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Autore: Lala96    30/04/2016    1 recensioni
Lalage, giovanissima promessa della musica classica, a seguito di una serie di eventi dolorosi e di fallimenti professionali si trasferisce dalla capitale francese a Aix en Provence, dove si ritrova a vivere con la bislacca zia materna. Tormentata da dolorosi ricordi ma tenace, troverà ad attenderla persone, ragazzi giovani come lei, che l’aiuteranno a ritrovare l’amore mai scomparso per la musica. E le daranno il coraggio di affacciarsi investigando negli abissi della Storia, alla ricerca dell’amore perduto di sua nonna…
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Il sole faceva capolino a fatica attraverso le tende azzurre del bagno, contro le quali il vento furioso di dicembre si schiantava con inaudita ferocia. In quei giorni, Aix en Provence sembrava un luminosa e animata galleria del vento, un Maestrale insolente che si abbatteva  nelle strade e negli androni, che si insinuava, serpente ghiacciato, sotto i cappotti. Lalage alzò il viso umido di acqua tiepida, e si guardò nello specchio sopra il lavandino. Si era sempre stupita di essere considerata una bella bambina e poi una bella ragazza. Quando andavano alle medie, reputava  Laety infinitamente più carina di lei. Guardandosi allo specchio quella mattina le tornò tutto in mente. Studiò a lungo il suo profilo. Aveva il viso magro, così come tutto il suo corpo, il mento tondo, le guance leggermente incavate. Il petto era appena pronunciato, e in generale la sua magrezza le conferiva un’aria stanca. Solo ultimamente aveva ricominciato a prendere peso. Il naso era sottile e dritto sul setto, ma alla base era cicciottello, a patata, e non le piaceva. Lo avrebbe preferito come quello di suo padre, un po’ “alla greca”. Gli occhi erano belli, azzurro cielo, ma li trovava troppo vicini tra loro. Le sopracciglia erano sempre state un dono del cielo, perché diversamente da altre ragazze non aveva mai dovuto ricorrere alle pinzette. Aveva le labbra grandi, ma non disegnate. I capelli costituivano per lei oggetto di orgoglio, anche se non era mai stata vanitosa: color mogano, morbidi e lucenti. Ma il taglio che portava, così a metà tra le spalle e il collo, le dava l’aspetto di una vecchietta. Infine, si guardò le mani. Affusolate, magre, “da violinista”, come diceva sempre la mamma- anche se Mozart, che pure era stato anche violinista,  aveva invece mani paffute e grandi. Quasi le facevano impressione.  Nel complesso dava l’impressione di poter essere una ragazza carina, se solo non avesse avuto quell’espressione selvaggia e allo stesso tempo tristemente ironica, e se avesse avuto qualche chilo in più. Il vento corse a bussare ancora alla sua finestra, impetuoso, e lei, lasciando perdere ogni cosa si asciugò la faccia nell’asciugamano. La zia stava versando in quel momento qualcosa nella tazza da colazione. Cioccolata. Ancora. Lalage alzò gli occhi al cielo. “Zia, mi serve CAFFE’” “Alla tua età non fa bene. Dai retta alla zia tua”. Sospirando, Lalage si sedette e iniziò a sorbire la sua colazione. “Se non ti sbrighi arriverai in ritardo” “Sì zia” e posò la tazza vuota sul tavolo. “C’è qualche lettera…?”. La zia la guardò e sorrise dolcemente. “Ancora niente tesoro”. Lalage abbassò lo sguardo ma cercò di sorridere. “Fa niente, arriverà. Ora però devo correre” e preso il cappotto salutò sua zia dalla porta, tenendo lo zaino tra le cosce mentre si sistemava la sciarpa. Scesa sul marciapiede una sferzata di maestrale rischiò di portarle via la cartella. Iniziò a correre giù dalla discesa accanto ai Jardins d’Albertas, percorrendo tutto il quartiere di Mule fino a incontrare quello di Saint Anne. Il vento soffiava ora alle sue spalle e la sollevava quasi, tanto che quando saltò i tre gradini davanti alla latteria per poco non perdette l’equilibrio a causa di una folata. Finalmente vide una piccola macchia verde poco distante: il retro della serra. Aggirando il muro di cinta di mattoni rossi si ritrovò finalmente davanti all’entrata, racchiusa tra le inferiate verdi. Prese un secondo fiato, vedendo che davanti al portone c’era ancora la solita folla di studenti che aspettavano che si aprissero le porte. Il cielo spazzato dal vento a tratti rivelava un cuore azzurro splendente. Ken starà guardando lo stesso cielo? si chiese, per poi pentirsene subito quando una stretta di malinconia le soffocò il cuore.

Ken era venuto a salutarla, quella sera, e la zia aveva preparato dei waffles. Come al solito non aveva smesso un picosecondo di ciarlare, allegra e spensierata, e aveva rischiato di mandare due volte a fuoco la cucina perché chiacchierando si era dimenticata tutto sul fuoco. Ma Ken e la nipote non avevano voglia di festeggiare. “Quando parti?”chiese lei finalmente, dopo che erano stati in silenzio senza nemmeno guardarsi per mezz’ora buona. “Domani alle dieci ho il treno”. Lalage alzò appena gli occhi. “Posso venire a salutarti”.Ken si soffiò il naso e scosse la testa. “Sarebbe ancora più triste. Sono venuto stasera proprio per questo”. Lalage trattenne le lacrime mentre il silenzio rimpiombava su di loro. “Ken, guardami”. Lui aveva alzato la testa. Aveva le lenti appannate e umide. “Voglio che tu mi scriva, ok? Per piacere. Scrivimi almeno una volta alla settimana. Sarebbe meraviglioso, e poi io farei lo stesso. E scrivimi quando arrivi”. Ken sorrise e annuì “Contaci”. Si sorrisero sollevati. Quella sera avevano cercato di divertirsi. Avevano guardato un film comico e mangiato waffles fatti in casa, sforzandosi di ridere. Ma quando Ken la salutò dalla strada e lei chiuse la finestra da dove si era sbracciata per l’ultima volta, si rese conto di essere incredibilmente triste. Quella notte pianse come se le stessero portando via una parte della sua infanzia.
E poi, Ken non le aveva mai scritto. Anche se lei aveva rintracciato l’accademia militare, vicino a Les Invalides, dove il padre l’aveva spedito,  e aveva mandato un paio di lettere, lui non aveva mai risposto. Si era risolta ad aspettare, ma ormai era passato un mese. Si sentiva completamente dimenticata, come un oggetto smarrito in una caotica stazione ferroviaria.

Nathaniel doveva aver captato qualcosa, o forse era semplicemente gentile, fatto sta che sempre più spesso cercava di farla sorridere, di coinvolgerla nella classe. A volte le posava addirittura una mano sulla spalla, un gesto spontaneo raro ma affettuoso. Lalage si sentiva bene, ma allo stesso tempo confusa, quando era con lui. Amava molto i suoi modi delicati, ma c’era qualcosa di artificiale nei suoi gesti, che le dava un brivido di interesse ma anche una sorta di ansia, come se si trovasse davanti a qualcosa di effimero. Amava la sua gentilezza, e passava sopra al suo scarso senso del comico. Era discreto. Castiel era tutta un’altra cosa. Con lui poteva sfogare la sua ironia e il suo sarcasmo. Le dava sui nervi, ma sapeva di poter dire qualsiasi cosa a lui, o fare battute che con Nath non si sarebbe mai sognata di fare. Le era più famigliare, ma al tempo stesso era turbolento, tempestoso. A volte decisamente un rompiballe di prima categoria. Non era difficile da capire, perché era molto più istintivo del delegato, ma a volte era veramente intrattabile. In quel caso, la mandava spesso a spigolare. E lei non gli rivolgeva la parola, fino a che, in modo totalmente naturale, lui non si fermava di nuovo a mangiare con lei, Kim e Violet, come se nulla fosse successo. Ogni tanto li metteva a confronto. Paragonava Natnaniel a un corso d’acqua tranquillo, immobile sulla superficie e quasi sinistro nella sua placida bellezza, e Castiel a una tempesta, a una burrasca minacciosa che però quando si quieta lascia spazio a meravigliosi paesaggi, sconvolti ma proprio per questo suggestivi, come liberati dalle catene della monotonia e della quotidianità. Due mondi diversi, in cui lei si muoveva naturalmente, come la creatura marina che fluttua ora verso le acque più calde ora verso gli abissi. Anzi no: era una rondine, LA rondine Lalage, sospesa tra questi due mondi, mai arrivata, in perpetuo turbamento, in perpetuo equilibrio.

Ogni tanto dava una mano a Nath e Melody, se non aveva niente da fare. Niente di che, sistemava solo le scartoffie, ma era un modo affascinante di conoscere la vita del liceo…e un’occasione in più per conoscere Nath. Melody la guardava ancora di sottecchi, e se riusciva cercava di mettersi in mezzo tra lei e Nathaniel. Era una presenza in sordina, a volte fastidiosa, ma a cui Lalage si stava abituando. E poi, spesso pensava ad altro. Alle cose che cambiavano, e a quelle che non sapeva come cambiare. Quel pomeriggio di dicembre era particolarmente assorta, e non sentì subito la richiesta di Melody. “Lalage, ci sei?”. La guardò stranita. “Come scusa?”. Melody sorrise. Forse anche lei, nonostante la gelosia, un po’ le voleva bene. Stavano lentamente imparando a conoscersi. “Potresti andare a fare il giro delle aule? Dobbiamo controllare che sia tutto chiuso prima di andare”. Lalage aggrottò la fronte. “Non possiamo farlo insieme?” “Devo andare a fare delle fotocopie per un evento di questa primavera e contattare l’assicurazione per la copertura. Non farei in tempo. Ti prego….”. Lalage annuì. “Nessun problema”. Dopotutto non ci voleva molto. Le aveva già controllate prima. Solo, sapeva che Nathaniel da lì a poco sarebbe tornato a casa, e questo le dispiaceva, ma poi lui alzò gli occhi e le sorrise, e così quando uscì per controllare la scuola si sentì in pace, quasi allegra. Nel primo piano le porte erano tutte chiuse. Nel secondo idem. Guardo nel corridoio del terzo… e le venne voglia di tirar giù dal trono qualche divinità, pagana o meno: c’era una porta aperta in fondo al corridoio.

La porta dell’aula video era ancora aperta. Lalage sbuffando si affacciò dall’uscio per controllare se c’era qualcuno. L’aula sembrava apparentemente deserta, ma il proiettore era ancora acceso, anche se quale che fosse la registrazione doveva essere ormai terminata. In fondo alla sala, dove si trovava la pedana con i microfoni e la lunga cattedra per le lezioni e le conferenze, vide il telecomando. Ovvio, pensò. Doveva per forza essere là, dopo ventordici file di poltrone, mica sul vassoio mobile delle apparecchiature, che sarebbe stato il suo posto. Sospirò scocciata e si diresse verso la pedana. In quel momento qualcuno, vicino a lei, sospirò. Le si accapponò la pelle, mentre si voltava lentamente per vedere se c’era qualcuno alle sue spalle. Nessuno. “Me lo devo essere sognato” si disse proseguendo per altre due file di poltrone, ma alla terza il sospiro si ripeté, più vicino a lei questa volta, per l’esattezza all’altezza della sua coscia. Fece un balzo indietro e si appiattì contro la parete. Un fantasma? In aula video? Ora i fantasmi guardavano anche i video? Sapeva di documentari SUI fantasmi, non PER fantasmi. Quando il cinema è vuoto e si dice “non un’anima viva”…che battuta orrenda si rimproverò. E guardando meglio, vide qualcosa che le fece corrugare la fronte in un’espressione scocciata ed esasperata insieme. Una giacca di pelle. Che respirava. O meglio, probabilmente a respirare era il tipo che ci stava dormendo sotto, il solito imbecille rocker che con tutti i posti che aveva per bigiare doveva occupare un’aula intera di un edificio pubblico. Della serie “Pessimi cittadini crescono”. La sollevò e, come volevasi dimostrare, scoprì il volto di Castiel che dormiva. E sospirava nel sonno. Forse disturbato dalla luce, aprì un occhio solo e la guardò sorridendo beffardo. “Sai scricciolo, non sono la Bella Addormentata ma se vuoi svegliarmi con un bacio non c’è problema” “Ti preferivo quando dormivi. Almeno stavi zitto” “Sì sì, di’ pure quello che vuoi, lo so che mi muori dietro”. Lei intanto era passata avanti e aveva preso il telecomando. “Lascia, guardo ancora una cosa e poi chiudo” “Devo chiudere l’aula, se devi guardarti i filmetti erotici di bassa lega usa la banda larga e il computer di casa tua” “Che fine umorista. Non sono film erotici, chetati. E comunque” soggiunse facendo balenare tra le dita un mazzo di chiavi “posso chiudere io quando ho finito” “Come fai ad avere le chiavi??” “Le ho rubate una volta al delegato, ho fatto fare la copia e le ho rimesse al loro posto” “Ingegnoso. I miei complimenti. CRIMINALE, ma ingegnoso”. Castiel si stiracchiò e appoggiò ambe due le braccia alla spalliera delle poltrone. “Comunque se vuoi un filmetto erotico lo possiamo girare qui io e te, tra le pol…” “Nossignore, caro il mio maiale con la permanente. Guarda quello che devi guardare, io me ne vado a casa”. E decisa si diresse verso l’uscita, non prima di avergli lanciato il telecomando, che Castiel ebbe la prontezza di afferrare al volo prima che impattasse contro la sua fronte. “Preso” “Peccato” rispose lei con un sorriso infastidito, senza smettere di camminare. Poi, Castiel fece ripartire la registrazione…

“Benvenuti al settantottesima edizione della Festa della Musica!”. Si fermò. Il respiro le si arrestò bruscamente nei polmoni, tanto da provocarle una fitta sotto il costato, mentre la testa iniziava a macinare ricordi. Ricordi di una vita passata, che si confondevano in un vortice caleidoscopico. Il cuore iniziò a batterle furiosamente. La voce del presentatore continuò. Non aveva neanche bisogno di voltarsi. Lo ricordava. Un uomo giovane nel volto ma già brizzolato, con un forte profumo di acqua di colonia. Era sceso nelle quinte per profondersi in complimenti, dopo… “Per la serata dedicata a “I giovani e la musica”, è il momento di ascoltare la stella della Giovane Orchestra dell’Operà di Parigi!”. La folla applaudì. Smettetela, avrebbe voluto urlare Lalage, ma sapeva che non l’avrebbero ascoltata, da immagini su un supporto elettronico, così come non l’avrebbero mai ascoltata prima, in carne e ossa. Si appoggiò, svuotata di ogni energia, ad una poltrona. Non lo sapeva, ma Castiel la stava guardando intensamente. “Un bell’applauso per la meravigliosa, giovanissima, graziosa nuova promessa della musica sinfonica: Lalage Germont!”. Il pubblico questa volta non solo applaudì, ma esplose in un boato entusiasta. Ora come allora, il cuore di Lalage si fermò un istante, rallentando. Con uno sforzo immane, si voltò. E vide una ragazza, un filo più magra di lei, con i suoi stessi capelli raccolti semplicemente indietro, gli stessi occhi azzurri sgranati, che sorrideva intimidita. Il paradosso, era che quella estranea non era un’altra: era lei. “Lalage suonerà per noi “Capriccio n° 24” di Niccolò Paganini”. Castiel fischiò ammirato. “Che io sappia, è un pezzo difficile". Lei non rispose. Lui fermò un secondo la registrazione. “Eri famosa” “Cosa vuoi che valga…”. Castiel non smetteva di guardarla. Le tremavano le mani. “Prima di svenire, siediti”. Meccanicamente lei obbedì, lasciandosi sprofondare in una poltrona. Inspiegabilmente questo la calmò. Era come trovarsi in una culla, nella penombra, prima che arrivino i sogni ad animare la notte. Castiel guardò il fermo immagine. “Eccolo lì, come si chiama, lo sfigato con i due parabrezza sugli occhi…” “Ken”. Lalage sorrise. “Ken veniva sempre. Non si è mai perso un concerto, almeno non quelli in Francia” “Facevi anche tournée all’estero?”. Altro fischio ammirato. “Ogni tanto, ma erano rari. Mia nonna si occupava di queste cose, e di farmi esercitare. Voleva avere tutto sotto controllo”. Il video ripartì. Dopo un brusio, che andava scemando, quella ragazza timida e spaurita posò l’archetto, e i crini candidi baciarono le corde, leggeri. E iniziò a suonare.
Castiel  non riusciva a staccare gli occhi da quella figura, che come trasfigurata, seguiva mimicamente i movimenti del violino, alzando orgogliosamente il petto durante gli acuti, chinandosi a cercare i suoni più gravi. Più di ogni altra cosa, non riusciva a capacitarsi che quella ragazza, che da spaurita agnella si era trasformata in passionaria leonessa attraverso la musica, fosse la stessa persona che tremava in fondo alla sala, immobile e paralizzata, senza nemmeno la forza di piangere.  Quando terminò, fu come se un incantesimo avesse rapito gli spettatori, quello in carne ed ossa compreso, come se aspettassero ancora un’altra nota. Poi, la platea esplose in un boato, un’ovazione.  Castiel si trattenne, e invece si voltò esclamando. “Beh scricciolo, c’è da esserne orgogliosi”. Poi tacque. Non era più in quello stato catatonico, lei. Guardava lo schermo. E lacrime silenziose le rigavano il volto. Quando parlò, quasi si spaventò, quel rocker duro e ironico, di quella voce roca e spenta. “Vedi quella donna che se ne sta andando mentre gli altri applaudono, al centro?”. Lui dovette riportare indietro il video, prima di vederla. “Una cafona, allora?”. Lalage sorrise. Un sorriso amaro. Un sorriso affranto.

“Quella è mia nonna”
 
   
 
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