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Autore: MisterXPaulPollo    02/05/2016    2 recensioni
Sono nato un venerdì.
Il tredici di un venerdì di Maggio, alle ore 17:00.
Ho la sfiga impiantata addosso come Wolverine l'adamantio.
Sono talmente sfigato che stamani, nel tentativo di avvelenare il latte del mio schifoso coinquilino infetto, non mi sono accorto che il figlio di puttana aveva invertito le tazze.
Risultato.
Ho avvelenato il mio latte.
La mia tazza adesso è infetta.
Il latte di riso è finito.
Oggi muoio.
Genere: Commedia, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo III

15/07/2014 – New York, aeroporto Internazionale John F. Kennedy – Ore 20:05

Ciao stupida e sudicia New York, ti sono mancato?
Immagino di no dato che sei stata proprio tu a cacciarmi da qua, circa sei anni fa.
Già, sono già passati ben sei anni ti rendi conto?
Sei anni da quando Lui mi ha attaccato, sei anni da quando ho lasciato questa città, sei anni che sopravvivo in quella orribile topaia a Tennyson Rd, sei anni che sfuggo alla morte. Sono passati ben sei anni, dall’ultima volta che ho visto Noah.
Ti stai chiedendo perché sono tornato da te, nonostante tutto il dolore che mi hai causato, correndo pure il pericolo di essere attaccato da Lui?
Abbasso lo sguardo sul telefono che tengo stretto nella mia mano destra, mentre aspetto con ansia l’arrivo di quel bagaglio che all’imbarco è stato lanciato senza alcuna grazia o rispetto nella stiva di quell’aereo maledetto, nel quale sono stato costretto a salire per forza di cose.
È bastato un insignificante messaggio, una parola ed un punto esclamativo a farmi correre verso l’aeroporto di Gatwick, farmi sette ore e cinquantacinque minuti di viaggio e spendere più di settecento sterline per atterrare in una città che odio, piena di ricordi, e di Lui.
Quel maledetto bastardo di Lui.
Presto tornerà a prendermi, so che mi sta cercando, mi sta cercando per completare ciò che non è riuscito a finire sei anni fa.
Se non lo uccido, lui ucciderà me.


14/07/2014 – Londra, Tennyson Rd – Ore 23:00

Vivere in una casa, ma non viverci realmente.
Ecco come ho passato questi sei anni della mia vita, nascondendomi da un presunto zio irlandese che ha accettato di farmi vivere sotto la sua ala, per fortuna non letteralmente, in una casa infestata da fantasmi giganti che io chiamo batteri.
Anche adesso mi sto nascondendo, perché so che quell’essere è arrabbiato come un cane privato dell’osso, e so bene anche il motivo di tanta rabbia.
Grazie di esistere, disinfettante.
Anche stanotte sono entrato di soppiatto proprio come la notte precedente, ma non per dormire in quella bella camera che profuma di pulito, ma per riempire un’altra valigia con il favore della notte.
È tardi per quel tricheco, a quest’ora è già steso su quel letto dai piedi sforzati, probabilmente anche con qualche doga rotta.
Sorrido lievemente, il favore della notte mi aiuterà a recuperare tutta la mia roba e sparire definitivamente, anche se la luce della luna mi sta trasformando in una lampadina riflettendo sulla pelle.
Non è importante comunque, dato che il tricheco è già nel suo letto.
Posso uscire dal mio nascondiglio finalmente.
Sembro un geco attaccato al muro in questa posizione, schiacciato tra il divano nel quale appoggio la schiena, e l’intonaco del muro, che fortunatamente è stato dipinto di recente per cancellare le tracce di umidità e di vecchio. Ho approfittato dell’assenza dell’uomo per intrufolarmi in casa e, sapendo che sarebbe tornato intorno alle 21:00, alle 19:00 ero già entrato in casa ed avevo iniziato a fare le valigie.
Tutto è stato calcolato nei minimi dettagli, dopotutto non ci si può aspettare altro da una mente geniale come la mia.
Sbuco lentamente fuori dal mio nascondiglio, sentendo il bisogno di lavarmi almeno le mani dopo aver toccato per ben due ore, un muro ed un pavimento, ma non posso andare in bagno dato che è accanto alla sua stanza da letto.
Il rumore dell’acqua potrebbe svegliare quel mammut dal sonno leggero.
Mi dirigo quindi in cucina, dove sono certo di aver lasciato una bella bottiglia di sapone per piatti ancora da aprire sotto al lavello della cucina e, pieno di gioia per il bel pensiero, agguanto la maniglia dell’anta del mobile con l’indice della mano destra, tirandola sicuro verso di me.
Tanto sicuro da non controllare cosa si nasconde sotto al lavello, dentro quell’anta.
La mano si posa su qualcosa di peloso e morbido, ma non assomiglia affatto alla bottiglia di sapone, né alla spugna che cambio ogni giorno per lavare i piatti.
Cos’è quella cosa pelosa? Che abbia comprato un asciughino peloso? No, non sarebbe di nessuna utilità una cosa del genere, e poi non ha neanche lontanamente la consistenza di un asciughino. Allora cos’è quella cosa che sento?
Grazie alla luce che entra dalla finestra della cucina, posso evitare di accendere quella elettrica, per cui mi piego sulle ginocchia per poter vedere cosa la mia mano sta palpando ormai da un minuto buono.
Non è un asciughino.
Non è la spugna.
Non è la bottiglia di sapone che tanto bramavo.
Un topo.
Sto palpando un topo morto da chissà quanti giorni.
Ritiro automaticamente la mano, perdendo l’equilibrio per il gesto brusco e sbattendo il bacino su quella maledetta mattonella traballante che non si è mai deciso a riparare.

« Hey! Chi c’è in casa? »

Il tricheco è sveglio.
La mia mano infetta.
Quel topo in decomposizione poteva avere chissà quante cose, chissà quanto schifo, e non posso lavarmi dannazione!
Mi alzo di scatto, guardandomi intorno alla ricerca di una soluzione tanto rapida quanto efficace, ed è lì che il mio sguardo si posa su quel fornello incrostato, dove ancora risiede quella padella sporca ed unta nella quale deve aver mangiato.

 « Non costringermi a chiamare la polizia! »
 
Non c’è più tempo, devo agire.
Afferro la padella per il manico, trovando infine riparo dietro la porta della cucina. Lo spazio è abbastanza da poter ospitare il mio gracile corpo, e lui non può vedermi qua dietro.

« Dove sei piccolo residuo di sterco? Che c’è, hai paura? Esci fuori piccolo bastardo, voglio fare due chiacchiere con te ladruncolo dei miei stivali. »
 
Se mi trova sono morto, non deve trovarmi, non deve.
Sento i suoi pesanti passi varcare la soglia della cucina, la padella è ben stretta tra le mani, ma non posso aspettare che lui se ne vada. Devo agire, e devo farlo adesso.
Apro la bocca per urlare, ricordandomi solo dopo di quanto stupido sia quel gesto e, uscendo da dietro la porta, mi avvicino a lui per poterlo colpire su quel suo testone da bovino.
È di spalle, tutto è semplice quando le persone non sanno che ci sei.
Grazie mamma per avermi fatto nascere muto.
La padella si alza sopra la mia testa, e rimbalza sopra il testone dell’uomo che ho davanti. Uomo che crolla a terra come un sacco di patate.
Sollevo la padella in aria, osservandola come se avessi tra le mani il santo Graal, con un velo di puro stupore per l’efficacia di quell’oggetto.
Se continuassi a colpirlo, morirebbe e non ci sarebbero più problemi.
Diventerei un assassino, e dimostrerei alla signora Stenac che anche io posso fare qualcosa, che anche io posso distinguermi ed apparire.
Sì, potrei salire sul tetto, alzare le braccia al cielo ed urlare “GUARDA MAMMA, CI SONO RIUSCITO!”
No, non posso.
Il topo.
La mano infetta.
Un tricheco in decomposizione.
Lascio cadere la padella a terra, e corro verso il bagno per lavarmi le mani, disinfettarmi fino ai gomiti e tranquillizzarmi.
Sarebbe stato fuori uso per un po’, adesso potevo calmarmi.
Non mi aveva visto.
Non poteva sapere chi lo aveva colpito, e non poteva quindi denunciarmi per aggressione.
Ho la nausea, faccio fatica a respirare e la vista trema, come se qualcuno stesse giocando a ping pong con i miei bulbi oculari, e la suoneria del telefono mi fa arrivare il cuore in gola. Riecheggia all’interno di quel minuscolo bagno dalle mattonelle verde salvia, ma non rispondo.
Poi un messaggio.
Mi costringo a prendere il telefono custodito dalla tasca sinistra dei pantaloni, e da quello che riesco a leggere, è Noah.


- SMS da: Noah
Aiuto! -

Noah è in pericolo.
Devo salvarlo.
Devo andare da lui.
Devo prendere le mie cose ed andarmene.
Noah resisti, il Pollo viene a salvarti.

15/07/2014 – New York, aeroporto Internazionale John F. Kennedy – Ore 21:00
 
È quasi imbarazzante il tempo che ci vuole per uscire dall’aeroporto dopo aver toccato terra, e come ogni volta sulla mia valigia ci sia una nuova ammaccatura.
Quest’ultima la chiamerò Alfred, e avrà la compagnia di Jack, Tim, Jodie, James, Roger…
Mi guardo intorno, notando come quel posto sia perennemente circondato da quelle prigioni metalliche gialle, puzzolenti e probabilmente imbevuta di chissà quanti tipi di alcolici diversi. Tutti pericolosi.

«PAUL! HEY, PAUL! POLLO SONO QUI!»

Mi volto di scatto quando sento la voce di quel frastornato di mio fratello.
La riconoscerei tra mille, ed anche a distanza di anni, non è mai cambiata.
Noah, quel ventenne irlandese figlio di mio padre che, esattamente come me, di irlandese aveva solo il luogo di nascita sulla carta d’identità.
Due fratelli, figli dello stesso padre, ma con madri differenti.
C’era una volta un valente uomo d’affari, con una moglie bellissima ed una segretaria molto attraente.
Un bel giorno, all’insaputa della moglie, i due colleghi iniziano ad amarsi e scambiarsi effusioni sempre più evidenti, e nessuno poteva sapere cosa accadesse in quell’ufficio una volta chiusa la porta.
I due sembravano amarsi, e l’attraente segretaria voleva fuggire assieme all’amato e partorire i suoi figli. O il figlio.
Perché proprio di questo parlarono quel giorno.
L’uomo non prese bene la notizia del mattino, ma la notizia della sera lo colpì come un fulmine a ciel sereno.
Anche la moglie aspettava un figlio. Quello legittimo.
Nonostante l’uomo avesse chiesto più volte alla segretaria di abortire, lei lo mandò al diavolo, e decise di licenziarsi e portare avanti la gravidanza da sola, convinta che il nascituro potesse un giorno vendicarsi di quell’orribile mostro che non aveva la minima intenzione di riconoscere il suo bel bambino.
I mesi passarono, e il venerdì tredici del mese di maggio, alle ore diciassette in punto, fece la sua comparsa nel mondo Paul, il bambino che l’avrebbe vendicata. O quello che la donna definì un abominio quando scoprì che era muto. Un essere umano inutile che aveva appena ucciso le sue speranze di vendetta. Cosa poteva fare un muto per farsi accettare dal mondo? Chi mai lo avrebbe ascoltato?
Un bambino fantasma, così veniva definito il piccolo Paul, che nonostante l’astio non ha mai smesso di popolare gli incubi della donna.
Morale della favola signora Stenac, fai sesso protetto se non vuoi generare altri figli come me, fai sesso protetto invece di sfornare figli da abbandonare.
Le donne sono il male.
Le donne mettono al mondo figli che non amano, li attaccano al loro seno e nutrono teste di cazzo.
Le donne sono isteriche durante il mestruo.
Le donne sono spaventose.
E sono macchine complesse da capire.
Odio le donne.
Tutte quante.
Poi torno alla realtà quando mi ritrovo la slanciata e atletica figura di mio fratello davanti agli occhi, con quei suoi riccioli neri e scompigliati, e gli occhi marroni.
Non sembriamo neanche fratellastri da quanto siamo diversi, però insieme potremmo fare un buon latte di riso macchiato.

« Pollo? Sei su questo pianeta o hai lasciato il cervello a Londra? »

Lo osservo attentamente, e sembra stare bene.
Perché mandarmi una richiesta di aiuto, quando non c’era niente da cui salvarlo?
Schiudo le labbra, aggrottando al contempo le sopracciglia non riuscendo davvero a capire il perché di quel suo messaggio, poi mi decisi a “parlare” a mia volta, muovendo le mani in aria per formare le benedette parole nel linguaggio dei segni.
Linguaggio che lui sapeva interpretare alla perfezione, dopo anni ed anni di esperienza direttamente sul campo.

- Mi spieghi perché diavolo mi hai mandato un messaggio in cui chiedevi aiuto? -

Come suo solito, invece di parlare come un normale essere umano, Noah risponde ai miei gesti con altri gesti, portandomi a socchiudere gli occhi e scuotere la testa in segno di resa. Era un caso senza speranza.

- Ti ricordo che sono muto, non sordo. Se muovi la boccuccia e le dai aria, ti sento. -
« Hai ragione, hai ragione, ma è per tenermi in allenamento. Sai, non mi capita ogni giorno di potermi allenare con qualcuno che usa questo linguaggio. In ogni caso, non so di cosa tu stia parlando, io ti ho semplicemente chiesto quando saresti venuto a trovarmi. Sei tu che mi hai risposto con un “Sto venendo a salvarti Noah, resisti!” »

A quelle parole sarcastiche le mie sopracciglia si inarcano in un espressione tanto incredula quanto persa nel vuoto, ed i neuroni già in movimento, si spremono per trovare una soluzione, o almeno per ricapitolare l’accaduto.
Porto il telefono all’altezza del petto, cercando la conversazione avuta con mio fratello in quei pochi messaggi che ci siamo scambiati, ed effettivamente, in nessuno compariva una richiesta d’aiuto.
Che mi fossi immaginato tutto in preda al panico?
Il mio cervello malato, confuso e terrorizzato aveva metabolizzato quelle parole come una possibile via di fuga da quella casa degli orrori, inviando un segnale mentale a Noah in cui io chiedevo aiuto?
Che mi sta succedendo, cosa è successo la scorsa notte?
Il mio volto si deve essere corrucciato in un espressione davvero spaventosa, per aver spinto mio fratello ad abbracciarmi, ad inondarmi con il suo nostalgico profumo ed il suo rilassante calore.
Proprio come ogni volta, quando scappavo in lacrime da casa Stenac, quel gigante riusciva sempre a calmarmi, ed anche se non sembrava, il maggiore tra i due ero proprio io.
Spesso mi sono sentito ridicolo, ma Noah era l’unica persona che poteva toccarmi senza alcun riguardo.

« Mi sei mancato, Pollo. »

Socchiudo gli occhi a quel sussurro vicino all’orecchio, sorridendo lievemente tra me e me mentre gli avvolgevo la vita con le mie esili braccia, trovando conforto nelle sue. L’indice della mano destra si posa contro la schiena del ragazzo, tracciando otto lettere, per un totale di tre parole.
Sono tornato sudicia New York.
Sono tornato Noah.

- Sono a casa. -
   
 
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