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Autore: Adeia Di Elferas    27/04/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ L'improvvisa dipartita del Bergamino e la confusione che ne era seguita aveva fatto ritornare Caterina in uno stato di allerta palpabile.
 Aveva subito mandato i figli e la sorella a Imola, sotto la protezione del Cardinale Sansoni Riario, tanto per essere sicuri di non avere incidenti.
 Subito dopo si era dovuta occupare di uno spiacevole fatto avvenuto in Forlì. Erano stati sparsi per la città dei cartelloni in cui si accusavano pubblicamente gli Orcioli e i Marcobelli di aver preso parte, né più e né meno degli Orsi, alla morte di Girolamo Riario.
 L'autore di tali messaggi infamanti era stato subito individuato e Caterina l'aveva spedito a rinfrescarsi le idee in carcere. In parte perchè non credeva alle sue accuse e in parte perchè non aveva intenzione di inimicarsi né gli Orcioli né i Marcobelli con vendette basate su dei miseri pettegolezzi.
 A gravare sulle sue giornate, arrivò anche un uomo da Milano, propostole da suo zio Ludovico come nuovo Governatore. Caterina gli promise un paio di mesi di prova, ma nulla di più.
 Sapeva che anche suo zio era addolorato per la morte di Bergamino, perchè aveva sentito parlare della profonda amicizia che li aveva legati per anni, perciò trovò ancora più fastidiosa la sua solerzia nel proporle un sostituto.
 Inoltre, come ennesima causa di pressione c'erano le visite di Antonio Maria Ordelaffi, che si erano fatte ben più frequenti di quanto Caterina non volesse.
 Addirittura, quando lei si recò, a metà giugno, a Imola, per vedere i figli, l'Ordelaffi fece in modo di strapparle un paio d'ora di compagnia presentandosi improvvisamente davanti alla sua dimora.
 Per quanto la Contessa stesse riuscendo a mantenere sempre con Antonio Maria un certo distacco, pur senza essere mai sgarbata, l'uomo aveva cominciato a credere che le cose stessero risolvendosi in suo favore.
 Ordelaffi si era convinto che la Contessa Riario fosse solo una donna molto timida o, ancor più probabile, semplicemente insensibile al fascino maschile. Dunque non dava troppo peso al modo in cui la donna fingeva di non notare come, casualmente, lui le sfiorasse di quando in quando la mano, né badava eccessivamente al tono disinteressato con cui commentava le sue frasi più ardenti.
 Antonio Maria ormai era certo che prima della fine dell'anno sarebbe riuscito a chiedere apertamente alla Contessa di sposarlo e che lei, ormai abituata alla sua presenza e convinta dalle sue idee politiche, le avrebbe detto di sì. Addirittura, la sua convinzione era tale da portarlo a scrivere una lettera piena di speranze al signore di Ferrara, uno dei suoi pochi corrispondenti.
 'Sono lieto di annunciarvi – aveva scritto, in chiusura di messaggio – che a breve convolerò a nozze con la Contessa Sforza Riario, quella che voi chiamate Leonessa di Romagna. La mia gioia nell'annunciarvi questo evento non è esplicabile a parole, ma vi farò sapere più avanti la data e il luogo delle nozze.'

 Il Cardinale Ascanio Sforza stava parlottando in un angolo del salone con altri due cardinali. L'argomento era facile da intuire. Lui, così come Giuliano Della Rovere e Rodrigo Borja non facevano altro che parlare della vedova di Girolamo Riario.
 Innocenzo VIII passò accanto al capannello di porporati salutandoli con un cenno del capo. Era assurdo che quegli uomini di Chiesa quasi non ricambiassero mai i suoi omaggi. Al massimo mimavano una riverenza o borbottavano qualche parola, ma nessuno pareva più trattarlo come un papa.
 Tutti quanti, ormai, davano più peso alle parole e alle opinioni di Rodrigo Borja, che non a quelle di Innocenzo VIII, questa era la dura verità...
 “Se faremo avere il permesso papale a suo figlio – stava dicendo Ascanio Sforza, proprio mentre il papa lo affiancava – mia nipote di certo sosterrebbe lo stato della Chiesa davanti a qualunque minaccia...”
 “Ma con Monsignor Savelli nelle sue segrete...” prese a dire un altro prelato, spostando il peso da un piede all'altro: “Come possiamo...?”
 “Savelli verrà liberato non appena lei sarà sicura di avere il permesso scritto di governo sulle sue città. Quello che è successo a Faenza di certo le ha aperto gli occhi: i tempi sono troppo incerti per agire d'impulso!” ribatté Ascanio.
 Innocenzo VIII andò oltre, non riuscendo più a sentire cosa quei tre stavano barbottando, ma ormai  in lui si stava facendo solida la convinzione che quella suggerita da Ascanio Sforza era esattamente la strada da seguire.
 Forlì – e in misura minore anche Imola – era uno Stato di fondamentale importanza per Roma. Si trovava proprio sulla via Emilia, uno scudo per chiunque stesse arrivando da nord per invadere lo stato Vaticano...
 Borja gli aveva consigliato di attendere, prima di concedere i documenti di legittimazione di Ottaviano Riario. Ebbene, l'attesa stava per finire.

 Erano i primi giorni di luglio, le zanzare e l'afa rendevano le giornate lunghe e insostenibili e le notti irrespirabili e insonni.
 A Faenza la situazione si stava risolvendo come previsto, con una distensione tra Roma e Bologna e la pesante intercessione di Firenze, che si stava muovendo per scegliere alcuni membri del Consiglio degli Anziani, organo scelto come reggente di Astorre Manfredi. Sul futuro di Francesca Bentivoglio c'erano ancora molti dubbi, ma era pressoché certo che non avrebbe mai più avuto un ruolo nella vita del figlio.
 Caterina aveva ripreso con cautela le sue passeggiate nel mezzo di Forlì, senza, però, inoltrarsi troppo nelle strade più pericolose. Con il tempo sarebbe tornato tutto come prima, ma per il momento non era il caso di correre rischi inutili.
 Inoltre, uscire per fare due passi e sentire un po' cosa accadeva tra i forlivesi era un'ottima scusa per sottrarsi alla vita claustrofobica della rocca.
 Per prima cosa avrebbe voluto recarsi dal barbiere Bernardi, che le aveva reso un servizio impagabile durante i giorni della rivolta, ma per un motivo o per l'altro ritardava sempre di più il momento della visita.
 Al mercato, in chiesa e nella piazza aveva sentito più di un gruppo di pettegoli parlare di lei e difficilmente era riuscita a capire cosa stessero dicendo, perchè, appena la vedevano, tutti quanti la riconoscevano e cambiavano discorso con una rapidità impressionante.
 Tuttavia, per quelle poche cose che aveva carpito, l'argomento principale delle chiacchiere erano le visite di Antonio Maria Ordelaffi alla rocca e l'atteggiamento di Tommaso Feo nei suo confronti.
 Il fatto che l'Ordelaffi ormai fosse quasi di casa a Forlì era di dominio pubblico, quindi almeno su quello Caterina sapeva di non poterci far nulla, per il momento. Mentre per la questione del castellano, era evidente che qualcuno all'interno della rocca stava lasciando trapelare indiscrezioni sulla vita quotidiana a Ravaldino.
 In molti dicevano che il castellano Feo si comportava ormai come se la Contessa fosse roba sua, una sua proprietà e che più di una volta era stato visto parlare in sua presenza senza essere stato interpellato e prendere decisioni senza averla prima consultata.
 Quei pettegolezzi, sommati a quelli che prima l'avevano voluta come amante del suddetto castellano, la innervosivano parecchio, soprattutto perchè avevano un fondo di verità.
 Tommaso, forse in un eccesso di zelo, si sentiva in dovere di dare consigli e proporre soluzioni e lo faceva di continuo, specialmente quando non era stato espressamente richiesta la sua opinione.
 Bianca Landriani aveva cercato di calmare la sorella, quando l'aveva sentita dire che forse a Tommaso sarebbe stato utile cambiare un po' aria, diventando castellano di un'altra rocca, dicendole: “Non troveresti un uomo più valido in tutta la penisola italiana, nemmeno se passassi la vita a cercalo!”
 Così Caterina aveva lasciato perdere, alzando le spalle e sbuffando: “In effetti non saprei con chi sostituirlo, ma resta comunque una situazione sgradevole.”
 Anche in quel giorno di luglio tra Caterina e Tommaso c'erano stati degli attriti, nati da un episodio apparentemente privo di importanza.
 Caterina era appena rientrata alla rocca, dopo una giornata passata in mezzo ai forlivesi, e dopo pochi minuti si era imbattuta, sulle scale, in Giacomo Feo.
 Egli stava scendendo rapidamente al piano di sotto, con la solerzia di chi è appena stato richiamato all'ordine da un superiore particolarmente esigente, mentre Caterina stava salendo per andare a conferire con il castellano.
 Incrociandosi proprio sul gomito della scala, Caterina e Giacomo si erano quasi scontrati, riuscendo a non cadere per un puro caso.
 Si guardarono un momento e poi ognuno riprese ad andare per la sua strada, senza riuscire ad aprir bocca, anche solo per scusarsi dell'inconveniente.
 Caterina era arrivata in cima alle scale, dove aveva trovato Tommaso, visibilmente accaldato e indispettito. Sommando quel dettaglio alla fretta di Giacomo, Caterina comprese che tra i due doveva esserci appena stato un acceso scambio di battute.
 “Vi aspetto da parecchio.” disse Tommaso, con un certo piglio, fissando la sua signora, il suo collo era rosso, così come le guance: “Se pensavate di fare tanto tardi, avreste dovuto avvertirmi.”
 Caterina, che con la testa era ancora ferma a metà scala, alzò gli occhi sul suo castellano e rispose in tono secco: “Non sta a voi farmi questo genere di osservazioni.”
 Tommaso, stringendo i pugni lungo i fianchi, rispose, tra i denti: “Qualcuno dovrà pur farvi notare che state sbagliando.”
 Un lampo corse tra il castellano e la sua signora ed entrambi capirono che il confine che avrebbero passato con quel litigio sarebbe stato fatale al loro rapporto di reciproca stima, perciò soprassederono e si occuparono degli affari di Stato fino al calar del sole senza più nemmeno accennare all'accaduto.
 Mentre riguardavano i conti, però, Caterina non riuscì a impedire ai suoi occhi di cercare quelli del castellano, nel tentativo di capire quale fosse il tormento che lo portava a perdere così facilmente il controllo. Aveva imparato a considerare Tommaso un uomo equilibrato e ligio al dovere, dunque perchè mai aveva preso a comportarsi a quel modo?

 Ludovico Sforza faticava a riprendersi dalla notizia della morte del suo amico fraterno, ma gli affari dello Stato lo portavano a passare gran parte della sua giornata a concentrarsi su questo o quel problema pressante.
 Il caldo torrido dell'estate milanese lo stava sfiancando e, addirittura, gli toglieva spesso l'appetito, facendogli invidiare quello del nipote Gian Galeazzo che, per quanto malaticcio e svogliato, ingurgitava quantità incredibili di cibo e vino a ogni pasto.
 In quei giorni Ludovico si stava occupando soprattutto delle piantagioni progettate da Leonardo, il suo maestro di corte, e sugli effetti positivi che avrebbero avuto i nuovi metodi di irrigazione studiati proprio da quello strano uomo che arrivava da Vinci.
 Sempre in quel tribolatissimo giugno, le truppe sforzesche stavano dando battaglia a Genova e la famiglia dei Fregoso, che Ludovico pensava di aver comprato dando in sposa la nipote Chiara a Fregosino, restava ambiguamente neutrale, a tratti apertamente ostile da Milano, rendendo l'esito della campagna oltremodo incerto.
 Se solo Dio avesse concesso a Ludovico la centesima parte della capacità militare che aveva avuto suo padre, Francesco...!
 La questione, però, che più stava a cuore a Ludovico, che, pur volendo fare il Duca aveva sempre un cuore da agricoltore, era il progetto che Leonardo stava perfezionando per Vigevano.
 “Sfruttando la struttura costruita due anni fa – stava spiegando anche in quel momento il genio – possiamo benissimo posizionare qui e qui...” fece un ampio gesto per indicare due punti sulla piantina: “Gli arbusti con i gelsi che mi avete chiesto di introdurre...”
 Ludovico, ben felice di poter pensare a quel bucolico ambiente che qualcuno aveva cominciato a chiamare 'la Sforzesca', annuì e sorrise: “A Cecilia piaceranno sicuramente...”
 Leonardo fece un sorrisetto di circostanza, quasi infastidito da quel commento, secondo lui così inutile, e riprese: “Mentre qui in fondo sto pensando di far costruire ancora due canali per l'acqua...”
 Nell'indicare di nuovo la mappa, una ciocca di capelli coprì il viso del maestro e Ludovico si accorse solo in quel momento che la chioma di Leonardo era un po' più scura del solito.
 “Che avete fatto, per scurirvi i capelli, domine magister?” chiese, curioso.
 Leonardo si accigliò, contrariato dal non potersi prendere del tutto il merito di quel piccolo successo: “Si tratta di una mistura a base di mallo di noce. Mi fu consigliata qualche tempo fa da una mia conoscente.”
 Ludovico fece una piccola smorfia di ammirazione verso quella conoscente ignota e tornò a concentrarsi sul progetto del maestro Da Vinci.

 Nuvole nere e minacciose avevano preso ad addensarsi su Forlì già nel primo pomeriggio, smorzando solo in parte il caldo opprimente che non lasciava respiro da giorni.
 Caterina sperava con tutta se stessa che quelle nubi fossero davvero cariche di pioggia, perchè quell'afa protratta avrebbe potuto portare a un'epidemia di peste o di colera, e il suo Stato non poteva permettersi una simile calamità.
 Così, quando quella sera udì i primi tuoni, la Contessa si sentì incredibilmente felice. Aiutò gli uomini a mettere a riparo le attrezzature che stavano nel cortile e a sistemare bene le bestie e i pezzi di artiglieria più delicati. Erano precauzioni forse eccessive, ma perchè rischiare dei danni inutili per colpa di un misero fortunale?
 Mentre era impegnata a spostare al riparo tutte quelle cose, notò che tra gli uomini che si erano messi ad aiutare c'era anche Giacomo Feo.
 Non poteva certo tirarsi indietro da quel lavoro di fatica che, per altro, le piaceva anche, perciò andò avanti a spostare e mettere al riparo tutto quello che trovava, anche se, ogni volta che per caso passava accanto allo stalliere, sentiva il cuore sprofondarle nel petto e le gambe farsi insicure.
 Il mistero che si celava dietro quelle strane reazioni del suo corpo la spaventava e la intrigava allo stesso tempo e ogni giorno di più le risultava difficile ricacciare indietro quella curiosità tanto profonda quanto terrificante.
 Appena concluso il lavoro, Caterina si ritirò, sperando di non dover incontrare più quel giovane stalliere almeno fino al giorno seguente. Non le piaceva arrossire in pubblico e non voleva che qualcuno capisse che l'origine del suo imbarazzo era proprio la presenza di uno stalliere di diciassette anni.
 Mangiò in fretta e si ritirò nelle sue stanze molto prima del solito, convinta che stare da sola l'avrebbe aiutata a pensare ad altro.
 Ne avrebbe avuti, di pensieri, ma mentre le saette illuminavano il cielo e i tuoni squassavano l'aria, il chiodo fisso che le martellava la mente era solo uno.
 La pioggia cominciò a cadere d'improvviso, con uno scroscio che si fece in breve continuo e battente. Quella sera, per Caterina, sarebbe stato comunque difficile dormire, figuriamoci con tutto quel fracasso a farle compagnia.
 Senza riuscire più a trattenersi, si alzò dal letto, pensando che qualche passo l'avrebbe rilassata e l'odore della pioggia l'avrebbe messa di buon umore.
 Si rivestì in fretta, con abiti che di solito indossava per addestrarsi nel cortile, così, anche se si fosse bagnata con la pioggia per qualche imponderabile motivo, non avrebbe arrecato fastidio alle sue cameriere che avrebbero, con altri vestiti, dovuto accertarsi che il tessuto non si fosse rovinato o non fosse rimasto macchiato.
 Andò fino al piano terra e, senza pensare, i suoi piedi la portarono fino al portico. Guardò il cortile deserto, il cui terreno faticava ad amalgamarsi con la pioggia, tanto era secco. C'era molto buio, dato che le torce esterne erano tutte state spente dall'acquazzone e solo i lampi permettevano di vedere qualcosa.
 Proprio durante una di quelle occhiate di luce, Caterina intravide una sagoma in un angolo del cortile, qualcosa che assomigliava a un pezzo di armatura. Poteva lasciarlo lì dov'era, tanto ormai si era bagnato e comunque era solo ferraglia. Invece fece per mettersi a correre sotto la pioggia per andare a recuperarlo.
 Aveva appena fatto un paio di metri, quando un'altra ombra raggiunse la sagoma del pezzo di armatura, portando in salvo la ferraglia prima ancora che Caterina riuscisse a capire quel che stava accadendo.
 Una saetta caduta molto vicina alla rocca le permise di scorgere più dettagliatamente la figura che aveva recuperato l'armatura. Era Giacomo. Non poteva sbagliare.
 Non riuscendo a trattenersi, attraverso in poche falcate il cortile, inzuppandosi immediatamente fino al midollo.
 Giacomo doveva essere andato nell'armeria a riportare il pezzo di armatura, di certo. Così, con passo leggero, Caterina si mosse in quella direzione, tendendo l'orecchio, per quanto il temporale rendesse difficile sentire altro oltre allo scrosciare della pioggia e al rumoreggiare dei tuoni.
 Infine lo trovò. Stava lasciando l'armeria e le dava le spalle. Una torcia, vicino alle scale, lo illuminava appena, rendendolo quasi irriconoscibile. Caterina, però, ormai lo avrebbe riconosciuto anche al buio più totale.
 La giovane sentì una strana sete crescere dentro di lei, qualcosa che mai aveva provato e che non riusciva a comprendere. Era quello il desiderio di cui parlavano i poeti?
 Non lo sapeva. Sapeva solo che l'unica cosa che voleva in quel momento era placare quella sete inattesa e incomprensibile. Così continuò a camminare verso Giacomo, gli si avvicinò tanto silenziosamente che egli non si accorse della sua presenza.
 Quando non riuscì più a trattenersi, Caterina afferrò Giacomo per una manica, facendolo sussultare.
 Lo stalliere, completamente preso alla sprovvista, non riuscì a dire o fare nulla. Riconobbe subito la Contessa e così la sorpresa fu tale da trasformarlo per qualche secondo in una statua di marmo.
 Caterina ormai non aveva più un freno. Sentiva di essersi già spinta oltre il limite afferrandolo per la manica, dunque tanto valeva farsi coraggio e osare ancora di più.
 Prendendolo anche per l'altro braccio, lo tirò a sé, scoprendolo più alto di quanto le era sembrato fino a quella sera e si avvicinò a lui tanto da riuscire a sfiorargli le labbra con le sue.
 Giacomo sentì il fiato morirgli nel petto nel momento in cui Caterina aveva cominciato a baciarlo e, sentendola titubante, malgrado fosse stata lei a fare il primo passo, si affrettò a rassicurarla, ricambiando il bacio con maggior impeto e forza che mai.
 Caterina si lasciò guidare in quel gesto che appariva improvvisamente così naturale e facile, quando invece per anni era stato per lei solo una costrizione che suo marito le imponeva – molto raramente per fortuna – come una violenza tra le violenze.
 Quel bacio stava in parte placando quella sete maledetta che Caterina provava da giorni. Il profumo di quel ragazzo, così giovane e così attraente ai suoi occhi, la riempiva completamente. Giacomo sapeva di sole, di pioggia, si stalla, di polvere, di tutti quegli odori che Caterina aveva sempre amato, perchè erano il simbolo della libertà, delle giornate passate a calcare nei boschi o a tirare di spada nel cortile...
 Erano passati pochi secondi, o forse secoli interi, quando alla fine Caterina si decise a lasciarlo, scossa da un improvviso moto di paura.
 Era la prima volta che baciava un uomo solo perchè lo voleva.
 Guardò Giacomo, incrociando i suoi occhi scuri per il tempo di un lampo, e poi corse via.

   
 
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