Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |       
Autore: Kiki Daikiri    07/04/2009    4 recensioni
Qualcuno diventa cieco, qualcuno desidera di tornare a vedere... ma qualcuno, qualcuno è sempre stato cieco. Sempre.
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 10
Art’s like an orange.
 
Ero bambino quando, per la prima volta, sentii la necessità di esprimermi attraverso il mio talento. In un primo momento fu solo desiderio di creare qualcosa, poi divenne foga nel voler essere conosciuto dal mondo. Volevo un conforto, volevo che qualcuno, anzi, che tutti mi dicessero che io piacevo.
Io dovevo piacere.
Sono stato molto fortunato a nascere con il mio bel volto, a nascere con un fratello così meravigliosamente interessante, a nascere in una famiglia in cui tutto era volto ad un sola cosa: il mio successo.
Fui così fortunato da dimenticare quelle che erano state le mie più grandi sfortune.
La mia arte non si è prostituita, la mia arte è nata prostituta di me stesso.
Le sue mani calde e piacevoli mi hanno sempre accarezzato, come fanno quelle di Tom in questo momento.
Sono callose sui polpastrelli, dove le corde della chitarra sfregano ad ogni nuovo accordo.
«Buongiorno. Hai dormito per quasi dodici ore…»
La sua voce profonda fa tremare la mia, così fastidiosamente femminile e così stranamente diversa dalla sua.
Mi fa male la testa.
«Urgh. Dove sono?»
«Sei… a casa…»
Sollevo lievemente la testa, sento le lenzuola ancora calde attorno al mio corpo.
«Dove… ma. Dovrei essere all’ospedale.»
«Perché?»
C’era un comodino tra i nostri letti, nella vecchia casa. A volte quel comodino era un semplice pezzo di legno, a volte mi sembrava un muro insormontabile tra di noi.
E, quando avevo paura, non dormivo. Stavo ore ed ore ad occhi aperti a guardarlo: la sola vista del suo volto reso dolce dal sonno mi aiutava a non temere nulla.
La mattina, anche se non avevo riposato, mi sentivo meglio.
«Mi ha investito un camion.» bisbiglio, quasi più a me stesso che a lui.
Una mano vola automaticamente a tastare le mie gambe, come per controllare che siano lì e che non siano rotte.
Le ho sentite schiacciate dalle ruote.
Eppure stanno bene.
«Bibi ti abbiamo trovato seduto sul marciapiede di fronte al palazzo… nessuno ti ha investito…»
«Io… non ricordo… mi ha colpito…»
Balbetto frasi sconclusionate e Tom mi lascia fare. So che prova pena per me, eppure la gioia nella sua voce mi stordisce.
È felice di vedermi smarrito?
«Grazie.» mi dice ad un orecchio, abbracciandomi di impulso. «Per averla riportata da me. è stato merito tuo, sai?»
«Sam?»
Non risponde, perché la felicità lo ha reso silenzioso, ma una nuova forza nel suo abbraccio trasmette anche a me l’incredibile novità nelle sue parole.
«L’ho… salvata?»
«Eri lì con lei quando siamo venuti a prenderti. Vi siete trovati a vicenda, in un certo senso.»
Allora l’ho salvata, prima che fosse troppo tardi, prima che fosse perduta per sempre.
La sua ragazza, la mia salvezza, il mio angelo.
Non posso credere di averlo fatto. Ero convinto di essere morto. Invece ho fatto la cosa giusta, a costo di perdere la vita.
L’ho fatto.
Ce l’ho fatta.
Un tocco gentile mi riporta al presente e un respiro umido sulla guancia mi annuncia che un altro giorno, per me, finalmente è iniziato.
E non importa con quali handicap dovrò affrontare ogni ora, perché avrò al mio fianco la mia famiglia e da oggi, se non dovesse bastare, avrò me stesso, nel mio cuore.
Finalmente saprò domare la solitudine.
 

 
Dal diario personale di Tom Kaulitz, intervento datato il 06.06.2010 e reso pubblico da un tabloid tedesco il 31.04.2025 in seguito al definitivo ritiro a vita privata dell’artista:
 
“Spesso le persone si domandano cos’abbiano fatto di male per meritarsi ogni sorta di disgrazia.
Ebbene, a me spesso capita di interrogarmi sull’esatto contrario.
Cosa abbiamo fatto, in fondo, per meritare tanta fortuna?
Quale incredibile talento, quali incredibili parole.
Io le sto perdendo tutte, una ad una.
E lei, io me la sono meritata? Giaccio qui, accanto a un angelo che dorme.
La osservo e mi domando quale essere superiore debba esistere se una come lei è finita accanto ad uno come me.
Paradossalmente, forse questa stessa sera, prima di chiudere gli occhi e voltarmi le spalle, è stata lei a ringraziare il cielo.
Non so se è il cielo che debbo ringraziare. Nel dubbio, io ringrazio ogni singolo istante, ogni singolo dettaglio, ringrazio mia madre, mio fratello, ringrazio la terra, gli alberi, il sole, il vento, ringrazio la musica e ringrazio la fortuna, Dio e l’antiDio.
Io ringrazio e basta, perché non ho fatto nulla per meritarmi una simile dolce compagnia.
Nulla, nulla per meritarmi un amore così puro e profondo.
Mi rendo improvvisamente conto che non esiste “uno come me” e che non esiste “una come lei”, perché dovrebbero esistere? Noi siamo noi e basta. Ragazzi. Non abbiamo nulla di diverso, abbiamo solo avuto fortune diverse. E sfortune.
Bill, nell’altra stanza, sta tossendo forzatamente, forse lo infastidisce il rumore delle mie dita sulla tastiera, forse ha percepito i miei pensieri.
Socchiudo gli occhi per un attimo e provo a ripensare a quante volte ho gettato la spugna, con lui, dicendogli in faccia che era un cinico. Che tristezza. Non credevo sarei mai arrivato a pensare questo di lui.
Non lo penso. No.
Però a volte, a volte il germe del dubbio si insinua nella mia mente e prevarica l’amore incondizionato che provo per lui. E, allora, provo sconforto.
Forse il futuro mi riserva altro dolore, forse non è ancora finita.
Intanto io amo.
Devo amare lui e lei, devo amare la mia musica e la mia vita, perché se non lo facessi cesserei di esistere.
Io esisto perché amo, non ho bisogno di nessun’altra certezza.
È proprio per amore che dimentico quel sorriso spento e un po’ aggressivo e ricordo di lui solo l’ultima briciola che resta su questa tavola dell’autenticità di un vero prodigio.
-Il mondo senz’arte è una buccia d’arancia. L’arte è la polpa, suddivisa in vari rami, che sarebbero gli spicchi, ma che hanno tutti lo stesso sapore. Il sapore della libertà. Vuoi vivere mangiando solo scorza? Serviti pure, io vado a prendermi la spremuta.-
Quel coraggio che io leggevo nei suoi occhi ogni mattina, al di là della coltre nera di capelli che, ostinatamente, riempiva di gel. Le botte che prendeva in mia assenza, in corridoio.
Quel coraggio che cerco disperatamente in ogni suo respiro, fino all’ultimo. Quell’istante di infinita lenta distruzione che ci sta strangolando. Un po’ me, un po’ lui.
Un po’ tutti e due perché, in fondo, anche se affianco a me riposa la mia anima gemella, io la parte complementare di me l’ho sempre avuta dalla mia parte.
E la porto con me nel cuore, sempre, comunque essa si sia evoluta.
La nostra forza va oltre la realtà dei fatti, ci resta sempre l’immaginazione, ci restano i ricordi.
Dipingo volti felici e testi di canzoni, con il solo pensiero.
[…]”
 

 
Mi immergo nella vasca e mi godo il silenzio.
Immergo spalle e testa nell’acqua tiepida e soffio con il naso per sentire il rumore della calma superficie incresparsi di bollicine.
La dolcezza, l’unicità dei suoni.
Riemergo nel vapore.
Lo so che sei lì e che mi stai guardando, ti sento chiudere gli occhi, sento il fruscio delle tue lunghe ciglia, ma non te lo dico perché desidero scoprire se tu intendi rivelarmi la tua presenza o se solo ti accontenti di osservare il mio volto gocciolante.
Lo so che è tuo il respiro che odo, che è tuo il profumo che aleggia tutto intorno. Scopriti, parlami, spiegati.
Ogni istante di silenzio è un istante rubato al nostro futuro.
«Non spaventarti…» sussurri, quasi timorosa della mia reazione.
Spaventarmi? Di cosa? Della tua voce, dei tuoi pensieri, delle tue parole? È impossibile essere spaventati da una cosa così meravigliosa.
«Non spaventarti… volevo solo ringraziarti Bill. E dirti…» la sua voce ha una lieve incertezza «…che sono orgogliosa. Di te, di tutto… quello che abbiamo costruito insieme.»
E come un libro che ti cade dalle mani e, toccando terra, si apre, ecco svelarsi la mia verità. Già l’avevo nel cuore.
«Tu.» bisbiglio, sorridendo tra me e me.
Sam diffonde nella stanza quel profumo di zucchero che io ho tante volte trovato nei miei sogni, sulla pelle di quella ragazza che adesso è reale, che è sempre stata reale.
Non credo di voler condividere con lei questa mia consapevolezza. Va bene così com’è.
«Vuoi sapere perché dissi quelle cose… cattive… su di te?» sussurro, portando istintivamente le mani a coprire le mie nudità, come improvvisamente conscio della mia vulnerabilità di fronte a lei.
La immagino guardarmi: ha capito subito di cosa stiamo parlando. Per un attimo, mi pare di intravedere un’ombra di risentimento nel suo sguardo, ma è molto brava nel ripulirlo, in un battito di ciglia, nel riportarlo limpido e sincero come sempre.
«Perché sei un cinico bastardo che non prova nessun sentimento e crede di essere al di sopra di qualsiasi creatura o sensazione umana?»
La dipingo mentre sorride sarcastica, ma, per un attimo, credo che stia dicendo ciò che pensa veramente. Per un attimo mi rispecchio nelle sue parole. Si, sono decisamente io.
«Ero arrabbiato con te… perché pensavo a te.»
«In che senso?»
Nel senso di una mente costantemente occupata da un odio così roco e cieco da impedire qualsiasi altra forma di pensiero, un’acidità tanto intensa nei confronti del mondo e dei suoi abitanti da risultare nociva anche per chi la produce. Nel senso di un cuore costantemente martoriato dalla sensazione di aver raggiunto ogni scopo immaginabile.
Nel senso che sei arrivata tu e, per un attimo, il tuo sorriso felice mi ha fatto sentire geloso della vita di qualcun altro. E quella nuova sensazione mi ha fatto imbestialire.
«Nel senso che… ero molto… ero cieco. Sei sempre stata bellissima… io ero orribile.»
Silenzio.
Il lento sfiorare delle sue mani sui miei occhi blindati.
Poi, per lunghi istanti, solo le nostre nitide immagini che si rispecchiano nell’acqua, confusione.
Il mio e il suo petto che si gonfiano come vele nella tempesta a ritmo con il nostro affannoso cercar rifugio in piccole, inutili speranze.
Sono molto, molto confuso.
Ci sono molti colori, colori veri. Non ne ricordavo così tanti. Sono… dolorosi.
Mi alzo, barcollo sulle gambe, rischio di scivolare.
Dimentico di essere nudo.
Le lacrime mi inondano gli occhi, vorrei tornare ad annegare in quel buio così confortevole, la mia casa, la mia dolorosa protezione da questo ammasso di confuse luci e confuso tutto.
Mi nascondo tra le mani, cerco conforto.
Devo provare.
A tenere gli occhi chiusi.
A socchiuderli con lentezza.
Per scoprire qualcosa di nuovo ad ogni istante che passa.
Il respiro torna regolare, le parole tornano a fluire nella mia mente. Ma più ordinate. Ancora sincere. Ma meno cattive.
Non più lame affilate, ma dolci carezze, inviti, sapori.
Voltati, guardala negli occhi.
Cosa aspetti?
«Bill.»
La sua voce. Squillante, fastidiosa. Pulita? Tenera.
Mi volto e attendo.
Davanti a me ho la ragazza del pranzo, la ragazza di mio fratello ma, soprattutto, davanti ai miei occhi ansima e sorride la mia salvatrice e la mia carnefice.
«Hai appena imparato a vedere.» bisbiglia, mentre io seguo con lo sguardo due grosse lacrime abbandonare i suoi occhi così profondamente ed ineluttabilmente viola.
 
Fine.
 
Ringrazio di cuore tutti i miei lettori, con la speranza di ricevere al più presto i vostri commenti, positivi o negativi che siano.
Giulia. n_n
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Kiki Daikiri