi resi conto di essere elettrizzata da quella novità. Lì dentro, per quanto caratterialmente e fisicamente diversi, tutti condividevamo gli stessi sogni e gli stessi obiettivi. Mi lasciai travolgere dall'euforia e da un pizzico di... Cos'era? Commozione? 
Non vedevo l'ora di cominciare. Ero impaziente ed emozionata, più di quanto dessi a vedere. Ancora pochi istanti e la mia avventura avrebbe avuto inizio. E in fin dei conti, non era affatto male come inizio.

  
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