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Autore: Adeia Di Elferas    03/05/2016    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Caterina non resisteva più. Non ci sarebbe stato nulla di male, no, in una partita ai dadi?
 Si rimise in piedi e andò verso la porta. Magari Giacomo non ci sarebbe nemmeno stato. Magari si stava facendo tanti problemi per niente.
 Uscì dalla stanza senza prendere con sé una torcia, pensando che in giro per la rocca ce ne fossero già a sufficienza.
 Non fece in tempo a muovere i primi passi che notò un'ombra a pochi metri da lei. Con un riflesso che era ormai in lei innato in ogni momento di allerta, la sua mano scattò al punto in cui il pugnale stava nascosto sotto le sue vesti. Tuttavia sapeva fin da subito che non ci sarebbe stato bisogno di usarlo.
 La figura celata nella penombra era quella di Giacomo Feo.
 Avrebbe voluto chiedergli che mai ci facesse lì e cosa volesse. La voce però non accennava a prendere forma nella sua gola, così attese che fosse lui a parlare per primo.
 Giacomo capì che la sua signora stava aspettando che fosse lui a fare la prima mossa, così, nonostante la bocca secca e le mani un po' tremanti, si schiarì la voce e provò a dire: “Mi signora...” a mo' di saluto.
 Era chiaro che quel giovane stalliere non sarebbe mai stato in grado di osare oltre, in quel momento. Così, Caterina, che ormai sentiva crescere dentro di sé di nuovo quell'assurda sete che la prendeva ogni volta che incontrava Giacomo, si mosse rapida verso di lui e lo baciò, senza ragionarci oltre.
 Giacomo ricambiò, con maggior sicurezza rispetto alla sua signora che, esattamente come la prima volta, aveva avuto l'audacia di cominciare, ma necessitava il suo incoraggiamento per non smettere.
 Benché entrambi fossero attenti solo l'uno al respiro e al cuore dell'altro, a nessuno dei due sfuggirono dei suoni inconfondibili poco lontano da dove si trovavano. Qualcuno stava arrivando.
 Per uno strano sesto senso, entrambi pensarono subito che si trattasse di Tommaso.
 La prima reazione di Giacomo fu quella di scostarsi da Caterina, forse per andarsene, mentre la Contessa lo prese per mano e lo trascinò nella sua camera, chiudendo la porta a chiave.
 Attesero un lungo momento in completo silenzio. I passi si arrestarono davanti all'uscio chiuso e per qualche secondo non si sentì altro. Probabilmente, là fuori, Tommaso stava tentennando, chiedendosi se fosse o meno il caso di bussare alla porta della Contessa.
 Alla fine parve decidere che no, non sarebbe stato opportuno, e i passi ripresero, allontanandosi sempre di più.
 Caterina tirò un sospiro di sollievo, anche se si rese subito conto dell'assurdità del timore che aveva appena provato. Lei era adulta, responsabile per se stessa ed era la signora di due importanti città. Perché avrebbe dovuto dar peso all'opinione di un misero castellano?
 Giacomo la stava fissando, agitato come mai in vita sua. Non era mai stato nella camera personale della sua signora ed essere quasi visto entrare lì da suo fratello lo inquietava.
 “Forse non dovrei essere qui.” provò a dire Giacomo, con un filo di voce.
 Caterina si voltò di scatto a guardarlo: “Perché?” gli domandò, mentre anche lei in realtà stava pensando che forse Giacomo davvero non avrebbe dovuto essere lì.
 Lo stalliere alzò le spalle, senza dare una risposta.
 Giacomo sentiva che quella notte avrebbe deciso le sorti di entrambi. Già con il loro primo bacio avevano abbattuto un muro che mai avrebbero potuto ricostruire, ma in quell'istante stavano decidendo se azzerare del tutto i confini insormontabili che li dividevano ancora.
 Caterina guardava lo stalliere con attenzione, amando il modo in cui la tiepida luce delle candele lo illuminava. I suoi capelli prendevano delle sfumature di castano meravigliose e i suoi occhi brillavano come pietre preziose. Il suo fisico era asciutto, le sue guance appena coperte da un sottile strato di barba e in ogni suo gesto c'era la freschezza e l'agilità dei suoi diciassette anni...
 Giacomo non riusciva più a capire nulla. La sua mente era completamente ingombra dal pensiero della sua signora, che gli stava davanti con una fierezza e un sicurezza che un po' lo spaventava e un po' o soggiogava. Si beava nel vederne i capelli color dell'oro e gli occhi di un verde stupendo, ricco di ramature più scure. Il suo corpo, velato dalle vesti da festa, era di una bellezza statuaria, morbido e solido allo stesso tempo, levigato e forgiato dagli allenamenti nel cortile e addolcito dal semplice fatto che quella donna era stata madre per sei volte.
 A quell'improvviso pensiero, Giacomo sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Ma che stava facendo? Perché era lì? Quella donna era stata sposata a un Conte, era la signora di Forlì e di Imola, era madre di sei figli ed era superiore a lui in ogni cosa...
 Mentre ancora pensava a tutte queste cose, Giacomo accolse di nuovo le labbra della sua signora, che aveva ripreso a baciarlo, continuando quello che avevano iniziato a fare prima dell'arrivo di Tommaso.
 Dopo qualche minuto, Giacomo trovò la forza di fermarla e dire, balbettando appena: “Non... Non dovrei essere qui.”
 Caterina lo zittì con un nuovo bacio e quella volta Giacomo non trovò più nulla da dire per farla smettere.
 Più andavano avanti, più entrambi perdevano coscienza di sé e del tempo che passava. Senza sapere bene chi dei due avesse preso per primo l'iniziativa, si scoprirono intenti a spogliarsi l'un l'altro, lentamente, eppure con urgenza, come se non ci fosse altro da fare per placare i loro istinti.
 Quando Giacomo restò con indosso solo le brache, Caterina ebbe un momento di esitazione. La pelle calda dello stalliere e il suo respiro rapido e irregolare le aveva fatto tornare nelle ossa un'antica paura, legata a suo marito Girolamo e a tutto quello che lui le aveva fatto.
 Giacomo percepì quella titubanza e così cercò di controllarsi e sussurrò, lentamente: “Io... Non ho mai... Ma voi... Credevo che... Eravate sposata... Avete sei figli...”
 Caterina capì il goffo tentativo di Giacomo di dirle che quel suo temporeggiare stonava con l'immagine che lui doveva avere di lei.
 “È solo che... Non sono mai stata innamorata di mio marito.” spiegò Caterina, rendendosi conto di quanto fosse forte quel sentimento che la stava spingendo tra le braccia di Giacomo.
 Forte almeno quanto era la forza che l'aveva allontanata da quelle di Girolamo.
 “In un certo senso, è una cosa nuova anche per me.” concluse Caterina, arrossendo per l'imbarazzo e per la consapevolezza che ormai era tutto deciso.
 Anche Giacomo comprese con chiarezza che ormai il Rubicone era stato attraversato e che non avrebbero più cambiato idea.
 Caterina riprese a baciarlo e a svestirlo. Questa volta fu Giacomo a sentirsi intimidito dalla situazione e quel brivido non sfuggì alla sua signora.
 Tuttavia, Giacomo non si arrestò, anzi, trovò il coraggio di togliere gli ultimi vestiti a Caterina.
 Quando vide il pugnale, nascosto sotto l'ultimo strato di stoffe, Giacomo deglutì e cercò lo sguardo della sua signora che, in tutta risposta, prese l'arma, la gettò in terra e disse: “Questo non servirà, stanotte.”
 Da quel momento, Giacomo si lasciò guidare in tutto e per tutto da Caterina, che assaporò appieno quell'assaggio di completo potere su quel giovane uomo.
 Le difese di entrambi erano ormai state abbattute. Caterina sentiva dentro di sé un fuoco molto più travolgente e caldo di quello che le si era acceso nel petto la prima volta che si erano baciati. Era qualcosa di più viscerale e incomprensibile. L'origine stessa della vita, della gioia e della paura.
 Ormai era deciso. Lo avrebbe amato, senza pietà, senza concessioni. Avrebbe vissuto quell'amore come avrebbe vissuto una guerra. Non le importava più della differenza di rango, della differenza d'età, o di quella d'istruzione.
 L'avrebbe amato con tutta se stessa, con crudeltà, se necessario, anche a costo di trovarsi contro la sua stessa famiglia, i suoi stessi figli, il suo stesso nome. Ormai non aveva altra scelta. Non avrebbe fatto prigionieri, perché l'amore, lo stava scoprendo quella notte, sa essere il più spietato e crudele dei mercenari.
 Il mondo, con la sua crudezza e la sua ingiustizia, le avrebbe dato battaglia, ma lei sarebbe stata una leonessa.
 Dunque lasciò fuori dalla sua camera tutte le perplessità e i dubbi. Spinse Giacomo sul letto, imponendosi su di lui senza trovare nessuna resistenza.
 E così, quella notte, lo fece suo.

 Quella notte Chiara Sforza e suo marito Fregosino non avevano avuto tempo per dormire.
 Stavano sistemando febbrilmente gli ultimi dettagli del loro piano. Presto si sarebbero separati e non c'era per loro la certezza di potersi rivedere.
 “Tra una settimana – diceva Fregosino, controllando una volta di più di aver messo il necessario nella bisaccia – sarò da mio padre.”
 “Starai attento?” gli chiese Chiara, passando una mano sulla cornice di marmo del caminetto spento.
 “Farò del mio meglio.” rispose l'uomo, con uno dei suoi sorrisetti furbi che tanto la intrigavano.
 Chiara ricambiò il sorriso con una strana malinconia nell'anima. Guardò fuori dalla finestra, aperta malgrado le zanzare che continuavano a entrare, e osservò Voghera che si stagliava grigia e triste davanti a lei, sotto la luce della luna.
 “Non torneremo mai più, vero?” chiese.
 Fregosino sospirò e, gettando da un lato il suo bagaglio, raggiunse la moglie alla finestra e, mettendo a guardare con lei fuori, le sussurrò all'orecchio: “No. Ma ti dispiace davvero, lasciarti alle spalle tutto questo?”
 Chiara deglutì e, dopo un ultimo sguardo a quella città addormentata, si voltò verso Fregosino e gli assicurò: “Nemmeno un po'.”
 “Bene.” annuì lui: “Allora, avanti, ripassiamo un'ultima volta il piano. Sai già con chi dovrai parlare, al porto, per cercare le navi che ci porteranno in salvo, quando verremo sconfitti?”
 Chiara si passò una mano sul collo: “Certo, lo so benissimo.”

 Caterina si svegliò lentamente e altrettanto lentamente le tornò alla mente quello che era successo quella notte.
 Sentì l'odore della pelle di Giacomo, steso accanto a lei. Ascoltò il suo respiro calmo e regolare. Era così pacifico...
 Avvertì la sua mano un po' ruvida ancora appoggiata sul suo fianco. Il calore del suo corpo era così vicino...
 La luce del mattino filtrava dalla finestra con la tipica prepotenza dell'estate ed era difficile capire che ore fossero. L'unica cosa certa era che nessuno doveva trovarli così.
 Con cautela, come se stesse facendo una cosa proibita, Caterina si mosse un po', tirando un po' la coperta su di sé. Quel breve movimento bastò a risvegliare Giacomo.
 Il ragazzo aprì gli occhi pian piano, inspirando il profumo della donna che gli stava accanto come se non esistesse altro al mondo.
 Quando incrociò il suo sguardo, un sorriso spontaneo gli balenò sul volto, prima di lasciare il posto al rossore.
 “Non dovrei essere qui.” sussurrò Giacomo, quasi a voler riprendere quello che aveva detto anche la sera prima.
 “Non dovresti.” concordò Caterina, che non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
 Giacomo comprese che la sua signora diceva sul serio e che se qualcuno – anche una delle fidate serve di Caterina – li avesse trovati assieme a quel modo, nel giro di mezza giornata, tutta Forlì avrebbe saputo quello che era successo.
 “Allora devo andarmene...” sospirò Giacomo, mettendosi a sedere.
 Caterina fece altrettanto e non si oppose, quando il ragazzo le diede un profondo bacio, passandole una mano lungo tutta la schiena.
 “Fai in fretta.” lo incitò Caterina, indicandogli i vestiti rimasti in terra: “Da oggi dobbiamo stare molto più attenti a non farci scoprire.”
 Giacomo lesse in quelle parole una promessa in cui non aveva sperato. Con quella frase la sua signora gli stava facendo capire che ci sarebbero stati altri incontri clandestini. Con quella frase gli stava ridando la vita.
 Giacomo si alzò dal letto, mentre Caterina rimase sotto le coperte. Lo studiò con attenzione, mentre lui si rivestiva. Ne cercava i difetti, ma non riusciva a trovarne. Aveva sentito dire che l'amore rendeva ciechi, ma averne conferma in modo così evidente la stupiva.
 “Allora vado...” fece Giacomo, quando fu pronto.
 Caterina annuì, tenendosi sempre le coperte addosso. Così il giovane si aprì in un grande sorriso e con un saltello si buttò sul letto per scoccarle un ultimo bacio.
 “Dai, va', cos'aspetti...!” ridacchiò Caterina, sorpresa dall'entusiasmo di quel ragazzo, che era come acqua fresca, rispetto alle greve presenza che era stato per anni Girolamo.
 Giacomo si rialzò, si diede una sommaria sistemata ai capelli e uscì, dedicando a Caterina un ultimo sguardo sognante.

 “Direi che il mio compito qui è concluso.” disse Raffaele Sansoni Riario a Ottaviano: “Voi avete ottenuto il vostro titolo e sono certo che presto vostra madre vi rivorrà a Forlì, visto che la questione faentina si sta risolvendo...”
 Ottaviano ascoltava il Cardinale con un certo distacco. Non voleva che Raffaele se ne andasse. In un certo senso era come riavere suo padre, per di più in una versione più affidabile e meno violenta.
 “Resterò in contatto con tutti voi.” rassicurò l'uomo, lisciandosi la veste con entrambe le mani: “Ma capite bene che ho i miei affari da gestire a Roma...”
 Ottaviano annuì, con un nodo alla gola. Perché tutti quelli a cui si affezionava lo dovevano lasciare?
 “Siate un figlio ubbidiente.” proseguì Raffaele, guardando il viso di Ottaviano, che gli ricordava in modo impressionante quello di Girolamo: “Date ascolto a vostra madre e state sempre in guardia. Se qualcosa vi turba, non esitate a contattarmi. Anche per le cose che vi sembrano di minor importanza. Io ci sarò, va bene?”
 Il bambino annuì con forza e, per quanto avesse cercato di evitarlo, cedette a un moto di affetto verso il Cardinale, saltandogli al collo per abbracciarlo.
 Raffaele lasciò che il piccolo indugiasse in quell'esternazione e poi gli diede una paterna carezza sulla testa: “Siete un bravo fanciullo, Ottaviano. Conservatevi sempre così.”
 “Quando ripartirete?” chiese il bambino, con voce appena incerta.
 “Oggi è l'ultimo del mese... Domani o dopo. Prima voglio parlare con vostra madre.” rispose Raffaele, sorridendo benevolo, sperando davvero che non insorgessero contrattempi prima della sua partenza.
 Per quanto si trovasse bene a Imola, non sopportava più la lontananza dallo sfarzo di Roma.

 Cobelli stava ultimando l'ennesimo scudo con lo stemma della famiglia Sforza Riario accanto a quello degli Ordelaffi.
 Era certissimo che di lì a poco tutti avrebbero voluto qualcosa con quella nuova effige dipinta sopra. La vipera e la rosa con accanto il leone verde. Quello sarebbe stato il nuovo simbolo della città, non appena le nozze fossero state celebrate!
 Ormai era cosa certa, dunque perché indugiare. Con la sua arte nella pittura, Cobelli aveva unito le notizie raccattate in giro e la sua abilità, sperando di farci un sacco di soldi. Da giorni andava decorando scudi, stendardi, bastoni e quant'altro con lo stemma che avrebbe visto unirsi gli Sforza Riario agli Ordelaffi.
 Aveva centellinato le notizie, con quelli che andavano da lui a informarsi sul futuro della città. Sapeva che il Novacula, suo acerrimo nemico per quel che riguardava la storiografia cittadina, non si era ancora pronunciato apertamente né in favore né contro quelle nozze, ma sapeva che alla fine avrebbe fatto il suo solito giochetto, dicendo con tutti che era stato lui il primo a far circolare la notizia.
 Tutte storie, come sempre...! Se c'era un valido cronista a Forlì, quello era Cobelli, niente da fare!
 E poi, e questi erano i fatti che più rassicuravano Cobelli, la notizia di quel matrimonio gli era stata confermata in ben due modi. Prima di tutto, un ferrarese di passaggio gli aveva assicurato che qualche giorno addietro era giunta a Ferrara una lettera autografa dell'Ordelaffi in cui si annunciavano le nozze. E, secondariamente, Cobelli era da tempo amico con il castellano Tommaso Feo, che gli aveva fatto sapere – per vie traverse, non potendo uscire egli da Ravaldino – che l'Ordelaffi faceva visite sempre più serrate alla Contessa e che andando avanti così, presto ci sarebbe stato un matrimonio.
 Con un ultima pennellata di verde, Cobelli ritenne concluso il decoro dello scudo a cui stava lavorando.
 Lo rimirò un momento, si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano e poi sussurrò, tutto soddisfatto: “Famiglia Sforza Riario Ordelaffi, il futuro di Forlì.”

 Quel giorno per Caterina fu difficilissimo concentrarsi sugli affari di Stato.
 La sua memoria continuava a riproporle immagini della notte appena trascorsa e il suo istinto la portava a fiutare il pericolo, pur senza volerlo più sfuggire.
 Sapeva che nel momento stesso in cui qualcuno avesse anche solo sospettato che lei e Giacomo erano diventati amanti, lui sarebbe stato in pericolo. Saperla legata a qualcuno, l'avrebbe resa più vulnerabile. Avrebbero avuto qualcosa con cui ricattarla.
 Il mondo aveva visto che minacciare di morte i suoi figli non era bastato, ma di sicuro i suoi prossimi nemici non si sarebbero fatti scrupoli a vedere se cambiando ostaggio le trattative sarebbero state più agevoli.
 Così per quel giorno evitò di incontrare Tommaso Feo, temendo che per qualche strana ragione lui potesse indovinare con un solo sguardo la verità. Si limitò a sbrigare la corrispondenza e controllare i conti, disertando tanto il cortile d'addestramento quanto le zone della rocca in cui avrebbe potuto incontrare il castellano.
 Nel tardo pomeriggio arrivò a palazzo una lettera da Imola, da parte del Cardinale Sansoni Riario. Caterina se l'aspettava. Il cugino del suo defunto marito la informava che ormai era per lui tempo di tornare a Roma per occuparsi di alcuni suoi affari lasciati in sospeso.
 Caterina gli scrisse di rimando che gli era grata per quello che aveva fatto fino a quel giorno, ma che se era il suo volere, era liberissimo di andare.
 Appena il Cardinale si fosse defilato, Caterina avrebbe richiamato a Forlì i suoi figli e avrebbe cercato di far funzionare le cose. Doveva farcela. Ne andava della sua felicità e quella era la cosa che più le interessava, arrivata a quel punto.
 Quella sera, dopo cena, congedò prima del solito la sua cameriera personale, dicendole che si sarebbe cambiata più tardi da sola.
 Appena la domestica fu lontana, Caterina guardò fuori dalla porta, sicura che nel buio del corridoio ci fosse in attesa qualcuno.
 Le sue speranze non vennero deluse. Appena riuscì a mettere a fuoco, dall'oscurità arrivò Giacomo che, senza attendere un esplicito permesso, la raggiunse immediatamente.

   
 
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