Note: Firion x Minwu (Final Fantasy II)
Parole: 3698
{I may take a like on them.}
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Il vento era gentile, quel giorno, sui suoi capelli bianchi. Privo dei granelli
di sabbia cui si erano abituati nel deserto, quel giorno l’aria sapeva di
pioggia e di mare. Sarebbe piovuto preso, perché la brezza che spirava verso di
loro stava trasportando delle nubi temporalesche, scure come la propria pelle.
Eppure, né il giovane guerriero né il giovane mago bianco parevano starsene
curando troppo.
Firion aveva gli occhi chiusi da diversi minuti. Si godeva il calore del sole,
mitigato dalla freddezza del soffio dell’aria, quasi spiacevole. Non sembrava
infastidito, però, nonostante i brividi che Minwu vedeva corrergli lungo il
collo e le braccia, facendo incaponire la pelle ambrata dei suoi bicipiti,
ognuno di essi circondato da un cerchietto d’oro.
«Sono un simbolo – gli aveva detto una volta, nelle rare occasioni in cui
parlava – Sono la perseveranza e la forza. Le due cose di cui ho più bisogno».
Ma dove l’aveva messo l’affetto? Non sarebbe stato importante anche quello?
Firion aveva sofferto tanto. Lo aveva capito dalla prima volta in cui l’aveva
visto, quando, tanto tempo prima, gli era stato affidato moribondo e gli era
stato detto di curarlo con ogni mezzo a sua disposizione. Aveva scoperto il suo
corpo con precisione medica, gettando da parte gli stracci sgualciti e zuppi di
sangue che un tempo erano stati i suoi vestiti. E oltre ai tagli, alle
escoriazioni, ai graffi e alle profonde ferite, i suoi occhi blu avevano
trovato altro. Tante piccole cicatrici bianche lungo la pelle ancora morbida
per la giovinezza.
Non era stato solo quello. I suoi occhi color nocciola, appena screziati di
giallo, erano troppo spenti e cupi per un ragazzo della sua età. All’epoca di
lui non sapeva niente, nemmeno il nome. Eppure i tratti del viso non gli avevano
mentito nemmeno per un secondo: era giovane, e tanto. Aveva scoperto solo dopo,
infatti, avere poco più di diciassette anni.
Un piccolo sospiro lo riscosse dai suoi pensieri, facendogli riportare lo
sguardo e la mente al presente. Si stava spostando, Firion, sgranchendosi il
collo con una mano appoggiata contro alla nuca. Gli venne da sorridere nel
vedere che, nonostante fosse un guerriero, proprio non riusciva a rinunciare ai
suoi gioielli. Era stata Maria a rivelargli per cosa il giovane ragazzo dai capelli
candidi andasse tanto matto.
Non si spostò, il mago, quando gli occhi del giovane si puntarono su di lui.
Non doveva essersi accorto della sua presenza, appena nascosta nell’ombra di un
albero, a giudicare da come sobbalzò lievemente, la mano che di istinto scattò
alla cintura, alla ricerca del coltello. Riconoscendolo, però, si placò subito,
e un piccolo sorriso timido si fece strada sulle sue labbra.
Nessuno dei due parlò. Ricambiandolo sotto al velo candido che gli copriva il
viso, il giovane moro si avvicinò. Sedendosi lentamente al suo fianco.
«Non ti avevo notato.» - Pronunciò lui, la voce appena rauca per il lungo
silenzio, come gli capitava ogni qualvolta parlava. Non era mai stato un gran
chiacchierone, nemmeno da bambino. La crescita non aveva fatto altro che
portarsi via sempre più parole, facendolo diventare taciturno al punto da farlo
sembrare muto.
Immaginava fosse piuttosto frustrante, per i suoi compagni, avere un leader
tanto silenzioso. Le sue frasi di solito erano in realtà monosillabi, o versi
di assenso o disappunto. Vere e proprie costruzioni grammaticali erano
piuttosto rade, benché ci fossero anche le giornate in cui era più rilassato ed
incline al dialogo. Come quel giorno.
Il mago bianco parve ridacchiare, un suono lieve e melodioso che gli uscì dalle
labbra chiuse. Aveva una voce giovane, Minwu, benché fosse già un adulto. A
sentirlo parlare pareva un ragazzino.
«Me ne sono accorto.»
Nemmeno il giovane uomo era di tante parole. Forse per questo si sentiva tanto
a proprio agio, in sua compagnia: non c’era bisogno di tanti discorsi, solo la
presenza reciproca e il silenzio.
Un tuono in lontananza ruppe la loro mancanza di parole, facendo sobbalzare in
maniera inaspettata il castano. Parve poco volenteroso di spiegare, tuttavia,
mentre si alzava raccogliendo appena la veste bianca e spariva, mormorandogli
di rientrare presto per non prendersi l’acquazzone.
Così fece, pur ancora perplesso.
L’Inn in cui soggiornavano era molto ampio, ma le camere erano piccole. La
stanza da quattro era completamente fuori discussione, dunque si erano dovuti
dividere. All’inizio Firion e Maria erano nella stessa camera, mentre lui e
Guy, il ragazzone che sapeva parlare con gli animali, erano in quella di
fianco, separati solo da un muro.
Si era sistemato senza problemi all’interno di essa, godendosi poco i drappeggi
variopinti e i mobili ben rifiniti a causa del nervosismo che gli aveva preso
lo stomaco. E dire che aveva pensato di riuscire a controllar…
Proprio mentre stava cercando di calmarsi, afferrandosi la radice del naso con
due dita, le mani calde di Firion si erano poggiate sulle sue spalle, i suoi
occhi preoccupati che facevano capolino da dietro la propria spalla. Si era
sentito mancare il respiro, per un attimo, mentre il bagliore improvviso di una
folgore rischiarava la stanza che andava scurendosi, subito accompagnato dal
rombo di un nuovo tuono.
«Guy mi ha detto che non stavi bene, che respiravi troppo in fretta. Cosa c’è,
Minwu, hai la febbre?»
Si scostò da lui, non volenteroso di fargli sentire quanto in realtà stesse
tremando. Non era febbricitante, benché un paio di volte gli fosse capitato di
non riuscire a nasconderglielo, facendoli preoccupare. No, era letteralmente
terrorizzato.
Invece annuì lievemente, mentre si sedeva sul letto e si prendeva la testa fra
le mani, cercando di calmare il battito furioso del proprio cuore.
Da lì, seduto dov’era, l’ombra di Firion stagliato contro alla finestra lo
copriva tutto, mettendolo completamente in ombra. Quel ragazzo, per quanto
giovane, era dannatamente alto. C’era quasi una testa di differenza fra loro.
«…Resterò qui, stanotte. Sono l’unico della squadra che conosce un po’ di magia
curativa.»
Fu inutile provare a trattenerlo. La voce non gli uscì dalle labbra, interrotta
da un nuovo rombo che gliela bloccò in gola. Concependo che era inutile
ostinarsi a lottare, optò invece per accettare semplicemente i fatti.
Si sfilò copricapo e abiti, rimanendo in camicia e intimo, infilandosi tremante
sotto alle coperte. Tirandole fin sopra alla testa, nella speranza di sparire.
Si era recato da Guy e Maria, spiegando loro la situazione e proponendo il
cambio di stanza. Nessuno dei due ebbe da ridire, entrambi preoccupati per la
salute del ragazzo. Sapevano tutti e tre quanto fosse forte, ma altrettanto
bene sapevano che spesso nascondeva i malesseri, tirando al limite il proprio.
Qualcosa, in Minwu, non andava. Lo aveva visto con la febbre, e poteva
garantire che non aveva l’aspetto che gli aveva visto addosso solo qualche
momento prima.
Aveva il viso tirato e pallido, per quanto facesse ridere quel termine,
associato alla sua pelle scura, gli occhi appena spalancati come non lo aveva
mai visto fare. Sembrava quasi … aver paura, ma di cosa?
Il tempo di spostare la propria roba dalla stanza di Maria a quella di Minwu e
chiuse la porta, assicurandola con i due pezzi che la agganciavano, per così
dire, alla parete.
Il mago era rannicchiato sotto alle coperte. A giudicare da quando poco rilievo
coglievano i suoi occhi, doveva avere le gambe strette al petto. L’acqua,
intanto, batteva furiosa contro alla finestra, e il vento fischiava minaccioso.
Non perse tempo ad aprire, approfittando della posizione riparata del giovane,
per andare a chiudere le serrande e, subito dopo, i vetri. Eppure, per quanto
stesse imprecando per la bagnataccia che si era beccato, era quasi certo di
aver udito un suono provenire dalle sue spalle. Una specie di gemito, un
mugolio sommesso e decisamente spaventato.
Voltandosi, si rese conto che chi l’aveva prodotto era colui che ora, più
discretamente che poteva, stava tremando sotto alle coperte.
Non ci riusciva. Aveva provato a distrarsi affogando nel senso di colpa che
provava nei confronti di Firion. Più che altro nei confronti di Maria.
Fingendo di essere malato aveva separato i due, eppure aveva visto quando la
ragazza desiderasse Firion. Aveva
provato a dirsi che sarebbe passato, se doveva solo addormentarsi o pensare ad
altro. Come, per esempio, a quello che quei due avrebbero potuto fare in camera
da soli. E invece terrore che provava nei confronti del temporale lo aveva
attanagliato quando un tuono particolarmente forte aveva squarciato l’aria,
facendolo irrigidire immediatamente, le braccia serrate attorno alla vita.
Forse, c’era da dire, per fortuna.
Quasi non aveva sentito Firion entrare e muoversi nella stanza, assordato
com’era dal rumore affannoso del proprio respiro e dal suono martellante del
proprio cuore nelle orecchie. Aveva preso coscienza di cosa gli stava attorno
solo quando lo aveva sentito aprire la finestra, facendogli avvertire in
maniera molto più distinta i suoni del diluvio che imperversava fuori.
Doveva aver fatto un verso perché, una volta finito, Firion si era astenuto dal
continuare la sua sfilza di insulti e aveva taciuto, immobile. Fino a che il
materasso su cui era sdraiato si era inclinato, sotto al peso del corpo che si
era seduto al suo fianco. E una mano timida era andata ad accarezzarlo
titubante su una spalla, sfiorandolo appena umida da sopra le coperte.
«…Minwu?»
Non rispose. Non subito, per lo meno. Non uscì dal bozzolo in cui si era
infilato nemmeno con la testa, perché si sentiva a disagio a mostrare il
proprio viso senza il velo a nasconderlo, e non voleva fargli notare così da
vicino che, effettivamente, non aveva la febbre. Il suo aspetto non era quello di
un malato, ne era certo.
Ora che le imposte erano serrate, Minwu percepiva che la stanza era calata
nella quasi completa oscurità. Non si sorprese, quindi, quando poco dopo
avvertì il rumore di un fiammifero che veniva accesso, e la vaga forma di un
lume si intravedeva da sotto il lenzuolo.
Doveva essere una candela, o una piccola lampada. Firion l’aveva poggiata sul
comodino, e nell’aria si stava spandendo un buon profumo rilassante. Sapeva di
gigli e di rose, i fiori preferiti della sua principessa.
«Scusami. Fai pure quel che vuoi, non preoccuparti per me.»
Provò a far suonare ferma la propria voce, eppure non sembrò affatto convinto
nel parlare. Motivo per il quale il giovane non parve muoversi dalla propria
postazione, continuando a far scorrere le dita lungo la sua spalla.
Fu felice di non sentirlo chiedere, perché non avrebbe voluto dirgli di sì a
parole, in quel momento. Gli bastò la sua ultima frase a rincuorarlo appena,
arrestando anche se di poco il suo tremore.
«Mi cambio d’abito e mi metto di fianco a te.»
E così fece. Infilata una camicia pulita, più morbida e comoda per la notte, e
un paio di calzoni larghi, finalmente liberi dal pesante carico delle armi,
scivolò con il corpo sotto alle lenzuola, avvertendo distintamente il calore
che si espandeva sulle proprie guance, a mano a mano che realizzava l’effettiva
vicinanza del mago.
A pochi, pochissimi era stato concesso di essergli tanto vicino. Guy, Maria,
forse un paio di volte Leon, quando erano piccoli. Tutti gli altri erano sempre
stati tenuti a debita distanza, senza molte possibilità di avvicinamento.
Eppure con Minwu era proprio lui ad avvicinarsi. Era lui stesso che ora, con
titubanza, gli avvolgeva le spalle con un braccio, avvertendolo irrigidirsi
appena pur senza scostare il suo tocco.
Abbassò gli occhi sui capelli mori che vedeva uscire dalla coperta e sentì il
respiro bloccarsi nei polmoni, nella gola, il sangue congelarsi in qualsiasi
capillare si trovasse non appena lo vide alzare lo sguardo, il viso finalmente
libero da qualsiasi drappeggio a nasconderlo.
E un timido sorriso ad illuminarlo.
Minwu era infinitamente bello.
«Grazie. Ecco … è strano, essere aiutato, quando di solito sono io ad aiutare
gli altri.»
Capiva cosa voleva dire. Anche a lui capitava di sentirsi strano ogni qualvolta
si sentiva debole, perché solitamente era proprio la sua forza d’animo che mai
vacillava a far da guida agli altri.
E capiva anche perché, probabilmente, gli avesse mentito. In qualche modo
immaginava potesse essere … umiliante, farsi vedere in una condizione tanto
straordinaria e inusuale.
«Di nulla. Però … vorrei sapere qual è il problema, se possibile.»
Dissipato il dubbio della possibile malattia, il più giovane voleva capire.
Voleva sapere perché, anche adesso, ogni qualvolta la stanza veniva illuminata
da un lampo il suo corpo fremeva, tenendosi nel terrore. Che il temporale fosse
il problema stava diventando piuttosto palese, ma…
Firion avrebbe voluto che condividesse ciò che stava dietro a tale paura.
Non vedendolo rispondere, però, si rese conto di aver esagerato. E si morse il
labbro, quasi impaurito, accennando una risata assolutamente insolita, per lui,
da molto tempo.
«Beh, non devi dirmelo per forza. Solo se vuoi. Io pensavo che … sì, ecco,
potessi … cioè potessimo…»
Stava parlando a vanvera. Aveva sorriso, Minwu, nel vedere come la sua frase
aveva progressivamente iniziato a perdere la propria logicità, e ancor di più
aveva sorriso nel vedere le sue guance tingersi di una tinta rossastra, sebbene
una semioscurità le avvolgesse.
Non si sorprese nel vederlo avvampare ancora di più quando alzò un dito appena
tremante contro alle sue labbra, scoprendole decisamente troppo morbide al
tatto. Avevano mai baciato qualcuno, o erano vergini come le proprie? Avevano
già divorato il corpo di qualche ragazza, magari quello di Maria? Il pensiero
gli diede la nausea, proprio come il continuo tremore dovuto alla paura che gli
scuoteva le membra.
Tuttavia riportò in fretta lo sguardo sui suoi occhi, ritrovando il senno e la
determinazione per rispondere al suo quesito, più o meno implicito che fosse
stato.
«Ho perso i miei genitori durante un temporale. È per questo che ho paura. Non
riesco … a controllare ciò che sento.»
Era strano, per lui, così padrone di se stesso. Negli anni aveva mandato giù
tanti rospi, fatto sbollire tanta ira, e nella sua facciata esterna non si era
creata nemmeno una crepa. Quel terrore era l’unica vera pecca di cui non
riusciva a liberarsi. L’unica debolezza per cui non erano bastate ore
interminabili di meditazione, né approcci più invasivi come l’affrontare un
acquazzone a viso aperto.
Firion non ebbe una vera e propria reazione. Ridacchiò, lievemente, ma il suono
che gli uscì dalla bocca fu finto e gelido. I suoi occhi, allo stesso modo, si
erano fatti vitrei e più scuri. Come se stesse ricordando qualcosa, qualcosa di
brutto, e l’odio lo stesse corrodendo da dentro.
«Ah. Quindi sei come me con il fuoco. I miei genitori sono morti carbonizzati.»
Rise di nuovo, in un suono spezzato. Ah.
Ah. Ah. La mano stretta attorno alla propria spalla si serrò in una presa
involontaria, tanto forte da far scricchiolare le falangi.
«…Firion, mi fai male.»
Non lo disse per vero interesse nei confronti del proprio dolore. Fu per
distrarlo, probabilmente, riprendendo almeno un po’ il ruolo cui era abituato:
quello del padre, del fratello, del consigliere, del protettore. Proprio come
immaginava ottenne l’effetto sortito: gli occhi ambrati del ragazzo si
spalancarono appena, e la sua mano mollò la presa quasi immediatamente, mentre
balbettava un paio di scuse.
Aveva ricordato. Suo malgrado, alle parole di Minwu, nella sua mente erano
balenate le immagini di quella sera,
piene di rosso, nero, arancio, marrone. I corpi dei suoi genitori quando li
aveva trovati nella loro stanza erano marroni e neri. Guy, giovanissimo come
lui, quando l’aveva afferrato per trascinarlo via dai cadaveri era vestito di
rosso. Il villaggio in fiamme, il cielo, l’aria e il bosco erano arancio e nero
e giallo. Perfino il fumo era color pece…
La voce del mago lo aveva riscosso da quell’orribile ricordo, senza però
riuscire a frenarlo dal figurarsi, in un attimo fugace, l’immagine dell’artefice
di quell’orrore. Firion, se l’era giurato, lo avrebbe ucciso.
Fu solo un secondo, tuttavia, un istante perso nella notte. Nel ritornare al
presente il giovane si accorse di avere ancora il dito dell’altro sulle labbra,
e si chiese quasi curiosamente se e quando l’avrebbe spostato. Non gli
dispiaceva, la sua presenza, per quanto il corpo la stesse recependo come un
tocco molto … intimo. Le mani di Minwu erano sottili e lisce, il palmo più
chiaro rispetto alla pelle del dorso a causa della colorazione dalle note calde
di quest’ultima. Aveva le dita lunghe e profumate, il genere di dita che non
potresti mai figurarti all’interno di un corpo dilaniato, alla ricerca della
punta di una freccia.
Ma perché stava pensando alle sue mani? Al suo profumo, poi?
D’istinto si ritrasse appena dal suo tocco, pur cogliendo la sfumatura triste
che accarezzò le sue iridi blu in un guizzo, come la fiammella della candela
alle proprie spalle.
Si guardarono in silenzio per un attimo, gli occhi di uno affogati in quelli
dell’altro. E si accorsero entrambi che no, non volevano separarsi.
I loro visi si avvicinarono appena, nella penombra, fino a che il respiro del
moro non gli aveva accarezzato le labbra socchiuse, lievemente accelerato, sì,
ma in maniera del tutto diversa da prima.
Quando arrivò l’ennesimo tuono, questa volta, Minwu non tremò.
E come poteva tremare, stretto contro al suo petto? Non lo aveva avvertito
arrivare, lo aveva colto soltanto quando lo aveva avuto sotto ai palmi. Aveva
sentito con chiarezza quasi dolorosa il calore della sua pelle ambrata, divisa
dalla propria solo a causa della camicia decisamente troppo leggera. Aveva
sentito il petto gonfiarsi e abbassarsi di nuovo nell’atto di respirare, il
picchiettio rapido del cuore contro alla cassa toracica.
Cos’era successo, prima? Si erano guardati, qualcosa gli si era mosso dentro al
petto, un fiotto caldo e incontrollabile. Ed erano ancora lì, adesso, sebbene
gli occhi fossero quasi chiusi, sebbene si cercassero incerti, come a chiedersi
perché fossero improvvisamente tanto vicini, perché sarebbe bastato un soffio
per far unire quelle loro bocche.
Avrebbe voluto farlo, Minwu. Portare una mano fra i suoi capelli, senza più
paura del temporale che imperversava fuori, chiudendo in un angolo i ricordi
angosciosi; Poggiare la bocca sulla sua e portare via la propria innocenza,
concedendosi per la prima volta di assaporare le labbra di un altro.
Eppure l’altro parve batterlo sul tempo. E in maniera decisamente più famelica.
L’adolescenza è particolare. A seconda dell’individuo prende sfumature diverse,
cambiandolo radicalmente. La situazione in cui il soggetto viene posto, poi, è
fondamentale: quante sfaccettature incredibili può prendere, la natura umana,
posta davanti ad una scelta da compiere!
Così era stato per Firion. Con gli occhi blu del mago addosso e le sue mani
incerte contro al petto, si era ritrovato a dover scegliere. Fuggire, come mai
faceva sul campo di battaglia e come eppure faceva ogni giorno, con la sfera
affettiva? O abbandonarsi e basta, come gli dettava il cuore, colmando quegli
stupidi, insulsi centimetri?
La risposta non era arrivata alla sua mente. Non in tempo perché potesse
rifletterci.
Il suo corpo pareva essersi stancato delle sue lagnosissime congetture. Quando
si accorse di ciò che stava facendo, la bocca di Minwu era giù contro alla
propria, le proprie braccia si erano già andate a serrare attorno al suo busto,
tirandoselo contro.
Sentì un brivido solcargli la schiena, un fiume in piena che lo travolse,
quando dalle labbra del moro uscì un piccolo gemito, una sua mano che risalì la
spalla per affondare fra i propri capelli, lasciati sciolti e insolitamente
privi di bandana. Non fu più padrone delle proprie azioni quando spinse la sua
schiena contro al materasso, scivolando su di lui con l’ausilio dei gomiti a
sorreggerlo.
Per quanto il movimento potesse sembrare irruento, nel suo complesso fu incredibilmente
dolce. Firion agì con gentilezza, nonostante la rapidità con cui si mosse,
scivolando sul suo corpo con attenzione, senza toccarlo troppo o troppo poco.
Si era tirato su appena, con le braccia, per non schiacciarlo, mentre le loro
bocche proprio non ne volevano sapere di staccarsi, ma che anzi si cercarono
subito, dopo la piccola distanza necessaria a entrambi per riprender fiato.
Tuonò, fuori, lo scroscio della pioggia si fece violento contro alle imposte e
il vento soffiò irato. In circostanze normali avrebbe preso a tremare
convulsamente, perdendosi a pregare fino a che la paura non si sarebbe
acquietata. Non successe.
Una mano di Firion afferrò la propria, intrecciando assieme le loro dita mentre
ne premeva il dorso contro al materasso, in modo da poterla utilizzare come
sostegno. Ricambiò la stretta, il giovane, socchiudendo appena gli occhi mentre
l’altra mano, quella libera, si stringeva con un fremito fra le sue ciocche
candide, le stesse onde d’argento che gli accarezzavano il collo e una spalla.
Cosa stavano facendo? Non lo sapeva, Minwu, e non era nemmeno certo che
definirlo fosse importante.
Seppe solo che, sempre meno incerte, le loro mani e i loro occhi si fecero
strada lungo la figura dell’altro. Bruciando la notte fino all’ultima goccia.
Fino a che non rimase altro che un intrico incerto di pelle umida e bollente,
le lenzuola avviluppate sotto di loro al pari dei loro corpi. E una miscela
peccaminosa di gemiti persi nell’aria di quella stanza dalle pareti decisamente
troppo colorate.
La mattina li colse entrambi alla sprovvista, ancora esausti da ciò che avevano
fatto. Il primo a svegliarsi fu Minwu, il quale, ancora scosso e in senso
positivo, si era tirato a sedere contro alla testiera del letto, sentendo l’impalcatura
dello stesso scricchiolare appena al movimento. Non immaginava i suoni che
aveva prodotto la sera prima…
Firion si destò per secondo. Socchiuse piano gli occhi sotto alle carezze che
il più anziano gli stava rivolgendo, regalandogli un piccolo bacetto sul palmo,
pur non senza una buona dose di rossore.
Era successo per davvero? Avevano … fatto l’amore?
Firion non osò domandare, né parve volerlo fare il moro. I segni rossi che il
ragazzo dagli occhi ambrati gli vedeva sul collo erano una prova bella e buona,
ma lui non intendeva soltanto … dal punto di vista fisico.
Ci volle molto tempo, prima che entrambi riuscissero a parlare. Forse perché alla
fine erano entrambi timidi, forse perché era accaduto tutto in fretta, all’improvviso,
come un’esplosione non premeditata.
Ma quando Minwu lo fece, a Firion non servirono più risposte. Né per sapere
cosa ne pensava il giovane, né per leggere i propri sentimenti.
«Credo che inizieranno a piacermi un po’, i temporali.»