Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: AlsoSprachVelociraptor    29/04/2016    1 recensioni
!!!*ATTENZIONE!* STORIA RISCRITTA E RIPUBBLICATA SU QUESTO PROFILO. NON LEGGETE QUESTA!! LEGGETE LA NUOVA VERSIONE!! (QUESTA VERSIONE è DATATA ED è QUI SOLO PER RICORDO)
Anno 2016. Shizuka Higashikata, la bambina invisibile, è cresciuta e vive una vita tranquilla con i suoi genitori Josuke e Okuyasu nella cittadina di Morioh, e nulla sembra poter andare storto nella sua monotona e quasi noiosa esistenza. Ma quattro anni dopo la sconfitta di Padre Pucci un nuovo, antico pericolo torna a disturbare la quiete della stirpe dei Joestar e dell'intero mondo, portandoli all'altro capo della Terra, nella sperduta cittadina italiana di La Bassa. Tra vecchie conoscenze e nuovi alleati, toccherà proprio a Shizuka debellare la minaccia che incombe sull'umanità. O almeno così crede.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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-Shizu, dove credi di andare?-
Le parole della zia Holly gelarono il sangue nelle vene a Shizuka, che era diventata invisibile per svignare Dalle grinfie di quei noiosi parenti e andare all’azione, come avevano fatto i suoi genitori. Ma sua zia l’aveva scoperta, maledizione. Tornò visibile e si parò davanti a lei, freddandola con uno sguardo gelido e cinico, degno di suo padre Josuke. Holly poteva giurare che fossero identici quei due, benchè i loro tratti fossero completamente diversi. C’era qualcosa che li accomunava, quel senso di gelo che trasmetteva la loro vicinanza, quella lontananza e quel distacco impossibili da superare.
-Vieni dalla zia- mugolò lei, picchiettando la mano nodosa sul sedile, cercando di superare quella sensazione di distacco. La ragazzina mora sbuffò e le si avvicinò, appoggiandosi alla carrozzeria del suv bianco su cui era seduta la donna, incrociando le braccia al petto e rimanendo a guardarla, con sguardo disinteressato e mente assente.
-Perché non giochi un po’ con Emporio?- la incitò Rosanna, tentando di sorriderle. Si sentiva sempre in soggezione quando si rapportava con i Joestar. I loro sguardi erano diversi, erano particolari e semplicemente unici. Shizuka abbassò la testa e si strinse tra le spalle, mugolando qualcosa in inglese.
-I’m eighteen, not a fucking kid.- sussurrò con un perfetto accento americano, tenendo gli occhi neri puntati sulle proprie All Star bianchissime e un tono pericolosamente freddo e serio. Rosanna si ritrasse istintivamente, ed Emporio fece lo stesso. Holly invece scoppiò a ridere, la sua voce cristallina sovrastata però da delle urla provenienti dalla scuola.
Tutti si voltarono verso l’istituto, da cui una voce fin troppo familiare giunse alle orecchie di tutti. –Shizu, questo non è tuo padre Josuke?- sussurrò sua zia, indicando la direzione da cui proveniva il suo caratteristico “DORARARA”.
Shizuka alzò le spalle e fece dietrofront, dirigendosi verso l’auto con cui era arrivata assieme ai genitori e agli zii, senza nessuna apparente reazione. -Non m’interessa.-
-Ma Shizu..- tentò Holly.
-Ho detto che non mi interessa.- ringhiò la ragazza mora, chiudendo la portella dell’auto nera dietro di sé.
Holly rimase a guardare la nipote con uno sguardo estremamente preoccupato. Non si comportava così di solito, che le prendeva? Si sentiva un tremendo peso sulle spalle, e poteva giurare che non fosse l’umidità. Era un senso di oppressione che veniva da dentro, se lo sentiva nelle ossa, nel cuore e in quella strana voglia che si tramandava nella famiglia Joestar. Con uno scatto per nulla adatto ad una donna della sua età balzò giù dall’auto e rincorse la nipote, aprendo la sua portella e rimanendo ad osservarla, preoccupata ma cercando di mantenere il sorriso.
Lei stava guardando davanti a sé, con sguardo torvo e straziato, mentre fissava il cruscotto davanti a lei e si teneva una mano sulla spalla, sotto la sciarpona del nonno.
-Mi fa male- disse lei, con un vocino triste e quasi trattenuto, indicando la cicatrice dietro al collo. Non era davvero disinteressata, realizzò Holly, era solo spaventata. E non voleva avere altre informazioni, non voleva stare peggio di così.
-Anche a me.- rispose Holly, passando le dita tremanti dietro al collo e toccandosi appena la voglia a stellina dolorante. Passò di nuovo lo sguardo sulla nipotina e cercò di sorriderle, più per tranquillizzarla che per altro, mentre Shizuka alzava lo sguardo nero come la pece ma spaventatissimo verso di lei. Dischiuse le labbra e fece per parlare, ma venne fermata prima che potesse anche solo articolare una parola.
-Sei preoccupata per i tuoi papà, vero?- la anticipò Holly. Shizuka rimase decisamente turbata da quella sua sveltezza e dal suo quasi predire le sue parole. –Come..?-
-Come ho fatto a prevedere la tua risposta? Diciamo che l’ho imparato da qualcuno- ridacchiò Holly, sistemandosi per bene sul sedile e spintonando da una parte la nipote, che dovette farle spazio. –Lo sento anche io.- sussurrò Holly, indicando la propria voglia sulla spalla.
Shizuka rimase a guardarla, sospirando pesantemente e scalciando un po’ a terra, contrariata. Quella voglia a forma di stella l’aveva sempre fatta sentire meno, un’estranea in quella famiglia, quella diversa e meno speciale di tutti.
–Io non ce l’ho…- sussurrò, con una nota di disprezzo e tristezza nella voce.
La mano gelida della zia sotto la sciarpa la fece quasi urlare, mentre Holly tastava la cicatrice dietro la spalla della nipote, con un sorrisone felice in viso. Shizuka rimase a guardarla, sconcertata, mentre cercava di tirarsi indietro dalle sue grinfie. –Oh no signorinella- disse lei, con un tono calmo e pacato, mentre continuava a tastare i punti sulla ferita purtroppo ancora fresca. –credo che questo sia un segno del destino. È nello stesso punto in cui tutti i Joestar hanno la voglia!-
Shizuka rimase a guardarla, decisamente a disagio da quel contatto fisico non voluto, rimanendo però ferma ad osservarla scettica e con i denti un po’ digrignati, in attesa di una qualsiasi reazione della zia. Era confusa e infastidita dalla situazione, non capiva cosa stesse succedendo, cosa c’entrasse la voglia con il combattere i vampiri, e perché proprio lei, proprio Shizuka, l’estranea della famiglia.
-Io credo nel destino, sai Shizu?-
-Destino?- chiese la più piccola, quasi interessandosi alle sue parole. –La pericolosa discendenza di coloro che hanno la voglia a forma di stella… Non ti ha mai raccontato nessuno della storia della famiglia Joestar?- Shizuka negò con forza e si sedette per bene sul sedile, gli occhi sgranati e uno sguardo serio ed interessato, fisso sugli occhi verdi e vivaci di Holly, che quasi brillavano per l’emozione. –Perfetto, allora te la racconto io! La storia inizia a Londra, nell’ottocento…-
                                                                                                                                                                            
Jolyne non sopportava sentire Josuke respirare così pesantemente. Sembrava davvero qualcosa di spiacevole. Ansimava a ogni sua lunga falcata, similmente ad un toro imbizzarrito che insegue tre banderuole rosse durante a una corrida. Galoppava tremendamente veloce, sbattendo le All Star leopardate sul pavimento dell’istituto come zoccoli sulla sabbia, scivolando e imprecando ad ogni curva, gli occhi di ghiaccio puntati sul numero scritto sulla schiena del boss. Quarantadue. Jolyne si chiese cosa fosse quel numero, che la ragazzina con gli occhialoni gialli portava scritto ovunque. L’aveva già sentito da suo zio e suo padre, ma non capì mai cosa fosse. Quarantadue, Forty-Two, Shi-Ni. 42 Era un numero che spaventava anche solo a vederlo, fermo sulla felpa rossa della ragazza che correva tranquillamente davanti a loro.
-Zio…- sussurrò Jolyne. Lui nemmeno la sentì, nella sua corsa folle dietro i tre. Purtroppo Jotaro aveva già alla figlia del carattere burbero del prozio, e di quel piccolo difetto caratteriale, di perdere le staffe. Jolyne, quando le fu raccontato cosa fece in quel tremendo 1999 non ci diede troppo peso: erano storielle, per lei, racconti lontani di parenti squilibrati con cui non avrebbe mai avuto a che fare. E invece eccola lì, fianco a fianco con un omone di due metri fuori controllo.
Dalla parte opposta, Zarathustra era davvero calma e tranquilla. Correva con la più estrema tranquillità, sicura di ciò che faceva. Come suo solito.
Ludovico e Piero correvano ai suoi lati, all’apparenza sicuri quanto lei. Sapevano che, assieme a lei, non dovevano temere niente. Eppure Ludovico aveva dei tremendi dubbi, a sentire le grida del tutto casuali dell’uomo dai capelli irti sulla testa, come se fossero davvero corna di una qualche sorta di animale pericoloso pronto a caricarli. –Boss- sussurrò Ludovico, con la sua solita nonchalance che non faceva altro che nascondere un grande senso di colpa per avere spinto quei Joestar a loro. Lei nemmeno si girò, acconsentì alla sua parola con un leggero cenno del capo, mentre Piero lo fissava con gli occhi sgranati e il viso madido di sudore freddo, terrorizzato. -dove–stiamo andando?-
-Sono lieta che tu abbia finalmente posto questa domanda, Ludovico.- rispose Zarathustra, non cambiando espressione e muovendo appena le labbra nel rispondere al moro. –Nella palestra sul retro della scuola.-
Alzò un braccio e da esso spuntò l’arto nero e meccanico di 42, con gli artigli già serrati a formare una sorta di pistola. Sparò un ago fuori dalla finestra e un altro contro al muro, sulla mappa della scuola, e continuò a correre in tutta tranquillità, senza proferir parola, sotto lo sguardo sconvolto dei compagni. Ludovico annuì mentre guardava il capo, avendo colto al volo il suo piano. Stava avvisando gli altri due gruppi di dirigersi verso la palestra della scuola. Geniale, non poteva definire Zarathustra in un altro modo. L’occhio destro della ragazza iniziò a brillare sotto gli occhialoni gialli a specchio, e l’ombra di Ludovico si allungò dietro ai suoi piedi, seguendo una figura nera pressochè uguale a lui.
Piero era l’ultimo, a chiudere la fila. Vedendo i compagni evocare lo stand non ci pensò due volte a tirare fuori il suo Seven Nation Army, ma una manata di Ludovico lo convinse ad aspettare. –Non ora, lo sai che il tuo stand deve essere estratto per ultimo.- lo ammonì il ragazzo moro, fulminandolo coi suoi occhi blu e freddi. Piero sbuffò sonoramente e prese a saltellare dietro di loro, perdendosi nei suoi pensieri. Perché stavano scappando? Non sarebbe stato molto più semplice farli fuori subito, mentre non c’era nessuno per i corridoi? La targhetta militare saltellava sul petto di Piero, che afferrò e strinse tra le dita per darsi forza, ogni volta che una missione sembrava troppo difficile per lui. Si voltò ad osservare i due e rimase a fissarli, quasi a studiarli. Avevano tratti simili, occhi luminosi e sguardi inquietantemente fieri e feroci. Erano belve, quelli che li stavano inseguendo. Ora che notava tatuaggi, piercing e cicatrici sui corpi degli inseguitori, però, dovette ricredersi sull’idea originaria di mammalucchi che si era fatto all’inizio: quei due erano pericolosi. Fin troppo.
-Boss…- tentò di dire Piero, senza essere ascoltato da nessuno. –Ludo! Boss!- riprovò, quasi urlandogli contro, preso dal panico.
-Che c’è?- sbottò Ludovico, l’unico a voltarsi nella sua direzione.
Piero biascicò qualcosa, con una voce fin troppo acuta mentre gesticolava vistosamente. –Non li avremo mica sottovalutati, vero?-
Ludovico alzò le spalle e gli rivolse una smorfia disinteressata, voltandosi di nuovo verso il loro aprifila. I timori di Piero si rivelarono fondati, nemmeno il boss aveva capito che non potevano permettersi di sottovalutare i Joestar. Forse Zarathustra aveva un altro piano, forse voleva semplicemente scappare e applicare la tattica di dirigersi alla palestra, era un mistero persino per i componenti della sua banda.
Piero fece per girarsi nella direzione dei due quanto sentì una folata di vento spostargli le lunghe ciocche viola. Un pugno azzurro di uno stand, legato ad un filo, era passato vicino a lui, diretto verso la schiena di Zarathustra.
-Boss!- gridò Piero, cercando di afferrare il pugno, senza successo. Lei si girò e, senza mutare in alcun modo la sua espressione, evocò di nuovo il braccio del suo stand, che tagliò il filo a cui era legato il braccio. Prese il pugno tra gli artigli neri di 42 e rimase ad osservarlo, notando che il pugno si stava stringendo, pronto a colpirla di nuovo.
-Ludovico- disse lei, indirizzando il mezzo braccio verso l’amico, che scattò in avanti tutto ad un tratto. Lui rise sottovoce e Black or White comparve davanti a lui, inghiottendo il pugno.
-Dove diavolo è andato!?- gridò Josuke, vedendo la scena. Jolyne negò con forza e si tenne il braccio sfilacciato e monco, sconvolta. –Lo sento, sta ancora colpendo… ma non so dove sia!-
Prima che entrambi potessero capire di cosa si trattasse, un forte pugno azzurrò colpì Josuke in pieno viso, che scivolò addosso alla nipote per il grande urto. Caddero entrambi a terra, e Jolyne poteva giurare di non aver mai sentito un peso tale sul suo corpo, almeno un quintale di prozio le era caduto addosso e a malapena riusciva a respirare. Con un calcio lo fece rotolare di lato, e lui si coricò di schiena sul freddo pavimento di marmo dell’istituto.
-Li abbiamo persi, cazzo!- gridò la ragazza, sbattendo il pugno appena tornato su una mattonella. L’uomo si alzò in piedi e, con tutta la calma del mondo, prese a sfregare le mani sui stretti jeans chiari. Ciò fece ancora più infuriare Jolyne, che scattò in piedi e quasi si avventò contro di lui, tirandogli il collo della maglietta. Lui la fulminò coi suoi occhi freddi e gli porse il palmo della mano destra, in attesa. –I capelli. Ce li hai?- le chiese. La ragazza rimase ad osservarlo, confusa. Annuì e sbatté i due o tre capelli viola che aveva preso al povero Piero, mentre il pugno si scagliava contro Zarathustra.
-Perché mi hai chiesto di strappargli dei capelli?-
-Vedrai- rispose lui, senza nemmeno degnarla di uno sguardo.
Josuke li strinse tra le dita e Crazy Diamond apparve alle sue spalle, tenendo tra le dita i capelli. Senza troppa delicatezza prese Jolyne per la vita e la strinse a sé, mentre lo stand rosa e azzurro colpiva i tre capelli.
-Tieniti stretta, andremo veloci.- furono le uniche parole dell’uomo. Jolyne non ebbe il coraggio di dire niente, se non di stringere la sua maglietta fucsia tra le dita e aggrapparsi con tutta la forza che aveva al prozio, sicura che sapesse quello che faceva. O almeno lo sperava.
Si staccarono con lentezza quasi straziante dal terreno e Jolyne rimase a guardare il pavimento che lentamente si muoveva sotto di lei, mentre Josuke, dal canto suo, si sentiva più vivo che mai. Quanti anni erano passati dall’ultima volta che l’aveva fatto? I due iniziarono a quasi volare dietro di loro, tra le urla terrorizzate di Jolyne e quelle felici e forse un po’ troppo emozionate di Josuke.
Quando i tre sentirono il chiasso che proveniva alle loro spalle, fu troppo tardi. Ormai erano sopra di loro, e il sorriso tirato e quasi malato di Josuke fulminò Zarathustra, la lasciarono sbalordita. Doveva agire, e subito.
L’unica pecca di 42 e di conseguenza della sua portatrice erano le azioni. Se lo stand si poteva accorgere di tutto, poteva scrutare ogni movimento, poteva vedere attraverso le cose, i suoi scatti non erano altrettanto veloci. Ormai il pugno dell’enorme Crazy Diamond era a meno di un metro dalla sua testa.
-Ora, Piero.- disse semplicemente.
La velocità del ragazzo dai capelli viola, però era la sua arma vincente. Ecco la motivazione con cui Zarathustra divideva i gruppi: le debolezze e i punti di forza di ognuno. Con un grido anche Piero si avventò contro Zarathustra, mettendosi in mezzo tra il pugno e il capo, mentre il suo stand si formava attorno al suo corpo. Un’armatura a pattern militare ricoprì il suo corpo e gli aggiunse un altro paio di braccia. Con le quattro mani che Seven Nation Army gli consentiva di avere afferrò il braccio dello stand e indirizzò il colpo al pavimento, che fece un forte boato. Le mattonelle si distrussero in mille pezzi, e si ricomposero in un ammasso solido informe. Il pugno di Crazy Diamond era ancora conficcato nel terreno quando Seven Nation Army sferrò un cazzotto dritto sul naso di Josuke, facendolo capitombolare a terra, colpendo il pavimento di schiena, mentre si teneva il naso gocciolante di sangue. Jolyne rimase a guardare la scena, quasi inerme, mentre Piero, con le sue quattro braccia e l’inumana forza che il suo stand gli permetteva di avere, prese la massa di cemento che un tempo erano mattonelle e gliela scagliò addosso. La ragazza dai capelli verdi e neri non poté fare altro che evocare Stone Free e cercare di difendersi, prendendo però il masso in pieno. Cadde a terra similmente al prozio e si strinse il polso rotto cercando di parare il colpo, incredula che dei ragazzini potessero tanto, mentre i tre rimasero ad osservarli. I due Joestar poterono, anche solo per un istante, scorgere qualcosa di strano negli occhi dei due ragazzi. Piero, da sotto l’elmo che gli copriva mezzo viso, li guardava sconcertato e disperato, e Ludovico era rimasto a bocca aperta. Zarathustra preferì non girarsi e continuare a correre, anche se si sentiva quasi in trappola.
Non poteva fare altro che correre.
-Saliamo le scale, andiamo sul terrazzo.- sussurrò ai suoi due sottoposti, che impiegarono qualche istante a metabolizzare i suoi ordini. Annuirono entrambi e la seguirono, senza fiatare.
Piero, ora ricoperto dal suo stand, prese a saltare per il corridoio, rimanendo appeso alle pareti, ora saltellando sulla finestra, ora correndo a testa in giù sul soffitto. Usare il suo stand era il più grande divertimento, l’unico che avesse al momento, tanto per distrarsi da quello che sembrava un grande incubo.
Salirono una rampa di scale, ognuno a modo suo. Piero corse sul muro, Zarathustra usò la coda del proprio stand per darsi una spinta e saltare tutti i gradini in una sola volta, e Ludovico semplicemente usò il teletrasporto di Black or White. In nemmeno un istante i tre avevano già scavalcato la rampa di scale, e si stavano dirigendo verso la terrazza del terzo piano.
I due Joestar si guardarono negli occhi. Josuke non ebbe il coraggio di dire niente, si tastò il naso e cercò di raddrizzarlo come meglio poteva al momento mentre teneva la mano della pronipote, guarendole il polso spezzato. Si rialzò in piedi a fatica e, senza nemmeno aspettare Jolyne, corse dietro ai tre ragazzi.
Jolyne rimase ad osservarlo, estremamente combattuta. Jotaro aveva ragione, quel Josuke era… bizzarro, anche per quella famiglia fin troppo fuori dalla norma. Cercò di ricacciare indietro quella orribile sensazione che aveva avuto nei suoi confronti e prese a seguirlo di corsa, affiancandoglisi e correndo assieme a lui, cercando di fare buon viso a cattivo gioco. Anche se sapeva che il suo istinto non l’avrebbe mai tradita.
I Joestar al loro inseguimento non poterono fare altro che salire due a due i gradini, perdendo dei secondi preziosi e rimanendo metri indietro rispetto alla posizione dei tre ragazzini, facendo almeno altre due rampe di scale prima di fermarsi di colpo, fermi davanti ad una vetrata. Erano al terzo piano dell’edificio, e davanti loro, oltre alla finestra-vetrata, c’era l’enorme terrazzo, quello che Zarathustra cercava. Rimase ferma, quasi in attesa dei loro inseguitori, mentre Ludovico e Piero si agitavano al suo fianco. Perché non si muoveva? Perché non scappava?
Piero fece per aggredire il suo capo ma Ludovico lo fermò con una manata sull’elmo. Il ragazzo si lamentò e si tirò indietro, rimanendo ad osservare l’amico che l’aveva appena colpito, incredulo. Non voleva scappare, non voleva anche lui seminare quei Joestar maledetti? Perché lo stava fermando?
-Abbi fiducia, Piero.- lo ammonì Zarathustra, in attesa dello scalpitio di tacchi e suole di scarpe che arrivava nella loro direzione. Sia Ludovico che Piero erano tesi, pronti a scattare e a scappare ancora, come legati da una catena al piede che li imprigionava lì, in attesa della lama della ghigliottina che erano i Joestar sul loro collo. Zarathustra, tuttavia, era calma. Sapeva cosa stava facendo, sapeva che sarebbe tutto andato al meglio, e che il suo piano sarebbe più che funzionato. Aveva avuto abbastanza tempo per studiarli, e capire come ragionavano. Era pronta ad una piccola rivincita, ad un contrattacco per indebolirli un po’. Dall’angolo del corridoio apparvero quelle altissime figure che nessuno di loro avrebbe voluto vedere. Zarathustra e Ludovico erano entrambi sul metro e sessanta, e Piero arrivava a malapena al metro e quarantotto. Erano dei nani, in confronto ai due che gli si pararono davanti.
Josuke si passò una mano sul labbro superiore e si pulì dal sangue che sgorgava dal grosso naso rotto e sanguinante, gli occhi puntati sui tre con uno sguardo di ghiaccio, freddo e duro come mai. Jolyne rimase un po’ più indietro rispetto al prozio, quasi nascosta dietro al massiccio e completamente tatuato braccio sinistro di Josuke, pieno di escoriazioni violacee e tagli rossi.
Nessuno dei due osava muoversi. Jolyne si rimboccò le larghe maniche del vestito a ragnatele che si era messa per l’occasione, nuovo di negozio, e ora tutto strappato e sporco per le diverse cadute. Di certo non si sarebbe aspettata così tanta resistenza da quei ragazzini.
Alzò quasi per rassicurarsi un po’ lo sguardo sul viso dello zio, non trovando nulla di rassicurante, tuttavia. I capelli perfettamente gellati erano ormai andati, e ora diverse ciocche schizzavano in su, ritte sulla testa, in maniera decisamente inquietante. Si sentiva scoppiare.
Sapeva che, presto o tardi, avrebbe perso la pazienza con quei tre. Non era mai stato un tipo paziente, e, dopo tre cadute, il naso rotto, e i capelli spettinati, era ancora meno calmo e ragionevole.
Fece un passo in avanti e Zarathustra ne fece uno indietro, quasi a sfida. Un’altra ciocca di capelli rizzò verso l’alto a Josuke, e Jolyne iniziò a temere davvero non solo per la riuscita della missione, ma della sua stessa vita.
-Ludovico, passiamo la vetrata al mio tre.- sussurrò Zarathustra all’amico vestito in giacca e cravatta, che annuì. Black or White comparve ai suoi piedi, e si aggrappò al vetro dietro di loro. Piero prese a giocare con le ventose sui suoi palmi per sfogare l’ansia del momento.
-Uno...- sussurrò, allungando una mano verso ai Joestar, i loro occhi chiari fissi sulla sua mano guantata.
-…due…- e alzò un dito, muovendolo un po’ per invitarli nella loro direzione. I due non si fecero di sicuro scappare l’invito, e scattarono entrambi verso di loro, correndo come forsennati, sicuri di averli finalmente in pugno.
-…e tre.- concluse Zarathustra, con un tono fermo e freddo. Si cacciò le mani in tasca e rimase a guardarli, facendo un passo indietro. Black or White ricoprì completamente la porta vetrata alle loro spalle, e tutti e tre passarono il vetro come se fossero fantasmi, passandoci in mezzo grazie ai poteri di teletrasporto dello stand di Ludovico, che si ritrasse subito dopo il loro passaggio. Il gruppetto della Banda era finalmente sul terrazzo, ampio e deserto, che dava sul tetto della palestra.
Jolyne e Josuke, invece, non si aspettavano di trovarsi davanti una vetrata, e ci andarono a sbattere come allocchi. Caddero di nuovo all’indietro e sul vetro si formò una grossa crepa, che fece tremare dalla paura sia Ludovico che Piero. Solo il correrci incontro aveva rotto il vetro spesso diversi centimetri, figurarsi i loro attacchi fisici che potenza potrebbero avere pensò Ludovico, ormai perso nel pessimismo. Si fidava sempre di Zarathustra, ma questo piano gli sembrava fin troppo pericoloso e suicida anche per lei.
Josuke ruppe il vetro in mille pezzi con i pugni del suo Crazy Diamond ed entrambi passarono la vetrata, che si ricompose pochi istanti dopo. Jolyne estrasse il suo Stone Free alle sue spalle e lo stesso fece Josuke con Crazy D.
Erano faccia a faccia, ora.
-Ludovico, Piero, occupatevi della ragazza. Io penso a lui.-
Ludovico non ci vide più e afferrò l’amica per un polso, strattonandola verso di lui, gli occhi blu pieni di preoccupazione. –Zara, non puoi..-
-Non intendo combattere contro di lui, Ludovico.- lo fermò lei, strattonando il braccio per divincolarsi dalla sua presa. Sul suo viso non c’era alcun segno di preoccupazione o paura, tuttavia. Anzi, Ludovico poteva scorgere quasi divertimento.
-Intendi fargli quello..?-
-Certamente.-
-Ma perché?! Perché ora? E perché lui!-
In tutta risposta il boss alzò le spalle e si separò un po’ dai due amici, creando così due gruppi ben distinti. –Perché è l’unico modo.-
Il ragazzo moro annuì e torno ad osservare i due adulti davanti a loro, ancora più teso di prima.
-Il boss vuole davvero fare quello?- gridò Piero con la sua solita voce fin troppo alta, picchiettandosi il dito sull’elmo, con un sorrisone sul viso mezzo coperto dallo stand che lo avvolgeva.- Sarà fighissimo!!-
Dall’altra parte, Jolyne era così tesa da non riuscire nemmeno a muoversi. Dovevano davvero scontrarsi contro di loro. In prigione, nel 2012, ne aveva visti parecchi di stand, mortali e non. Ne aveva visti anche alcuni molto peggiori di quelli dei tre ragazzini, poteri molto più poderosi dei loro, ma mai, mai aveva visto portatori tanto esperti nell’usare i propri stand. Erano specializzati, efficienti e preparati. Al contrario di loro due.
Entrambi si fiondarono verso di loro, senza pensare davvero a quello che stavano facendo, come al solito. Entrambi erano testardi e, anche se per nulla stupidi, spesso non pensavano. Il secondo passo di Jolyne finì nel vuoto, e, presa dal panico, cadde in quella che sembrava una buca nel pavimento di cemento della terrazza, un buco nero e senza fine. Josuke non fece in tempo ad afferrarle un braccio che una spina, lunga almeno una decina di centimetri, gli si conficcò nella coscia. Non in un punto qualsiasi della coscia destra, ma esattamente in corrispondenza della brutta cicatrice causata dallo scontro contro Kira, diciassette anni prima. Quando Kira riuscì a far scoppiare la rampa di scale di legno su cui un allora sedicenne Josuke si trovava, un asse si conficcò nella sua gamba, penetrandola da parte a parte. Da allora ogni volta che corre troppo e sforza quella gamba malridotta sente dolere i tendini ancora lacerati in quel punto tirare e dolorare, e la gamba perdere man mano sensibilità. Con quella spina conficcata e i delicati tendini scoperti in quel punto stimolati da un’intensa scarica elettrica, la gamba smise completamente di rispondere ai comandi, e cadde a terra a peso morto. Si rialzò il più velocemente possibile e si girò di schiena, rimanendo seduto sul cemento della terrazza, la gamba destra ancora scossa da forti tremiti mentre cercava in tutti i modi di estrarre la spina dalla propria carne, che però si smaterializzò prima che potesse anche solo toccarla.
Zarathustra si parò davanti a lui, con una enorme figura nera alle sue spalle.
Aveva una forma tra l’umanoide robotico e il rettile, la pelle nera e lucida. Era ritto su due lunghe zampe da uccello, e le lunghe braccia erano allungate nella direzione di Josuke, i tre artigli sulla mano che si illuminavano a momenti di una forte luce gialla e di scariche elettriche attorno ad essi, mentre la lunga coda nera e piene di spine sbatteva a terra. Quattro lunghe spine alla fine della coda prendevano la forma di “XLII”, mentre sul torso una scritta gialla fluorescente recitava il numero 42. La testa era contornata da sei lunghe corna, anch’esse illuminate a scatti da scariche elettriche, con un unico, enorme occhio rosso al centro del viso e diversi segni sotto ad essi, quasi a formare un inquietante sorriso fosforescente.
Quello doveva essere 42 nella sua forma completa, pensò Josuke mentre cercava di riprendere sensibilità nella gamba ferita.
42 prese a girargli attorno, appoggiando gli artigli delle zampe posteriori sul cemento, mentre faceva ciondolare la lunga coda fin troppo vicino al corpo del povero Josuke. Lui odiava i rettili, e trovarsene uno come avversario non migliorava la situazione. Nella paura generale notò però che lo stand non volava, bensì camminava. Doveva essere uno di quegli stand incapaci di fluttuare, e inutili nel combattimento fisico e ravvicinato.
Questo era un punto a favore per Josuke, dato che il suo Crazy Diamond non poteva allontanarsi da lui per più di un metro. Il problema era avvicinarsi a lei.
La gamba riprese un po’ di sensibilità e, mentre cercava di alzarsi in piedi, tentò un attacco a sorpresa sullo stand avversario che ancora gli gironzolava attorno. Crazy Diamond sferrò un pugno in direzione di 42, che però non sembrò per nulla sorpreso. Alzò un braccio e con i lunghi artigli si conficcarono nel palmo dello stand rosa e azzurro, causando alla mano di Josuke di prendere a sanguinare copiosamente. La coda di 42 scattò e colpì i suoi polpacci, e l’uomo cadde di nuovo a terra.
Lo stand nero scappò dietro a Zarathustra, che era rimasta ad osservare la scena senza fiatare né muoversi. Era ad almeno tre metri da lui, e si teneva bene alla larga dal raggio d’azione del temibile Crazy Diamond, che aveva avuto modo di studiare sia alla Città della Moda che in quel breve inseguimento.
-Josuke Higashikata. Nato a Morioh il venti giugno dell’83. È corretto?- chiese lei, con tono tremendamente piatto e neutro. Josuke si irrigidì ma tentò di mantenere la calma, sedendosi a gambe incrociate sul pavimento ruvido della terrazza. Non poteva evidentemente fare altro.
Annuì e un sorrisetto per nulla felice si formò sulle sue labbra livide e sanguinanti. –La pronuncia corretta è “Jos’ke”. La “u” è muta.- le disse. Se dovevano giocare, beh, avrebbero giocato in due.
Il Boss non sembrò avere alcuna reazione, e continuò il suo monologo.
-Ti credi furbo… ma sei solo un bastardo. Figlio illegittimo di Joseph Joestar, per questo non hai il cognome di tuo padre, anche se, in effetti, il genoma è quello. Non credo ti sopportino molto a casa Joestar, non è così? Essere figlio illegittimo, essere così diverso da tutti gli altri… devi sentirti così a disagio… credo sia per questo che vai conciato in questa maniera assurda, Higashikata, anche essendo un prestigioso dottore e un rispettabile marito e padre di famiglia. Per non parlare poi del tuo… particolare matrimonio. Devono vederti male in città, mh? Di coppie del genere non se ne vedono molte in una cittadina tradizionalista come Morioh-cho…-
Josuke sgranò gli occhi, incredulo. Quella maledetta bambina stava proferendo parole che Josuke avrebbe preferito mantenere sempre nascoste, pensieri che ovviamente ha avuto, e che non vorrebbe più sentire, né dalla voce dei suoi pensieri, né dalla voce piatta e calma della bassese davanti a lui.
Si irrigidì e abbassò la testa, incredulo delle sue parole, iniziando a respirare a fatica dalla rabbia e dal nervosismo. Ansimava e sbuffava aria dal naso, quasi come una bestia imbizzarrita, i muscoli tesi e gonfi sotto il tessuto leggero della maglietta sporca di sangue e strappata dalle varie cadute.
-Ripetilo, stronza.-
-Ripetere cosa?- disse lei, passando da una gamba all’altra, in attesa.
-Ripeti le puttanate che hai detto, e ti spacco la faccia!- gridò Josuke, fuori di sé, alzandosi con tutta la forza che aveva e avventandosi su di lei, il suo enorme stand alle spalle, già pronto a colpirla. Zarathustra tentò di proteggersi, richiamando il proprio stand attorno a lei, il corpo nero pieno di spine irte. Crazy Diamond non si fece di certo scoraggiare dai lunghi aghi sul corpo dello stand nero, e gli piazzò a malapena due o tre deboli ganci, per poi ritirarsi dolorante, mentre Josuke si guardava le mani grondanti di sangue. Le spine di almeno cinque centimetri dello stand gli si erano piantate nelle nocche e nel palmo della mano, e ora sanguinava copiosamente. 42 e Zarathustra erano caduti a terra per i forti colpi ricevuti, ma il Boss tentò di rialzarsi come se nulla fosse, anche gli occhialoni avevano una vistosa crepa sulla visiera e il viso era presente qualche livido ancora rosso. Si portò una mano sulla schiena dolorante per i pugni dello stand rosa e azzurro e maledisse sottovoce in dialetto bassese quell’uomo, che era addirittura riuscito a colpirla e a farle pressoché male. Già lo odiava.
Retrocedette un po’ mentre continuava ad osservare ogni suo movimento, guardandosi intorno con un po’ di timore mentre ritirava il proprio stand, e sotto gli occhialoni rotti una luce rossa tornava a formarsi.
Se solo Josuke fosse stato lucido, avrebbe potuto intuire che Zarathustra non poteva usare il suo occhio se 42 era evocato in forma fisica, ma tutto ciò che l’uomo riusciva a pensare al momento era la scelta dell’oggetto a cui fondere quella ragazzina che aveva osato mancargli di rispetto e offenderlo in tal modo, benché fossero solo sentenze oggettive. Josuke non aveva mai sopportato l’oggettività, come stavano davvero le cose. Fingere che andasse tutto bene era più che sufficiente per vivere una vita tranquilla.
Senza pensarci gli corse incontro, col suo stand alle spalle, gridando con una voce più da animale inferocito che da caporeparto di un ospedale, e questa volta Zarathustra ebbe una reazione alle sue azioni. Prese a correre, seriamente questa volta, più veloce che poteva, avanzando a grandi falcate attraverso tutta la terrazza balcone che circondava interamente il terzo piano dell’edificio scolastico, fermandosi tutto ad un tratto. Portò due dita alle labbra e lanciò un forte fischio, e pochi istanti dopo Ludovico e Piero sbucarono fuori dall’angolo opposto da cui era arrivata lei, inseguiti prontamente da una escoriata e dolorante Jolyne.
Dopo essere caduta nell’ombra, venne sputata fuori al lato opposto della terrazza, davanti a quei due ragazzini. Dopo averli osservati un po’, Jolyne arrivò alla conclusione che non doveva temere di loro. Erano dei semplici bambini, con degli stand nemmeno così micidiali: un’ombra che trasporta e un completo che provvede a dare due braccia in più al nanerottolo di nemmeno un metro e cinquanta, che per quanto ha capito dalle urla dei compagni si chiama Piero. Estrasse con tutta calma il suo Stone Free e si incamminò lentamente verso di loro, ridacchiando mentre si sgranchiva le nocche.
-Se vi spostate, prometto di non farvi del male!-
Non fece in tempo a fare nemmeno tre passi che il ragazzo avvolto dallo stand dalle quattro braccia si buttò nell’ombra, che prese a vorticare attorno ai suoi piedi con furia. Jolyne rimase immobile, spaventata, mentre i quattro pugni di Seven Nation Army si scagliavano verso le sue gambe, colpendole ripetutamente e con violenza. Jolyne cadde a terra come un sacco di patate, senza riuscire nemmeno a gridare. Era sconvolta dalla loro velocità e coordinazione, e non poté fare altro che tirarsi indietro, rannicchiandosi contro al muro e sperando vivamente che quei due se ne fossero andati. Ma lo sapeva fin troppo bene che la stavano osservando, aspettando un suo minimo movimento. Fece per alzarsi e con la coda dell’occhio osservò dietro di sé, la propria ombra. Era fin troppo scura e dalle linee quasi sagomate per essere la sua vera ombra. Stone Free colpì con violenza Black or White, ma le nocche dello stand colpirono il ruvido cemento della parete. Non poteva colpirlo fisicamente, e Jolyne era nel panico. Come avrebbe fatto a sconfiggerli?
Dall’ombra saltò ancora fuori Piero, pronto a colpirla di nuovo. Stone Free fece appena in tempo a pararsi con gli avambracci, prima di srotolarsi sotto le nocche di Seven Nation Army. Piero urlò dalla gioia, pensando di avere distrutto lo stand avversario, ma pochi secondi dopo il sorrisone sul suo viso si trasformò in una smorfia di terrore. I fili si attorcigliarono attorno ai suoi quattro polsi, legandoli saldamente e tirandolo fuori dall’ombra con forza, strattonandolo all’esterno. Un braccio di Stone Free era attorcigliato attorno ai suoi polsi, ma l’altro pugno era ancora integro e solido. Con un forte “ORA” gli colpì la testa con un veloce pugno, dritto sul viso, facendo crepare l’elmo e sputare sangue a Piero, che tentò di divincolarsi inutilmente dalla sua presa. Jolyne, sicura di avere vinto, caricò un altro colpo, senza però badare all’ombra che si era spostata. Con un grido disperato Ludovico saltò fuori dall’ombra, scivolando di proposito a terra e prendendo un profondo respiro. La gamba destra, sollevata, venne ricoperta da scariche elettriche.
-Sidekick overdrive!- gridò lui, colpendo Jolyne sullo stinco. La ragazza cacciò un forte urlo e si accasciò a terra, dolorante, sicura di non essere mai stata colpita con così tanta forza nella sua intera vita. Piero venne liberato dalle spire di Stone Free e Ludovico riprese a respirare normalmente, facendo scomparire le Onde Concentriche di cui si era ricoperto la gamba. Un forte fischio attirò la loro attenzione, e Ludovico capì al volo che quella doveva essere Zarathustra che li stava chiamando. Afferrò l’amico per un braccio e iniziò a correre verso l’angolo che separava loro dalla palestra in cui Zarathustra aveva detto loro di ritrovarsi, girando l’angolo di corsa e trovandosela davanti più trafelata del solito, inseguita dal grande e grosso Josuke, contro la quale si era appena battuta. I tre erano in trappola tra i due Joestar, tra Josuke che avanzava a passi pesanti verso di loro, sbuffando imbestialito, e Jolyne, dietro di loro, coi pugni serrati e voglia di vendetta.
Zarathustra si mise le mani nella tasca della felpa e abbassò lo sguardo sulla palestra scolastica, l’edificio a due piani che si stagliava oltre quella balconata. La scuola era a tre piani, e la palestra si trovava sotto di loro. Con un salto sarebbero probabilmente riusciti a saltare sul tetto vetrato, e quella era l’esatta idea del Boss. Con un cenno del capo indicò agli altri di saltare e, tutti e tre assieme in un inquietante sincronismo scattarono indietro, saltando sulla ringhiera e cadendo giù dall’alto edificio. I Joestar, vedendoli compiere un atto suicida del genere gridarono disperati e spaventati all’idea di aver fallito la loro missione e si sporsero entrambi dalla ringhiera, osservando sconcertati quello che stavano davvero facendo i tre. Erano saltati sulla palestra.
Ludovico estrasse il suo Black or White e una grossa ombra circolare si formò sopra alla vetrata del tetto della palestra, facendo così che potessero passare il vetro senza romperlo. L’ombra si materializzò sulla superficie dell’acqua e i tre non toccarono nemmeno la piscina, perché furono in un battibaleno trasportati a bordo piscina, all’altro lato in cui erano i Joestar, tra gli altri componenti della Banda. Zarathustra si accostò a Regina, concentrata sulla superficie liscia dell’acqua della piscina. –È tutto pronto?- le disse. La ragazza castana annuì, sfregando il guanto blu di lana speciale sulla propria guancia umida di lacrime, con un’espressione seria e concentrata.
Nel frattempo, ancora sulla terrazza, Josuke e Jolyne non se lo fecero ripetere due volte, e saltarono a loro volta. I pugni dei due stand ruppero la vetrata, e notarono che sotto di loro era presente una grossa piscina. Qualche persona era sul bordo, ai due angoli opposti, e Josuke li guardò di sfuggita, notando un viso fin troppo familiare.
-Jojo?!- gridò Okuyasu, sul bordo piscina, mentre osservava il marito cadere dall’alto, arrivato da chissà dove. Non fece in tempo a rispondere alla chiamata che cadde di schiena nella piscina assieme alla pronipote, schizzando Okuyasu, Jotaro e tutti i loro compagni d’acqua gelida, quasi ghiacciata.






They got one eye got watching you, 
one eye on what you do,
so be careful what is you're triyng to do.
Major Minus, Coldplay (Mylo Xyloto, 2011)
 
Note dell’autrice
CIAO A TUTTI!!! È da un po’ che non aggiorno eh?
Purtroppo la scuola e i vari problemi mi stanno uccidendo in questi ultimi mesi. Aggiornerò pochissimo… siate pazienti fino a luglio, ve ne prego! Prometto che da luglio (beh, se gli esami vanno bene!) aggiornerò con molta MOLTA più frequenza. Per questi mesi dovete aspettare e sperare che io riesca ad aggiornare! Non sapete nemmeno quanta voglia io abbia di continuare…
Tornando a noi, finalmente sono stati mostrati gli ultimi componenti della banda, ovvero Piero e il suo Seven Nation Army, Ludovico e il suo stand già noto Black or White e Zarathustra, con finalmente 42 in forma intera! Cosa avrà in mente il Boss? Come mai li ha fatti riunire tutti nella palestra?
(e Holly è una bellissima zia. W Holly.)
…dovrete aspettare il capitolo 15 per saperlo! Sperando riesca a scriverlo velocemente…
Ora scusatemi, devo andarmi a vedere la puntata 5 di DiU. E piangere un po’ su Keicho.
Ciao a tutti! Al prossimo capitolo!
   
 
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