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Autore: Adeia Di Elferas    06/05/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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 I vicoli di Genova erano deserti. L'unico rumore che si sentiva in città era dato dal battere incessante degli zoccoli dei cavalli lanciati nelle loro folle corsa verso la fortezza di Castelletto.
 Solo lì Paolo e suo figlio, Fregosino, e i pochi uomini che ancora li seguivano avrebbero potuto trovare la salvezza.
 I Fieschi e gli Adorno avevano solo fatto buon viso a cattivo gioco o forse, più semplicemente, avevano deciso di darla vinta a Milano senza più opporsi, nemmeno a parole.
 Addirittura Battista Fregoso, loro parente, si era unito ai nobili rinsaviti e si era messo ad appoggiare strenuamente la posizione degli Sforza, auspicando una rapida risoluzione dei conflitti.
 Paolo Fregoso si era così visto cadere addosso tutto il suo mondo. Dall'essere l'uomo più importante per Ludovico il Moro a Genova, ora si trovava a ricoprire la scomodissima posizione di ricercato e ribelle.
 Prima il reggente del Duca aveva fatto sì che il suo Fregosino sposasse Chiara Sforza – una mela marcia, secondo Paolo – spingendolo subito a combattere per lui a Novi, strappando una città fondamentale per il controllo delle terre genovesi.
 Ora, con una beffa i fiorentini avevano strappato Sarzana al Moro, e questi, con maestria, aveva sfruttato la sconfitta annunciata per isolare Paolo Fregoso, mettendogli contro anche i Fieschi e gli Adorno, comprati a suon di monete.
 Gli stessi Fieschi e Adorno che ora li stavano inseguendo senza sosta nelle strade più strette della città.
 “Avanti, avanti!” incitava Fregosino, guidando la colonna di fuggiaschi.
 “Non fateveli scappare!” sbraitava a qualche metro di distanza Agostino Adorno, tronfio per il nuovo titolo di Governatore di Genova che il Moro gli aveva affibbiato per tenerlo calmo.
 “Forza!” gridò ancora Fregosino, alzando in aria la spada, come a guidare i suoi verso la fortezza.
 Paolo lo seguiva, esattamente come gli altri, fidandosi ciecamente di lui. Era lui quello giovane, quello che aveva la testa e la prontezza necessarie per cavarsela in quella fuga.
 Avevano dato battaglia per oltre mezza giornata, ma era stato chiaro che sarebbero morti invano, se non avessero deciso per la ritirata. Dunque Paolo non si era opposto e avevano cominciato a scappare.
 La fortezza di Castelletto cominciava a vedersi, in lontananza, sotto al sole cocente di quell'8 agosto e Paolo sentì il cuore riaprirsi nel petto.
 Là c'erano soldati che non l'avrebbero mai tradito. Forse sarebbe stato comunque il preludio della fine, ma almeno non sarebbe morto quel giorno.
 “Avanti!” ululò ancora una volta Fregosino, gli occhi stretti nel fendere l'aria con la sua incredibile velocità e, nel cuore, la sola speranza di vivere abbastanza da poter rivedere almeno una volta sua moglie.
 Suo padre non aveva mai capito Chiara. La riteneva una sciocca, una donna volubile e permalosa, ma non lo conosceva...
 Se fossero usciti vivi da quella giornata infernale, avrebbe avuto modo di avvicinarsi a lei con un altro spirito. Quando avesse scoperto che quella donna meravigliosa era stata tanto coraggiosa da agire da sola, mentre loro combattevano, assicurando loro una via di salvezza...
 “Avanti! Veloci!” ringhiò Fregosino, sempre in testa ai suoi, sperando di raggiungere la fortezza prima di essere ricatturato dagli Adorno e dai Fieschi.
 
 Dato che il caldo non demordeva per nessun motivo, una volta partito il Cardinale Sansoni Riario, Caterina decise di trasferirsi per qualche settimana nella villa che tutti chiamavano Giardino, in aperta campagna.
 Con Tommaso Feo alla guida di Ravaldino e Babone come bargello, lasciava Forlì senza troppe preoccupazioni. Inoltre, essendo comunque molto vicina, avrebbe potuto raggiungere in breve tempo la città, in caso di bisogno.
 L'unica cosa che voleva era starsene un po' in pace e tranquillità con la sua famiglia, e con Giacomo, che era stato intruppato – apparentemente in modo casuale – tra i servitori che avevano accompagnato la contessa al Giardino.
 Le giornate di quell'agosto passavano lente e cadenzate da piccoli riti quotidiani a cui Caterina si stava lentamente assuefacendo.
 Al mattino, specialmente se c'era già troppo caldo, partiva di buon ora per andare a cavalcare o provare a cacciare qualcosa. In quelle occasioni portava spesso con sé Ottaviano, Cesare e Bianca, lasciando la sorella alla villa assieme alle balie e ai figli più piccoli. Ottaviano si sforzava di dimostrarsi un bravo cacciatore, ma il più delle volte falliva il colpo e mancava la preda. Cesare voleva imitare il fratello, ma quando stava per uccidere un animale, si fermava, impaurito in egual misura dal rischio di fallire e dall'idea di uccidere un essere vivente. Bianca, invece, non prendeva parte attiva alla caccia, limitandosi a godere della compagnia della madre e dei fratelli.
 Nel pomeriggio, invece, Caterina si dedicava o alle sue piante officinali, o all'esercizio con la spada sempre assieme ai figli più grandi. Voleva recuperare tutto il tempo perso, voleva riscoprire con loro un legame più saldo di prima, perché ora che Girolamo era morto, era lei il loro unico punto di riferimento.
 Ottaviano sembrava compiaciuto da quell'improvviso interessamento a tutto tondo della madre, ma, più i giorni passavano, più si rendeva conto che con l'inizio dell'inverno le cose sarebbero tornate esattamente come un tempo. Avrebbero fatto ritorno a Forlì e lì sua madre sarebbe stata di nuovo assorbita da altri impegni, da altri pensieri...
 Alla sera, Caterina si ritirava presto, con la scusa di voler riposare in vista della levataccia mattutina, mentre, in realtà, ogni notte aveva un appuntamento con Giacomo, che l'attendeva con pazienza e discrezione, ben deciso ad assecondarla nel suo volere di mantenere ogni cosa segreta.
 Lo stalliere restava quasi tutto il giorno coi cavalli, interagendo con la famiglia solo raramente. Non aveva nemmeno più preso parte agli allenamenti di Ottaviano, convinto che il ragazzino, tutt'altro che ottuso, avrebbe capito tutto con un solo sguardo.
 Così, in quella routine, le giornate estive stavano rinfrancando l'animo di Caterina che, dopo tanto tempo, si sentiva amata e appagata, al sicuro e incredibilmente fortunata.

 “Quella maledetta...” sbuffò Ludovico, gettando di lato il messaggio appena arrivato da Genova.
 Era appena stato informato che i Fregoso erano riusciti a rintanarsi nella fortezza di Castelletto e che non avrebbero lasciato la loro posizione, se non combattendo o per un ottimo prezzo.
 “Se mia nipote non l'avesse spinto ad appoggiare suo padre, adesso Fregosino sarebbe ancora al mio servizio e ci avrebbe pensato lui a smontare la difesa della sua famiglia...” rimuginava Ludovico, certo che dietro la decisione di Fregosino altri non ci fosse se non Chiara.
 “Quella maledetta non vedeva l'ora di farmela pagare...” mugugnò.
 Calco, che stava controllando anche il resto della corrispondenza, lo guardava di sottecchi senza dire nulla, pensando che il caldo stesse dando alla testa al suo signore. Figurarsi se quella ragazzina era stata così determinante in una questione tanto delicata...!
 “Per ora non facciamo nulla.” decretò alla fine Ludovico: “Dite solo ai Fieschi e agli Adorni di non lasciarli scappare, di chiudere loro ogni possibile via di fuga... Prima o poi cederanno. Non possono restare chiusi in quella fortezza per sempre.”
 “Come desiderate.” annuì Calco.
 “Le mie nipoti mi faranno impazzire!” commentò Ludovico, asciugandosi la fronte con una manica.
 Occuparsi di affari di Stato nell'agosto milanese era quanto meno una tortura. Se solo fossero stati anni più pacifici...!
 “A proposito di nipoti...” prese a dire Calco, con una certa cautela: “Ci sarebbe la storia di Gian Galeazzo...”
 Ludovico si accigliò: “Cioè?”
 “Ecco, i medici mi hanno riferito questa mattina che la sua salute è sempre incerta. Benché gli sia stato detto di curarsi nel cibo e nel bere, di riposarsi e non fare sforzi, egli continua a mangiare e ubriacarsi senza regole, andando continuamente fuori a caccia coi suoi cani, ridendo alle parole dei dottori...” spiegò il cancelliere.
 Ludovico trattenne un sorrisetto: “Gian Galeazzo sta molto meglio di me, se ha tutta questa voglia di andare a caccia. Ma che gli aveva messo in testa, ai suoi figli, il mio povero fratello? Tutti pazzi con la caccia o le armi...!” scosse il capo: “In ogni caso... Entro dicembre dovrà essere in buona salute. Non voglio incidenti diplomatici con gli Aragona. Se dovessero pensare che voglio rifilare a Isabella un partito difettato, potrebbero risentirsene.”
 Calco chinò appena il capo, prendendo un appunto.
 Ludovico sospirò e aggiunse: “Comunque continuate pure a recapitare al castello di Pavia le casse di quel vino che gli piace tanto... Almeno quello glielo lasciamo.”
 “Come il mio signore comanda.” concordò Calco, aggiungendo una postilla alla sua agenda.
 
 Antonio Maria Ordelaffi si era presentato anche al Giardino, in barba alla lettera mandata da uno dei consiglieri di Caterina – l'ex ambasciatore Francesco Oliva – in cui lo si pregava di sospendere le sue visite almeno fino al ritorno in città della Contessa.
 Caterina non lo volle scacciare, malgrado fosse arrivato proprio mentre la donna stava trafficando con le sue provette da alchimista. Dato che era lì, tanto valeva lasciargli fare il suo siparietto.
 Ordelaffi parlò molto del clima, della campagna e di quanto fosse incantevole il Giardino. Insomma, in oltre mezz'ora in realtà non disse proprio nulla.
 Caterina non riusciva a seguire i suoi discorsi. Di quando in quando annuiva appena o forzava un sorriso. Non poteva evitare di pensare a tutti i modi più costruttivi in cui avrebbe potuto usare quel tempo. Una battuta di caccia, due tiri di spada, la lettura di un buon libro. Un incontro con Giacomo...
 “E così mi chiedevo...” stava dicendo Antonio Maria, appena più agitato del solito: “Quando potremmo cominciare a parlare di una data...”
 Caterina non lo stava minimamente ascoltando. Aveva gli occhi fissi su di lui, ma la sua testa stava veleggiando in tutt'altra direzione.
 Ordelaffi interpretò il silenzio che seguì alle sue parole come un implicito incoraggiamento a proporre egli stesso una data.
 “Potremmo fare... In autunno, magari?” provò.
 Solo a quel punto Caterina si costrinse a fare attenzione: “In autunno cosa?” chiese, cadendo dalle nuvole.
 Antonio Maria si accigliò: “Non mi stavate ascoltando, vero?”
 Caterina simulò un minimo di imbarazzo, fece un sorrisetto tirato e si portò una mano alla fronte: “Perdonatemi, ma oggi ho un fortissimo mal di testa... Forse dovremmo interrompere qui il nostro colloquio.”
 L'Ordelaffi incassò con buonagrazia e si congedò praticamente immediatamente, chiedendosi quanto ci fosse di vero in quella scusa.
 Quando l'uomo lasciò il Giardino, Caterina si diede da sola della stupida. Si era distratta quando non avrebbe dovuto. Suo padre glielo aveva sempre detto: non si dorme, mentre si è a caccia.
 
 Quella mattina, appena tornata da una breve cavalcata, Caterina era stata chiamata dall'Oliva, che le aveva consegnato la corrispondenza appena giunta alla villa.
 C'era una lettera di Lucrezia, indirizzata sia a lei sia a Bianca. Caterina la lesse rapidamente, per accertarsi che sua madre stesse bene e poi la passò subito alla sorella.
 “Dille che può tornare quando vuole. Anche con Gian Piero e tuo fratello.” le disse, dando voce a un desiderio che aveva ormai da tempo.
 Riavere sua madre accanto sarebbe stato il coronamento di un quadro familiare ideale, ma cominciava a capire che Lucrezia non si sarebbe mossa da Milano, se non avesse potuto portare con sé il marito e il figlio.
 La seconda lettera era, incredibilmente, da parte di suo fratello Gian Galeazzo, che non le scriveva da secoli.
 Era breve, ma in quelle poche righe Caterina ritrovò appieno lo spirito inquieto che suo fratello aveva anche quando era piccolo.
 Le annunciava il suo matrimonio con Isabella d'Aragona, che avrebbe avuto luogo in dicembre per procura a Napoli e in febbraio a Milano in modo ufficiale.
 Le diceva di essere già pazzo della futura moglie e di volerla incontrare al più presto, per poterla finalmente conoscere. Caterina ne sapeva abbastanza di matrimoni combinati per avere qualche perplessità in merito all'entusiasmo di suo fratello Gian Galeazzo, tuttavia non volle giudicarlo.
 In chiusura, il giovane le chiedeva di intercedere presso Ludovico, trovando un modo per convincerlo a lasciare che Bona, ancora in isolamento, potesse almeno presenziare alle sue nozze.
 Caterina rilesse quella frase almeno cento volte. Con quelle parole suo fratello la stava sollevando da un peso enorme. Sua madre Bona era ancora viva e probabilmente in buona salute, se Gian Galeazzo la voleva alle sue nozze.
 Se era davvero ancora al castello di Pavia, luogo in cui si era trasferito Gian Galeazzo, forse il giovane aveva anche modo di vederla e parlarle.
 Caterina si ripromesse di provare davvero a forzare Ludovico, come meglio poteva, in tal senso e decise che avrebbe chiesto notizie più precise a suo fratello in merito a Bona. Da anni, quella era la prima volta che riceveva sue notizie e non avrebbe potuto esserne più felice.
 La terza lettera, infine, arrivava dalla corte di Ludovico ed era autografa di suo zio.
 Caterina cominciò a leggerla, immaginando che il Moro le avesse scritto solo per ricordarle una volta di più il debito di coscienza che lei aveva nei suoi confronti, auspicandosi che presto avrebbe trovato un modo per sdebitarsi adeguatamente.
 Invece, più proseguiva, più si rendeva conto che il tono del messaggio era di tutt'altro tipo.
 'Mi sono giunte voci certe da miei amici in Ferrara – aveva scritto Ludovico – secondo cui un pretendente vi ha infine fatta capitolare. Egli è Antonio Maria Ordelaffi, così mi dicono, e con voi avrebbe in animo di far grande Forlì.'
 Caterina teneva il foglio tanto vicino al viso che quasi la vista le si incrociava.
 'Se davvero avete in animo di risposarvi, benché io creda che così pochi mesi di lutto siano quanto meno di cattivo gusto – proseguiva la lettera – vi rammento quello che ho fatto per voi in aprile. Fu un impegno notevole, per me, dunque in cambio mi aspetto non solo di essere interpellato in merito a un vostro matrimonio prima di chiunque altro, ma anche di aver voce in capitolo e poter aver diritto di veto sulle vostre scelte.'
 Era semplicemente ridicolo. Tutto quanto. A partire dalla notizia delle nozze, fino alla pretesa del Moro di mettere il becco negli affari di Caterina...
 'Trovo molto sconveniente il fatto che Ferrara abbia saputo prima di Milano. Inoltre ho scoperto che in Forlì già tutti sanno dei vostri piani, e che lo storiografo della vostra città va riferendo in giro ogni dettaglio sul vostro fidanzamento e sul vostro prossimo matrimonio.'
 “Ma che...?” sussurrò Caterina, incredula.
 'Dunque attendo vostra pronta risposta, affinché mi spieghiate meglio.' concludeva il Moro, allegando poi i solito pomposi saluti di rito.
 Caterina soppesò per qualche minuto quella pericolosissima lettera. Se i ferraresi si erano permessi di scrivere a suo zio per parlare di quel matrimonio, significava che la voce non era più ritenuta un semplice pettegolezzo, ma una certezza.
 Lo storiografo... Caterina scosse con forza il capo, certa che no, non poteva essere...
 Però suo zio non era un uomo che si sbilanciava a quel modo per niente. Se aveva parlato di uno storiografo, significava che davvero qualcuno gli aveva riferito qualcosa in merito.
 Infilandosi la lettera di suo fratello in una delle tasche segrete del suo abito e nascondendo quella del Moro in uno dei cassetti della scrivania, Caterina partì a passo di marcia verso le stalle.
 “Dove state andando?” chiese piano Giacomo, porgendole le redini, non appena le ebbe sellato un cavallo.
 Caterina non gli rispose, prendendo i finimenti e salendo in sella.
 Giacomo finse di non dar peso a quel silenzio, anche se in realtà quella reticenza lo avviliva. Con quel silenzio, Caterina gli stava facendo capire che ella non gli doveva rendere conto di dove andava. Semplicemente non gli spettava quel privilegio.
 La sua signora lo aveva rimesso al suo posto, senza nemmeno aprir bocca.
 In quel silenzio si celava la grande verità che li costringeva a nascondere a tutti il loro amore: lei era la Contessa, lui solo uno stalliere.
 Lui poteva amarla, poteva baciarla e sussurrarle tutta la sua passione, ma non avrebbe mai potuto essere un suo pari.
 “Torno prima di sera.” annunciò Caterina, appena prima di lasciare la stalla.
 Giacomo le sorrise, facendo un breve cenno con il capo, trattenendo a stento la tentazione di correrle dietro e salutarla con un bacio.

   
 
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