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Autore: Himawari__    01/05/2016    4 recensioni
Sono trascorse poche settimane dagli eventi narrati in "Your own personal Jesus". In occasione di un ballo di beneficenza a cui la famiglia Pendragon deve prendere parte, la ruota del fato si mette in moto ancora una volta, e Merlin ha modo di ripensare al suo passato e analizzare il suo futuro con Arthur.
Merlin-centric.
(Sì, è sempre la mobsters!AU di cui pensavate di non aver bisogno, con più bamf!Merlin e la partecipazione straordinaria di quel sant'uomo di Lancelot.)
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù, Un po' tutti | Coppie: Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
- Questa storia fa parte della serie 'The darkness in between'
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ATTENZIONE :
  • Questa storia è il sequel di un'altra one-shot, che potete trovare qui. Non è necessario averla letta, ma è comunque importante per la comprensione generale di come ho trattato qui Merlin e Arthur, e il rapporto che li lega.
  • Il rating per il momento è così, ma potrebbe alzarsi nel corso della storia, visto che non ho ancora terminato di scrivere la fanfiction. Lettore avvisato, mezzo salvato.
  • Probabilmente avete letto gli avvertimenti in calce, ma ci tengo comunque a specificarlo: nei capitoli seguenti verranno nominate e approfondite tematiche delicate. Procedete con cautela.


 
Vows are spoken (to be broken)
Atto 1
 
Ottobre 2016
L’odore di pioggia e umidità permeava la piccola palestra in modo quasi soffocante. Da che Merlin ne avesse memoria, non gli era mai piaciuto allenarsi in quel luogo: da bambino, perché la sola idea di praticare attività fisica che fosse diversa dal correre per i campi lo annoiava enormemente, e da adulto perché lo spazio per muoversi era troppo poco, le mura intrise di troppi ricordi, nessuno dei quali particolarmente positivo.

Ci tornava giusto quando era necessario. Scivolato nell’abitudine dell’allenamento costante più per costrizione che per reale voglia (“Mens sana in corpore sano” Kilgarrah gli ripeteva ancora oggi, a distanza di anni, con la sua voce rovinata dal fumo e dall’età che era per lui sinonimo di conforto e rispetto al tempo stesso), trovava una sorta di piacere perverso nel violaceo dei lividi, nel dolore dell’acido lattico, nelle nocche sbucciate dai pugni troppo forti.

Lo faceva sentire… in pace con se stesso e con il mondo, ecco. La sua vita acquistava significato, prendendo posto in quel sistema di ingranaggi troppo complesso perché una mente semplice come la sua potesse comprenderne appieno il senso, il suo corpo protestava ma la sua mente era tranquilla come solo su un tatami poteva esserlo.

Davanti a lui, Lance gli sorrideva con atteggiamento sicuro e tranquillo, le braccia davanti al capo in una postura difensiva. Era questa una caratteristica che ammirava di lui: entrato a far parte degli uomini di Arthur da un paio di anni per motivazioni che non osava approfondire, sembrava che l’ambiente che li circondava non avesse alcun effetto sulla sua persona. Aveva imparato presto, insomma, a lasciarsi scivolare tutto addosso, dalle sparatorie ai torbidi affari dei Pendragon, e con una tale semplicità che Merlin, dentro di sé, non poteva fare a meno di invidiarlo un poco.
Lui ci aveva messo molto più tempo.

Merlin mise le mani davanti al volto, allargando leggermente le gambe, e osservò a lungo il ragazzo davanti a lui, in cerca di falle nella sua difesa. Non era la prima volta che si allenavano assieme; prima di entrare negli ‘affari di famiglia’, come li chiamava ironicamente Arthur, Lance era stato un insegnante di karate, e questo si notava facilmente dalla postura rilassata del corpo e dallo sguardo attento che gli rivolgeva, come se a sua volta stesse studiando le mosse del suo avversario.

Goccioline di sudore imperlavano le braccia nude e il petto, scendendo giù, sotto la canottiera bianca, umidiccia e dalle macchie scure di polvere qua e là.

“Siamo pari, Merlin,” esclamò con un sorriso affabile, iniziando a girargli attorno “chi perde offre da bere all’altro. Affare fatto?”

Merlin ricambiò il sorriso e seguì col corpo e con gli occhi i suoi passi, la guardia alta a dispetto del tono leggero di voce. “Prepara il portafoglio, allora.”

Lance era un bell’uomo, e Merlin aveva imparato da ragazzino a cogliere i segnali giusti al momento giusto. Era un’abilità che si era rivelata utile nella sua linea di lavoro, sia per estorcere informazione che per evitare di darne troppe, e Lance mostrava tutti i campanelli d’allarme tipici dell’attrazione fisica: i palmi delle sue mani erano sudati, e non certo per il combattimento, e a dispetto di tutto i suoi occhi non incontravano mai il suo viso, se non quando stava per attaccare, e–
Parò un affondo con il palmo della mano aperto, stringendo forte. Il colpo era partito forte e preciso, e Lance si manteneva ancora solido sul suo baricentro, come se la stretta non lo scalfisse minimamente.

Erano vicini, troppo vicini per i suoi gusti. Il volto di Lance non aveva imperfezioni, i suoi occhi nocciola erano caldi e sinceri, e lo guardavano con un affetto tale che non poteva permettersi di provare sulla propria pelle. Quando partì il secondo pugno, Merlin lo intercettò a mezz’aria col braccio, spingendolo via.

Non attaccò, mantenendo tuttavia alta la concentrazione.

Arthur aveva una pelle più pulita, le sue mani erano morbide e prive di calli e cicatrici, il suo sorriso portava con sé la leggerezza di un bambino, forse, ma per questo era puro e prezioso – non sapeva perché proprio ora, faccia a faccia con Lance, gli era balenato in mente il ricordo di quando era quattordicenne e si erano allenati assieme per la prima e l’unica volta: Merlin lo aveva dovuto lasciar vincere, perché come poteva spiegare al suo tutto che il suo corpo era un’arma al suo servizio?

“Stai pensando a lui.” Il tono di Lance era giovale, ma il sorriso non raggiungeva gli occhi nocciola.

Era così palese?

Merlin si morse il labbro inferiore, rimanendo sulla difensiva. Lance era un bel ragazzo, sì, e forse in un altro mondo gli avrebbe dato una possibilità – ma non qui, non ora, non con Arthur che aveva bisogno di lui, non con lui che sentiva il bisogno fisico di stare con Arthur il più possibile.

Il terzo colpo giunse dritto verso il suo stomaco, e quasi avrebbe riso perché – oh dio, il brutto di allenarsi con Lance era che era sempre così prevedibile, permetteva alle emozioni di farsi strada in lui con una facilità impressionante – e lo scansò abbassandosi. Con un calcio alle sue gambe, lo fece crollare a terra e gli balzò addosso con rapidità: con un braccio gli bloccò le braccia al petto, e con il braccio libero applicò una leggera pressione al suo collo.

“Io penso sempre a lui. Sono pagato profumatamente per farlo, in caso te lo fossi dimenticato.” Ribatté. La tonalità di voce che aveva usato era più acida del previsto, ma non riusciva a pentirsene poi troppo.

Non aveva senso parlarne, in ogni caso. Nessuno doveva sapere quello che c’era fra loro, qualsiasi cosa fosse, e per quanto Lance sembrasse affidabile e le sue intenzioni fossero nobili, aveva imparato sulla sua pelle che in quell’ambiente era bene fidarsi solo di se stessi.

A dispetto di tutto, Lance non cercò di liberarsi, incontrando i suoi occhi con un’espressione di così limpida sincerità che Merlin non riuscì a sostenere il suo sguardo. “Avrai pure qualcos’altro nella vita. Sei giovane, sei brillante – sprecarti dietro tutto questo è sciocco. Il lavoro è lavoro.”

Merlin lo guardò con rabbia, perché quello non era lavoro, non per lui per lo meno. Tutta la sua vita ruotava attorno a quello, e tolto Arthur cosa gli restava?

“Non capisci.” Premette il braccio sul collo di Lance quasi senza accorgersene.

Come poteva capire, dopotutto? Non era lui quello che era stato educato così, aggrappandosi all’unica cosa che dava alla sua vita un senso fin da bambino, e Arthur era così radicato in lui che non riusciva più a discernere la realtà dalla finzione, l’idea dall’abitudine, il giusto dal sbagliato.

Come avrebbe potuto?

Aveva letteralmente consacrato la sua esistenza a lui, e non riusciva a pentirsene.

Arthur era il bambino che gli aveva regalato il braccialetto dell’amicizia a otto anni, quando nessuno a scuola lo voleva accanto a sé perché ‘figlio bastardo’; era l’adolescente pieno di vita che gli passava sottobanco i libri di Hemingway perché “solo a te può piacere questa roba da vecchi”; era il ragazzo che lo aveva fatto sentire a casa, laddove chiunque altro lo aveva tratto con disprezzo e alterigia.

Arthur era il suo tutto, perché categorizzarlo sarebbe stato limitativo nei confronti di quello che provava per lui, e mettere la sua vita al suo servizio non era stata che una naturale conseguenza di anni ed anni trascorsi assieme.
 
Lance alzò il braccio libero in aria in segno di resa, e Merlin si allontanò immediatamente, alzandosi dal suo corpo con un unico momento fluido. Gli porse il braccio, e il ragazzo afferrò la sua mano con fermezza, tirandosi su e respirando affannosamente.

Nessuno dei due disse una parola. Lance lo guardava come se fosse la creatura più bella sulla faccia della Terra, con la sfacciata ingenuità di chi crede che i suoi sentimenti non siano stati compresi, ma nel cuore e nella testa di Merlin c’era posto per una sola persona, e quel posto era occupato da tempo ormai immemore.

Lance era bello, gentile, simpatico, perfetto.

Ma non era Arthur.

Lance si passò una mano sul collo arrossato, l’espressione ora più distaccata. “No, non capisco perché non mi permetti di farlo. Sei la sua guardia del corpo, e fai un lavoro egregio visto che il nostro Principe è vivo e vegeto.”

“Non è abbastanza.” Merlin raggiunse la sedia di legno ad un lato della stanza, e prese un asciugamano appoggiato lì sopra. Se lo passò sul volto e sulle spalle, le movenze spicce di chi è visibilmente a disagio. Lance lo raggiunse con ampie falcate, prendendo a sua volta il suo asciugamano e asciugandosi le braccia sudate. C’era qualcosa di inquieto nella sua postura rigida, come se avesse tanto da dire e da fare, ma poco spazio per farlo.

“Senti, Merlin –”

 “Potrebbe succedergli qualsiasi cosa mentre non sono con lui.” Lo interruppe lui. Non aveva né tempo né voglia di una paternale, soprattutto se questa veniva da una persona buona come lui, perché l’esperienza gli aveva insegnato che raramente Lance aveva torto. “L’altra sera Valiant gli avrebbe sparato, se–”

“Lo so. Ma c’eri, eri presente, ed è questo quello che conta, no? Il Principe sta bene, e continuerà a rimanere in salute se ci sarai tu a prenderti cura di lui.” Per rinforzare il concetto, Lance gli strinse la spalla con una delicatezza sorprendente per delle mani così ampie. Merlin alzò lo sguardo, e di nuovo, colto da imbarazzo e disagio, Lance abbassò lievemente il suo, fissando un punto imprecisato dietro le sue spalle.

“Dovrei andare.” Lo interruppe secco Merlin. La conversazione stava sfiorando argomenti che preferiva non affrontare. “Devo riprendere a lavorare fra un’ora, e ho bisogno di una doccia.”

Quando si voltò per andarsene, sentì il suo polso stretto in una morsa salda. Immagini di Kilgarrah e di Uther si sovrapposero improvvisamente con la realtà, quando era troppo piccolo per reagire e troppo insignificante per lamentarsene. Il respiro gli mancò per un attimo, e reagì come si era ripromesso troppe volte di non fare: spinto da un istinto primordiale che urlava fagli male prima che te ne faccia, gli afferrò a sua volta il braccio e lo buttò a terra con violenza non necessaria.

Probabilmente sorpreso dalla reazione eccessiva, Lance non mosse un muscolo.

Solo quando si rese conto di chi aveva buttato a terra – non era Kilgarrah, non era Uther, andava tutto bene, era al sicuro, Arthur era al sicuro – i suoi occhi incontrarono quelli sconvolti di Lance.

“Scusa.” Gli disse brevemente, assalito da un’ondata di imbarazzo e disagio difficile da scrollarsi via  “Oh, dio, scusa, non mi capitava da –”

“Siamo amici.” Lo interruppe Lance col fiato mozzato; a dispetto di tutto, aveva indossato di nuovo un sorriso smagliante, come se non fosse successo nulla. “Voglio che ti ricordi solo questo.”

Quando Merlin si offrì di aiutarlo, scostò la sua mano con un gesto secco, ma senza cattiveria alcuna. “Lascia stare, ci penso io a chiudere la palestra. Vai.”

Merlin esitò un attimo, prima afferrare dall’angolo della stanza la sua sacca da ginnastica e infilarci dentro l’asciugamano umido. Salutò Lance con un gesto spiccio, troppo imbarazzato dalla reazione eccessiva per guardarlo in volto, e uscì dalla piccola palestra in fretta e furia.

Fuori non aveva smesso di piovere.

Merlin si strinse nelle spalle, la pelle d’oca che si faceva strada sulle braccia pallide, e si maledisse per aver dimenticato ancora una volta l’ombrello. Camminare sotto l’acqua scrosciante era terapeutico solo nei racconti sdolcinati in cui si rifugiava quando era più piccolo, ma la realtà era ben più fredda e severa, e si ritrovò a imprecare mentre correva con la sacca sopra la testa a mo’ di paracqua.

Si era ripromesso che non sarebbe più accaduto nulla del genere, e invece eccolo lì, ci era cascato ancora una volta come un perfetto idiota. Nel suo campo di lavoro, non poteva permettersi simili reazioni.

Quando vibrò il telefonino in tasca, si affrettò a trovare riparo sotto all’arcata di un palazzo per leggere il messaggio che gli era appena arrivato.

 
Cambio di programma.
Vestiti bene e passa a prendermi alle sette.
Andiamo a una festa.
A.

 
Conosceva abbastanza i Pendragon da sapere che lo standard delle loro feste non era altro che un ritrovo di gente schifosamente ricca che si lamentava di non esserlo abbastanza, il tutto sorseggiando champagne in bicchieri che costavano più dei suoi gemelli da polso.
 
Non che gli importasse troppo, comunque. Finché stava con Arthur e si rendeva utile in sua presenza, il resto contava poco o nulla. Stringendo il telefonino fra le mani, riprese a correre verso casa con rinnovato fervore.
 

 
ϟ
 
 
Maggio 2001
Per il suo settimo compleanno, Merlin ricevette in regalo da Hunith una copia di David Copperfield. La copertina in pelle, smeraldina e sbiadita, emanava il fascino particolare che solo i manufatti antichi possiedono; percorse gli intarsi in oro con il dito indice della mano, sfiorandoli appena, perché, seppur fosse ancora un bambino, sapeva riconoscere il valore di un oggetto quando ne vedeva uno, e il libro in questione, se avesse potuto parlare, avrebbe potuto intessere storie su storie.

Non era un regalo verso cui potesse dirsi interessato, ma sentiva costantemente sulla propria pelle il brivido stantio delle ristrettezze economiche. Non lo percepiva in modo chiaro e coinvolto come sua mamma, ovviamente, ma sapeva che lei lavorava tutto il giorno i campi perché ‘mancano i soldi, amore’, e lo lasciava ogni tanto a dormire a casa di Will per ‘andare in città a vendere il raccolto’; quando era più piccolo era sempre arrabbiato con lei, perché erano più i momenti in cui non la vedeva di quelli in cui stavano assieme, poi una notte aveva scorto la sua figura raccolta sul divano, con gli occhi colmi di lacrime non versate e la mano che accarezzava distrattamente una fotografia rovinata, e non aveva più protestato.

Così, quando Hunith gli fece quel regalo inusuale invece del cavallo a dondolo che desiderava praticamente da sempre, seppure istintivamente avrebbe voluto lamentarsene, il cuore lo spinse ad aggrapparsi alla sua vita e ad abbracciarla con tutta la poca forza di cui era capace, ringraziandola con entusiasmo. Hunith gli passò una mano sulle spalle e lo condusse sul divano, facendolo accomodare sulle sue gambe e aprendo il libro davanti a loro.
 
Sulla prima pagina vi era una dedica scarabocchiata a penna: Merlin non conosceva la lingua in cui era scritto, ma sotto c’era una firma, dalle curve allungate ed eleganti e la grafia leggera, e – oh.

“Me l’ha regalato tuo padre quando ci siamo conosciuti,” gli spiegò brevemente Hunith, dandogli un bacio sulla tempia, in un gesto che, forse, voleva più consolare se stessa che il figlio “ho pensato che fosse giusto che lo tenessi tu. È tutto quello che mi è rimasto da quando–” si interruppe con voce spezzata, e il bambino voltò il capo scuro: gli occhi di Hunith, sempre traboccanti di gioia di vivere, erano avvolti da un velo di rassegnazione che non si addiceva ai suoi lineamenti dolci e giovani. In un gesto intimo e istintivo, le strinse la mano con la sua.

Sua mamma si rifiutava sempre di parlare di Balinor, come se il peso della sua assenza fosse un fardello troppo gravoso anche solo a raccontarlo. Merlin sapeva solo che girava il mondo per lavoro, ma non era stupido: sentiva i sussurri delle maestre a scuola, e aveva intuito che dietro c’era molto di più. Era, tuttavia, troppo rispettoso del dolore di sua mamma per approfondire l’argomento.

“Grazie, mamma, mi piace molto.”

Hunith gli baciò la tempia ancora una volta.  “Ascolta, tesoro,” esordì, con voce troppo squillante perché la sua gioia fosse vera. Merlin, tuttavia, rimase in silenzio. “ho ricevuto un’interessante offerta di lavoro. Dovrei partire quest’estate con una famiglia nel Devonshire, aiutarli con il mangiare, i bambini, le solite cose.”

Merlin, che studiava la geografia quasi come studiava la storia, sapeva che il Devonshire era molto lontano da dove vivevano loro.

“E io?” chiese con voce minuta. “Posso stare con Will, vero?”

Il volto di Hunith si fece più duro. “Non possiamo dare a Grace e a suo figlio questa responsabilità. No, amore, quest’estate andrai a studiare da un mio vecchio amico… direi che è la soluzione migliore. Cambiare aria ti aiuterà senz’altro.”

“Ma–” Avrebbe voluto ribattere in una marea di modi diversi: non era un peso per Will, non voleva lasciare sua mamma per l’estate, e se poi succedeva quello che era successo con papà? Alla sua protesta, tuttavia, gli occhi di Hunith tradirono una tristezza così profonda che Merlin non se la sentì di continuare. Strinse nuovamente la mano di sua mamma, e, con voce bassa e comunque contrariata, si sputò uno stentato “va bene” eloquente più di mille parole.

Così, trascorse le calde giornate di maggio sotto al nespolo nel giardino di casa sua, provando e riprovando a leggere quelle pagine così astruse; quando comprese che, forse, si trattava di una lettura un po’ troppo complicata anche per un bambino intelligente come lui, lo mise da parte in favore dei giochi con Will, perché era in quei momenti, fingendo di cavalcare un sontuoso destriero, che si sentiva più a suo agio. L’immaginazione scorreva in lui fervida e inarrestabile come lava bollente, consolazione impagabile quando avrebbe voluto piangere, ma il volto triste di sua mamma glielo impediva.

Forse perché anche lui non aveva un padre, forse c’era qualche altro motivo recondito – ma Will capiva, e non giudicava mai, purché Merlin gli lasciasse interpretare il drago nella loro piccola fantasia.

Il libro rimase chiuso nel baule in camera sua, avvolto con cura in un panno, fino a quando maggio non lasciò il posto al caldissimo giugno, e gli alberi iniziarono a tingersi dei colori allegri dei frutti.




 

NOTE :

Grazie a tutti coloro che si sono fermati a leggere Your own personal Jesus, e un abbraccio e un bacino ai miei commentatori.
Ringrazio ancora Hiromi, che è una brava persona, mi ha aiutato a imbastire buona parte dell'ambientazione e mi ha sostenuta quando credevo che questo lavoro non avesse un futuro. Grazie <3
Ovviamente, aspetto critiche/commenti etc. Mi rendo conto che quella che propongo in questo universo non è una visione convenzionale del rapporto fra Merlin e Arthur, ma spero che comunque lo troviate almeno interessante. Nel prossimo capitolo avrete più Arthur (promesso) e inizierà la trama vera e propria... Sì, sembra strano, ma c'è una trama. XD
Alla prossima :)
   
 
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