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Autore: Relie Diadamat    10/05/2016    3 recensioni
Merlin, ventenne suonato, si ritrova costretto a lavorare al fianco del suo inseparabile Asino, nel bar aperto da quest'ultimo. Con loro c'è Freya, la dolce ed ingenua fidanzata di Merlin, che Arthur detesta.
Tutto cambia un giorno, quando il giovane Pendragon rivela ai suoi colleghi un cambio di programma.
*
[Dal Cap. 1]
«Non saremo i soli a gestire il bar.» continuò Arthur, serrando lievemente la mascella, evidentemente quella non era stata una scelta del tutto condivisa dal biondino «Mia sorella Morgana ed il suo fidanzato Mordred saranno dei nostri.»
Il cervello del corvino si resettò in un lampo.

*
[Cap. 6]
«Io non voglio condividere proprio niente con te, Aridian.» sibilò, serrando lo sguardo.
«Strano…» Unì tra loro le mani, aggrottando la fronte «La droga la dividevi volentieri.»

*
[Cap. 13]
«Quella stronzata che sono attratto dal tuo ragazzo. Come ti è venuta in mente una cosa simile?»
«Perché io ti ho visto, Arthur. Ho visto cosa diventano i tuoi occhi quando lo guardi».

*
[Cap 11]
«Io ti avrei amata per sempre».
*
*
[Freya/Merlin/Arthur] [Mordred/Morgana/Merlin] [Freya/Merlin/Morgana] [Merlin/Arthur/Mithian] [Elyan/Mithian/Arthur] [Kara/Mordred/Morgana] [Freya/Gwaine]
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Freya, Merlino, Morgana, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù, Merlino/Morgana
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Nda: Buon salve!
No, non sembra vero neanche a me. 
Sono passati davvero molti mesi dall'ultimo aggiornamento e di questo mi dispiace, anche perché a questa storia tengo molto. Voi avete continuato a recensire, ad aggiungerla nelle varie categorie ed io non potrei essere più soddisfatta di così.
Ritorno con un capitolo abbastanza lunghetto (mi faccio perdonare per l'assenza, lol), che originariamente doveva essere ancoora più lungo. (Chi ha letto lo spoiler in pagina sa!).
Perché intrattenervi ancora? Perché voglio che sappiate che non ho dato il meglio di me, che stavolta non sono sicura del risultato (quel che andava scritto è stato scritto, ma è il modo che non mi aggrada).
Celtica avrà sicuramente modo di contraddirmi e la ringrazio enormente per questo.
Che altro dire? Dedico questo capitolo (poveri voi) a tutti coloro che ci sono per questa storia, in paricolar modo: la dolcissima Eurydike (risponderò il prima possibile alla tua stupenda recensione, promesso!) che mi ha spinta a riprendere questa storia tra le mani con le sue bellissime parole e alla mia carissima Celtica che mi è stata accanto, che mi ha supportata e sopportata, che ormai è una cara amica. Poi alla mia piccu Lexie, perché mi riempie la vita come nessun altro è stato mai in grado di fare.
Detto questo, giuro che smetto di scrivere e, se volete, ci vediamo alle note finali. NB: Il simbolo (*) indica un passaggio da passato a presente e viceversa.
A voi la parola.
Buona, spero lettura!
 

IXX. “… E mangiarono Amatriciana tutti  infelici e scontenti”.
Soundtrackclick

"La vita dell'uomo è fatta di scelte: sì o no. Dentro o fuori. Su o giù. E poi ci sono le scelte che contano. Amare o odiare. Essere un eroe o essere un codardo. Combattere o arrendersi.
Vivere o morire.
Vivere o morire. Essere un eroe o un codardo. Combattere o arrendersi.
 
Lo dirò di nuovo per essere sicuro che tu mi senta: la vita umana è fatta di scelte. Vivere o morire: questa è la scelta importate.
E non sempre dipende da noi. "
- Grey's Anatomy
 
 
ATTENZIONE
Il capitolo non ha lo scopo di offendere né vegani, né animalisti, né donne.
Vi prego di non maledire l'autrice per ciò che ha scritto.

 






Caldo, era decisamente strano che nel mese di Giugno sentisse così caldo. Di solito indossava sempre il suo giubbotto, anche in auto, con l’aria condizionata spenta; anche se la macchina non era sua, chiedeva sempre di spegnerla o, al massimo, stringeva le braccia al petto. Quel giorno, il giubbotto lo portava a mano, con la fronte grondante di sudore.
Il lavoro, il bar… Tutto sembrava essersi complicato in un battito di ciglia e, sempre in un baleno, era diventato difficile da sostenere e tremendamente faticoso. Erano quelli i suoi pensieri, quando recuperò il mazzo di chiavi dalla tasca dei jeans scoloriti, facendo qualche passo a testa bassa verso il portone.
Neanche ci aveva fatto caso a lei, salito il terzo gradino, finché non sollevò distrattamente lo sguardo in avanti.
La ragazza era seduta sulle scale di marmo, asciutte e rivestite da uno strato di nero che, probabilmente, le aveva sporcato parte della camicia bianca o della gonna blu, ma ciò che catturò la sua attenzione furono quegli smeraldi a metà tra l’essere sorpresi e lieti della fine di un’attesa. E forse anche un po’ impauriti, come gli occhi di una persona che sta per affrontare una scelta dolorosa, difficile, alla quale non può sottrarsi. Qualcosa che in lontananza somiglia ad un compito di Fisica mentre pomeriggi e pomeriggi fa si era fatto di tutto tranne che aprire il libro, ma che da vicino sembra qualcosa di più grande.
Vide le sue labbra carnose, tinte di un rosso che conosceva fin troppo bene, schiudersi e comprimersi in un gesto nervoso, e le sue mani chiare volare sulle sue ginocchia, senza rimettersi in piedi.
La distanza tra loro era tale da permettere ai visi di non abbassarsi o alzarsi eccessivamente.
A ripensarci bene, pensò a quel punto, l’aria era abbastanza umida per essere Giugno.
«Ho fatto una scelta», la sentì parlare.
Le sue parole non erano delicate, non erano dolci. Sembravano solo parole.
Non rispose. Si limitò a guardarla, a guardare i suoi capelli neri che le cadevano sulle spalle.
«Ho fatto una scelta», ripeté. «E vorrei che tu fossi dalla mia parte».
 
 




2 giorni prima…
 




«Io… non so cosa sia successo».
Il fumo biancastro del tea danzava fluidamente in aria, in un movimento ondulatorio, innalzandosi dalla tazza di ceramica, sulla quale sembrava essere stata dipinta da molto tempo una frase italiana, estrapolata da una canzone, con il blu.
Gaius era seduto in soggiorno, sulla sua poltrona, a massaggiarsi stancamente gli occhi. La mattina non se ne stava mai seduto in casa e difficilmente metteva qualcosa sotto i denti; preferiva uscire in giardino, quello sul retro, a prendersi cura dei fiori, quelli che Alice amava.
Camminare tra l’erba fresca e verde, sfiorare con i polpastrelli i petali colorati dei fiori baciati dal sole, era un momento intimo ed esclusivo, riservato solo a lui e ad Alice. Quando era in compagnia, Gaius non ci metteva mai piede. Li osservava da lontano, dalla finestra, col pensiero.
«Lui era lì, ad un passo da me… lui è sempre lì, ad un passo da me».
Freya parlava a voce bassa, lo sguardo chino sul piccolo tavolo, facendo scivolare i suoi occhi di terra umida tra biscotti e fette di limone galleggianti. Parlava come un colpevole risentito, un carnefice che finiva con l’identificarsi con la vittima.
Gaius non aveva detto una parola contro di lei, nemmeno quando se l’era ritrovata a bussare il campanello, timidamente, per due volte. L’aveva fatta entrare, lasciandosi sfiorare la guancia destra con quella della ragazza in un saluto imbarazzato, fingendo di credere alle sue parole, alle sue buone intenzioni, al fatto che volesse per davvero assicurarsi che mangiasse qualcosa la mattina. «Merlin continua a ripetermi di imboccarti a forza, se necessario», gli aveva detto dirigendosi in cucina, sorridendo da copione, per circostanza.
In quel momento, con i lunghi capelli castani che le coprivano parte del volto, Freya stringeva le mani in grembo come per frenarsi, tacere, immobilizzare la sua coscienza. Gaius, però, la capiva: leggeva il suo corpo cogliendo i suoi sentimenti, e ciò che vedeva non gli piaceva affatto. «Direi che è un bene, no? Si sta dimostrando premuroso».
«Sì, lo è…» ammise, con una smorfia strana.
 Gaius sollevò le iridi chiare sulla figura della giovane. Poteva vedere i raggi che penetravano dalla finestra riflettersi nei suoi capelli d’ebano, la pelle chiara in contrasto con la maglietta rossa che teneva indosso quella mattina, ma non i suoi occhi. Quelli erano bassi, fissi su fette biscottate e sul latte contenuto nella bottiglia di vetro. «Non…» L’anziano cercò con cura le parole, navigando ad occhi aperti indietro nel tempo, quando sul divano verde del soggiorno c’era seduta una ragazzina dai capelli biondi e le labbra rosse come petali di rosa. «Non ne sei felice?»
La vide sospirare come una persona alla quale manca l’aria. «Ma sì, certo che sono contenta, ma…»
«Ma?»
Freya scosse il capo, trovando finalmente il coraggio che le mancava. Lo guardò negli occhi, come chi decide di mettersi a nudo per la prima vera volta. «Non è ciò che voglio. Credevo, pensavo di volerlo, ma non è così. Mi sento… oppressa e stanca. È come se, ogni volta che lui mi toccasse, ogni volta che si avvicinasse, prendesse qualcosa da me. Ed io mi sento sempre più vuota, e più stupida e più usata. È come se sentissi sul suo corpo un altro odore e io…»
Gaius non proferì parola. La lasciò riflettere, combattere contro le parole che picchiavano contro i denti stretti pur di uscire e farsi sentire. Parole esauste, stufe di starsene nascoste in un corpo, in silenzio.
«Ed io ho finto. Ho finto di non ascoltarlo, di avere gli occhi chiusi, di parlare nel sonno. Ho cercato la via d’uscita più facile… e l’ho colpito!»
L’ex medico militare strabuzzò gli occhi nell’udire quel che a prima vista pareva la fine del discorso, chiedendosi se fosse realmente il caso di preoccuparsi e chiamare alla svelta il 999, temendo di ritrovare il suo Merlin in una pozza di sangue, mentre Freya continuava a pugnalarlo con freddezza, mordendosi il labbro accecata dalla rabbia, dal rosso... Ignorando del tutto il fatto che la ragazza fosse andata avanti col suo monologo.
«… Per ben due volte!»
«… Due volte?» chiese in un filo di voce l’anziano, più pallido del solito – probabilmente, già immaginando dove la ventenne potesse aver nascosto il cadavere, o se fosse ancora in bella mostra sul pavimento della cucina.
«Sì, è una cosa stupida, lo so – ero anche tentata nel ripeterlo più volte -, ma il fatto è che lui… non ha fatto niente. Lui… si è staccato in modo brusco, si è allontanato come se avesse ricevuto una scarica elettrica. Non gli è cascato il mondo addosso, lui non ce l’ha a morte con me, lui è altrove. Anche quando siamo solo io e lui, è altrove. Pensa ad altro, non è mai con me neanche quando è al mio fianco, neanche mentre mi stringe a sé. E io so già dove navigano i suoi pensieri, so a chi pensa mentre mi stringe o tutte le volte che mi guarda negli occhi senza dire nulla, e io non voglio più che lui mi tiri a sé, non ho bisogno di lui così e io… ho bisogno di aver bisogno di lui».
Gli’era piaciuta fin dal primo momento quella ragazza (soprattutto ora che aveva appreso che Merlin fosse ancora vivo); c’era qualcosa in lei, oltre il castano scuro dei suoi occhi, che splendeva. Non era una luce accecante come quella del Sole, era un frammento di colore depositato in lei e molto spesso tenuto a riposo per paura, per timore che qualcuno potesse eclissarla.
L’anziano tirò su un angolo della sua bocca invecchiata, tentando di sporgersi verso di lei. «Mi ricordi tanto una vecchia amica».
Sorrise imbarazzata. Il primo sorriso del mattino.
«Lei…» Gaius lasciò scivolare lo sguardo appena oltre la ventenne, tentando di afferrare con la mente vecchi ricordi lontani di anni andati, di un’altra Londra e di un’altra vita. «Lei era speciale ma non sapeva di esserlo. Sorrideva spesso e quand’era di cattivo umore canticchiava.» Una leggera risata muta, a labbra chiuse. «Sapessi quante volte abbiamo litigato per quella chitarra che si portava dietro… Eppure era impaurita. Amava e odiava questa vita con tutta la sua anima da esserne spaventata.
«E tu… Tu me la ricordi molto», le disse allora, indicandola col palmo aperto e vide comparire sul volto di Freya vero interesse, mentre un’onda di fumo caldo gli sfiorava la pelle. «Se c’è qualcosa che non va, qualcosa che ti opprime e t’impedisce di essere te stessa, devi affrontarla. Devi guardare in faccia il tuo ostacolo e dirgli ciò che pensi anche se credi che ti possa far male. Lottare per due è bello, è onorevole, ma combattere per se stessi è un diritto. Quindi… scendi in campo per te stessa e prendi ciò di cui hai bisogno».
L’ex medico militare vide la mora accennare un sorriso nel momento in cui una ciocca ribelle le solleticava le gote pulite. «Merlin aveva ragione su di te», gli confessò. «Sei il padre che tutti dovrebbero avere».
Gaius non riuscì a trattenere il sorriso che allargò spontaneo le sue labbra sottilissime. All’inizio Merlin era solo un ragazzo sbagliato, capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato, poi col tempo era diventato qualcosa di più. Era diventato il figlio che non aveva mai avuto.
L’unica cosa che riuscì a dire fu: «Ha davvero detto questo di me?»
Freya annuì. «È l’unica cosa che non ha mai smesso di dirmi».
 




 
Londra, Gennaio 1988
 
Igraine poggiò la padella sui fornelli tentando di essere il più silenziosa possibile.
Alice era fuori, in veranda, a godersi la vista della sera – o almeno era ciò che le aveva detto.
Quella piccola peste di Vivian non si era ancora fatta viva e, molto probabilmente, si trovava chissà dove a civettare e a fare baldoria con un gruppo di svitati egocentrici solo per farsi notare dal più desiderato tra le studentesse.
Ad Igraine non piaceva saperla per strada ad una certa ora ed era certa che per sua zia Alice fosse lo stesso, ma parlare con Vivian era quasi impossibile: era testarda e difficilmente ascoltava chi aveva da consigliarle qualcosa per il suo bene, sempre convinta che nessuno potesse capirla e che tutti le fossero contro.
Sospirò portandosi le mani ai fianchi, voltandosi alla volta il guanciale tagliuzzato a piccole strisce sul tagliere in legno e il suo pensiero si diresse involontariamente verso Gorlois, il suo K.G.
Le capitava spesso di pensare a lui e sentire le guance andare a fuoco senza un motivo preciso; in quei momenti avrebbe voluto tirarsi i capelli per punirsi, mordersi la lingua e scuotere il capo con forza… ma tutto ciò che riusciva a fare era arrendersi all’istinto di sollevare gli angoli della bocca all’insù, come un riflesso involontario del suo cuore.
Perché in quei momenti Igraine resettava tutto: il fatto che lei e Gorlois si conoscessero appena, che il ragazzo aveva occhi solo e soltanto per la bella e irraggiungibile Vivienne.
In quei momenti c’era solo Gorlois e l’affetto che nutriva per lui.
Cucinò per una buona mezz’ora col sorriso sulle labbra, passando i quindici minuti successivi a guardarsi allo specchio e a domandarsi quale maglione indossare, se utilizzare un lucidalabbra o un rossetto, se sciogliere o meno i suoi lisci capelli di grano.
Scelse il suo maglione preferito, quello rosso, lasciando sulle sue labbra un leggero strato di colore rosato. Si ravvivò i lunghi capelli biondi liberandoli dalla morsa opprimente dell’elastico scuro, convincendosi che i pantaloni a vita alta e le sue scarpette anonime andassero più che bene.
Informò Alice riguardo i suoi piani, arrossendo visibilmente quando la donna le disse: «Dev’essere proprio un uomo fortunato, questo Lois».
«Siamo solo amici» Igraine cercò di svignarsela, senza successo.
La treccia color caramello sembrava divenire aranciata alla luce della lanterna mentre sul volto di Alice pareva adagiarsi la sera con il suo cielo scuro e la sua luna di latte. «Oh, beh… allora deve essere un ottimo amico per meritarti».
Igraine si lasciò andare ad una dolce risata. «Suppongo di sì».
«Divertiti», la salutò allora Alice, guardandola camminare per il vialetto di ghiaia. «E non fare tardi!»
«No, zia Alice».
Quelle fuorono le ultime parole che riservò alla donna dopodiché, con una Amatriciana in un contenitore di plastica e due forchette in una busta, persino le strade di Londra le parlavano di K.G, conservando il sapore del loro prossimo incontro e sembrando più lunghe passo dopo passo.




*



 
 
La pelle diafana della ragazza era colorata dalla luce azzurrognola del desktop del suo computer portatile, i suoi occhi verdi danzavano famelici da una parola all’altra.
Spostò il cursore leggermente verso il basso, lasciando che la foto della giovane bionda venisse tagliata in due sullo schermo. Una volta trovata l’informazione che cercava, si annotò il nome del settimanale su una piccola agenda ad anelli. La richiuse subito dopo ticchettando nervosamente col tappo della penna, prima di lanciarla lontano, in direzione della pediera.
Si distese sospirando, portandosi le mani verso il ventre, calando le palpebre.
 
Caro e odiato amore mio,
scrivere questa lettera è la cosa più difficile che abbia mai fatto in tutta la mia vita, ma sento di non poter fare altrimenti.


Con le dita,fece lievemente pressione sulla sua pelle chiara.
Se la sentiva strana, adesso, quasi non le appartenesse più. 
La sua pancia pallida non era più la stessa di prima, il suo tocco non la riconosceva e, in quel momento, si chiese se l'avrebbe mai più riconosciuta.
Il suo corpo sarebbe rimasto sempre il suo corpo, quello che amava mettere in mostra indossando un bikini sulle spiagge affollate di Brighton... o sarebbe cambiato per sempre?
Aprì bruscamente gli occhi risollevandosi di scatto; riprese tra le mani il computer ed aprì una nuova pagina internet digitando le parole alla svelta, cliccando sul primo risultato della ricerca.
C’erano foto, c’erano consigli, c’erano mille frasi che prima di quel giorno credeva di comprendere. C’erano lettere, lettere che in quel momento la spaventavano.
Abbassò lo schermo con un gesto secco, abbandonando l’aggeggio accanto alla penna come se si trattasse di una mina anti-uomo.
 
Cosa le stava succedendo?
Come era potuto accadere?
Cosa avrebbe fatto?
 

Scese dal letto decidendo di voler bere qualcosa di forte, qualcosa che potesse annebbiarle i pensieri. Indossò i suoi infradito per uscire dalla stanza ma una volta vicina allo specchio si fermò.
Aveva paura, paura di sollevare la canotta e vedere una pancia enorme e sproporzionata, il suo viso più gonfio ed il seno ingrossato. Invece ad osservarla c’era il riflesso di una ragazza pallida col viso smorto.
Si rese conto di aver bisogno di correttore e fondotinta prima di attaccarsi ad una bottiglia della vecchia collezione di liquori del vecchio Uther.
Fu mentre si spalmava il cosmetico sul volto che ricordò la nausea della notte precedente; aveva tentato di placarla con l’indifferenza, aggrappandosi al cuscino e fingendo che non stesse capitando a lei.
Diede un tocco di colore anche alle labbra carnose, rimirando la sua immagine riflessa allo specchio.
A guardarla, adesso, c’era una maschera da Commedia che si preparava per entrare in scena. Levò le tende del sipario abbandonando quelle quattro mura che ormai sapevano troppo scendendo le scale, per poi fare la sua apparizione in cucina, dove si pietrificò all’istante.
«Cosa stai facendo?»
Uther drizzò la schiena voltandosi di scatto come un ladro colto con le mani nel sacco. «Ti sei decisa ad uscire da quella stanza, finalmente».
Morgana ignorò le parole del padre, concentrandosi invece sul coltello che l’uomo stringeva nella mano destra e il bizzarro grembiule allacciato dietro la schiena, sulla camicia chiara. «Ti sei dato alla cucina, adesso?»
«Beh», Uther sollevò le sopracciglia riprendendo a smanettare e tagliuzzare, «mi hai messo in imbarazzo col tuo fidanzato ed ho accettato la sfida».
Morgana si sporse ad osservare l’operato del padre e nel vedere cipolla e guanciale tagliati in pezzi asimmetrici serrò la mascella. «Conosco questa ricetta».
«Certo che la conosci», le disse. «Era il piatto preferito di tua madre».
«Non mi pento di ciò che ho detto», si affrettò a dire in risposta. «Non m’importa quanto bravo tu sia a mentire. Potrai abbindolare Arthur ma non me».
«Morgana…»
«L’ho conosciuta a Parigi», lo incalzò, «e so perfettamente dove si trova in questo momento».
La mano di Uther tremò; il viso rivolto a quello della figlia si era dipinto d’insicurezza e timore.
Il silenzio sembrava essere diventato assordante finché il cellulare della corvina non vibrò nella tasca dei suoi pantaloni. Morgana lo sfilò controvoglia, rinunciando al trafiggere il padre con lo sguardo, spostando le iridi di smeraldo sullo schermo del telefonino.
Diede le spalle al Pendragon, roteando gli occhi nel leggere il mittente.
 

Ho bisogno di parlarti. Esci un secondo.

 
Oscurò il display sbuffando.
«Esco a fare due passi» informò il padre infilandosi la sua giacca leggera, oltrepassando la porta d’entrata.
Una volta arrivata al cancello vi trovò ad attenderla una Gwen ansiosa che stringeva qualcosa tra le mani.
«Che ci fai qui?» le chiese, richiudendosi il cancello alle spalle, fronteggiandola.
La mulatta era struccata, con del lieve sudore a bagnarle la fronte e, ciò che Morgana aveva intravisto in lontananza tra le sue mani, si rivelò essere un barattolo di fagioli.
«Siamo state avventate, l’altra sera. Ci siamo espresse male e-»
«E io torno dentro».
«No, no, Morgana. Ti prego.» Gwen fece qualche passo verso l’amica, la quale era pronta ad andarsene. «Resta».
La corvina si fermò, rigirandosi con aria scettica alle intenzioni dell’altra.
«Vieni al bar stasera», propose quest’ultima. «Sono sicura che Arthur e Merlin si organizzeranno diversamente per il City.» Sorrise a vecchi ricordi. «Sai come sono fatti: non avranno occhi che per la partita».
«Ho deciso di lasciare il bar».
Per un secondo Gwen rimase imbambolata non sapendo cosa dire, poi si smosse, avanzando di un passo. «Beh, vieni lo stesso allora».
«Oh, ma davvero?!» Morgana sbottò, accigliandosi. «Una serata di sole donne? Sai, credo che dovrei presentarmi con una t-shirt con su scritto: “Ehi, forse il tuo ragazzo mi ha messa incinta”!» provocò la Pendragon con un sorrisetto ironico.
«Non sai ancora chi sia il padre?» chiese sconvolta Gwen, sbarrando gli occhi.
«Fantastico, torniamo al punto di partenza!»
«Morgana, devi saperlo e soprattutto devono saperlo loro!»
«Non so nemmeno se lo voglio questo bambino!»
Sarebbe stato difficile descrivere il modo in cui si sentiva Morgana in quel momento: in colpa, preoccupata che qualcuno l’avesse sentita e sollevata.
L’espressione di Ginevra, invece, era decisamente più semplice da decifrare. «Cosa?»
Delusione. La voce della sua amica suggeriva solo delusione. Morgana recuperò il controllo per il suo bene, aggiungendo: «Sarebbe un errore, in tutti i casi».
Gwen corrugò la fronte, piegando le labbra sottili in una smorfia indecifrabile, un misto tra amarezza ed incredulità. «Tu non vuoi un figlio da Mordred…»
Morgana la guardò impassibile, rimanendo muta e immobile al suo posto. «Credo che tu ora debba andare».
Ginevra era ancora lì, a cercare parole da dirle, ma quando aprì la bocca per proferire mezza sillaba, la Pendragon la fermò all’istante: «Ho detto va’».
Gwen boccheggiò per qualche secondo mentre Morgana continuava a fissarla intimandola ad andarsene, arrendendosi poi alla volontà della ventunenne, arretrando di qualche passo fino a voltarsi di schiena e continuare verso la sua bici.
Morgana la vide posare il barattolo di fagioli nel suo zaino, salire in sella e pedalare via.
 
 







 «E così… si ritorna alle vecchie abitudini». Freya controllò Merlin dallo specchio mentre si aggiustava l’orecchino. «Birra, pizza e City».
«Già» il ragazzo le sorrise di rimando, immergendosi nuovamente con la testa nell’armadio. «Bei vecchi tempi…»
La mora voltò la schiena allo specchio, fissando stranita il suo fidanzato. «Cosa stai cercando?»
«La sciarpa di Arthur», le rispose disperato, riemergendo dal guardaroba. «Ma sembra scomparsa».
«La tieni sempre nel cassetto della biancheria, così sai dove trovarla».
Merlin, che intanto si era seduto esausto sul pavimento, la vide spaesata e perplessa. «Giusto», assentì. «Hai ragione».
«Fa un caldo pazzesco, cosa deve farci?»
«Non importa se diluvia o se una palla infuocata sta collassando sul nostro pianeta, Arthur deve avere quella sciarpa. È… un mantello. Dice senza, il City andrà in rovina».
«Giusto…» ripeté poco convinta Freya, senza tuttavia chiedere ulteriori spiegazioni al fidanzato, lasciandosi bastare quelle in suo possesso.
Lui si alzò e la ragazza fu sicura che si sarebbe diretto verso il suo piccolo comò quando lo vide cambiare direzione e avvicinarsi a lei.
«A proposito di Arthur…» Merlin sembrava impacciato, un sorrisetto imbranato sulle labbra. «Stamattina ti mancava particolarmente».
Freya tentò di mascherare il rossore improvviso comparso sulle gote, allontanandosi rapida dal corvino. «Devo andare. Sono pericolosamente in ritardo, magari ne riparliamo».
Merlin guardò nella sua direzione con l’angolo della bocca tirato all’insù. «Tranquilla, Arthur non sarà presente. Credo che brontolerà con Mordred ancora per un po’ prima di venire qui».
«Oh, quindi anche Mordred sarà dei vostri?»
«A quanto pare sì» disse Merlin, alzando le spalle.
«Dunque… al bar saremo solo io, Ginevra e Morgana?»
«No», Merlin scosse il capo. «Morgana ha lasciato il Pendragon’s».
«Oh…» Freya rimase letteralmente senza parole. Non saprva come doversi sentire, se rasserenata o decisamente preoccupata per quell’improvviso cambio di programma. Non sapeva cosa pensare e, nella confusione totale d’idee, finì col dare voce ai suoi pensieri: «E… anche Morgana sarà dei vostri?»
Merlin allargò piano le sue labbra piene in un sorriso, avanzando verso la ragazza fino ad esserle così vicino da prenderle il viso tra le mani e baciarla.
Dapprima fu dolce, poi i suoi baci divennero insistenti, finché la sua bocca non scivolò sul collo scoperto di lei.
Freya non riuscì ad impedire la nascita di un sorriso involontario, cercando ad ogni modo di mantenere il controllo e ricordare quello che lei e Gaius si erano detti quella mattina stessa. «Sono in ritardo Merlin, e Arthur non brontolerà per sempre».
Avvertì la mano calda e affusolata del ventenne scendere lungo la schiena e un bacio adagiarsi nell’incavo del suo collo. «Potrei sempre chiudere tutto a chiave e fingermi moribondo», le sussurrò con una voce che quasi non gli apparteneva, una voce che Freya credeva di non conoscere affatto.
«No», gli posò una mano sul petto, su quella maglietta che ricordava avergliela regalata lei stessa, allontanandolo di poco. «Devi goderti questa serata con i tuoi amici, con Arthur. Io devo andare al lavoro».
Merlin le sorrise senza opporsi, gli occhi azzurri posati sul suo viso chiaro mentre con il pollice le dedicava una carezza leggera sulla guancia. «Ti lascio andare, allora».
Fu lei a soffiargli un bacio fugace sulle labbra senza sorridere come un tempo. «Ci vediamo più tardi».
«Ci vediamo più tardi» fece eco il giovane vedendola andare via senza voltarsi indietro e richiudersi la porta alle spalle.
Una volta fuori casa, Freya sospirò sentendosi svuotata, come se ogni bacio e ogni tocco di Merlin potessero risucchiarle tutte le forze dal corpo.
Solo di una cosa era certa: Merlin e Freya non esistevano più. Erano morti col ritorno di Morgana Pendragon e non sarebbero più stati gli stessi. A nulla sarebbero servite le sue scuse e a niente importava quanti stratagemmi si sarebbe inventata, quella era l’unica verità e a quella avrebbe dovuto arrendersi.
Con tale convinzione nel petto, anche l’idea di scendere le scale le pesava come un macigno, così si avvicinò all’ascensore per chiamarlo, premendo il bottone.
Era completamente sovrappensiero quando le porte dell’ascensore si aprirono rivelando la presenza di un uomo costretto su una sedia a rotelle, una gamba amputa ed un braccio ingessato e… Gwaine.
Freya rimase incantata nel vederlo, boccheggiando impreparata e, per una frazione di secondi, anche il moro reagì allo stesso modo.
«Ehi…» fu la cosa più sensata che le venne da dire.
Gwaine riacquistò la sua faccia da schiaffi e il suo sorriso bonario dietro la barba pungente. «Ehi!»
Rivederlo le aveva provocato uno strano effetto, ma era pur logico: l’ultima volta che si erano visti lei aveva finto di essere un’altra, di chiamarsi Europa, ed aveva quasi accettato un suo invito per un appuntamento (uno vero) – dopo averlo baciato ad una festa della quale il suo fidanzato non era al corrente – prima che lui scoprisse di averci provato con la ragazza di un suo vecchio amico.
Essere imbarazzati o voler sparire dalla faccia della Terra ogni volta che incontrava il suo sguardo, era decisamente d’obbligo.
«Mi sa che farò le scale», disse impacciata, additando i gradini alla sua sinistra.
«No, entra pure. Noi siamo arrivati».
Solo in quel momento Freya si accorse che Gwaine stringeva qualcosa tra le braccia, avvolto in una coperta color fragola. Dopo l’esperienza del mantello/sciarpa di Arthur, la mora si era detta che sapere era solo un male e che ignorare senza fare domande fosse la mossa più giusta d’attuare. Così restò zitta e a capo chino mentre Gwaine spingeva la carrozzella dell’amico fuori dall’ascensore.
Si morse il labbro nel sentirsi così stupida e in difetto in sua presenza da non impedirsi nel sollevare lo sguardo di terra umida sulla sua schiena e il suo corpo dai lineamenti maledettamente perfetti, richiamandolo: «Gwaine».
Quest’ultimo si girò a mezzobusto per guardarla e Freya non poté sentirsi più ridicola. «Volevo dirti…» cominciò a gesticolare con la mano, facendo tintinnare le chiavi dell’auto, «per l’altra volta…»
«Non ce n’è bisogno» l’anticipò lui, i capelli castani che gli arrivavano alle spalle e gli occhi di moka densa che la fissavano come un giudice severo, un giudice che l’aveva già dichiarata colpevole. «Non ci conosciamo, ricordi?»
Piccola.
Non si era mai sentito tanto piccola come in quel momento.
Deglutì il sapore della vergogna senza aver il coraggio di masticarlo, accennando un mezzo sorriso di circostanza. «Divertitevi, allora».
Non aspettò neanche il “Grazie” di risposta che si fiondò immediata nell’ascensore premendo il pulsante per il piano terra, con la figura di Gwaine che spariva col chiudersi delle porte.
 
 





«Ehi…»
«Hi, man! Pronto per una nuova vittoria?»
Merlin, la bocca spalancata e la fronte aggrottata, era rimasto impalato nel tenere la porta aperta mentre uno spensierato Gwaine entrava festoso in casa sua, facendo strada ad un perfetto sconosciuto sulla sedia a rotelle – che, Merlin doveva ammettere, aveva qualcosa di vagamente familiare…
Gwaine, che intanto si era avvicinato al divano con l’intenzione di gettarvisi a peso morto, notò il palpabile imbarazzo dell’amico e l’evidente faccia spaesata del padrone di casa, così cullò qualsiasi cosa ci fosse in quell’involucro di stoffa, allargando l’unico braccio libero. «Gwaine porta amici e siamo tutti più felici».
Il giovane col braccio ingessato sorrise cortese, allungando la mano sana all’ancor interdetto Merlin, presentandosi: «Parsifal».
Il corvino la strinse con poca convinzione. «Merlin».
«Troppi caffè, sì lo so: ci siamo già incontrati in ospedale».
«In ospedale?»
Mentre Merlin tentava di far mente locale e associare il volto del grosso Parsifal all’ospedale e chiudere la porta, sentì una manata fare forza sul legno, costringendola a spalancarsi, picchiando contro il capo del corvino.
«Bisogna mettere le birre in frigo. Mordred è stato così intelligente da dimenticarsene».
Arthur avanzò deciso in casa con la sua inseparabile stampella, soffiando la busta con le lattine di birra dalle mani di Mordred, qualche passo dietro di lui, cercando Merlin con lo sguardo. «Dov’è finito l’idiota?»
«Sono qui», borbottò quello massaggiandosi la parte della testa offesa, guardando indispettito il Pendragon che lo ignorò bellamente, lasciandogli con poca grazia le birre.
«Per fortuna ho provveduto alle pizze».
«Confermando l’indirizzo dal bagno», tenne a specificare il francese, sorridendo a mo’ di saluto alla volta del giovane Emrys, beccandosi un’occhiataccia da parte del biondino.
«Vado a metterle in frigo», Merlin prese la busta tra le mani indicando col mento gli altri presenti. «Mettetevi…» Li osservò uno ad uno: chi già accomodato a gambe accavallate sul divano, chi stava per prender posto guardandosi in giro come se si trovasse sulla scena di un delitto e chi, ancora, non gli stava dando la benché minima considerazione. «Mettetevi pure a vostro agio».
Pensò si trattasse solo di una sua impressione eppure, quando si allontanò verso la cucina, sentì Arthur presentarsi al tipo con la gamba amputata riconoscendolo e gli occhi di Mordred fissi sulla sua schiena.
 
 







«Come sarebbe a dire?!»
Merlin armeggiò con i fili del televisore, ma quel coso proprio non ne voleva sapere di funzionare, con lo schermo che si alternava tra immagini deformate e il verde assoluto. «È un vecchio televisore ma ha sempre funzionato benissimo».
«Certo», Arthur roteò gli occhi. «Come tutti i tuoi piani infallibili con la Campbell».
«I…» Merlin serrò i denti, volandosi verso l’Asino che intanto si era adagiato per benino la sciarpa sulle spalle (dando più l’idea di una vecchietta ultras e infortunata piuttosto che di un Dottor House con un mantello), additandolo con fare accusatorio. «La mia tv funzionava fino a ieri e se non sbaglio, quelli erano i tuoi piani infallibili».
«Sh…» Gwaine cullò l’affare che si ritrovava tra le mani, tentando di calmare gli altri – anche se nessuno gli aveva dato la minima importanza.
 «Va bene, allora lo riparerà Mordred» propose – o per meglio dire, decise – l’Asino spalancando le braccia in segno di resa.
«Excusez- moi?» Mordred alzò un sopracciglio all’insù guardando il biondino con l’intendo di sembrare contrariato, ma Arthur fece spallucce indicando la tv con la mano. «Sei l’unico laureato qui dentro» spiegò, come se avesse un senso.
«In giurisprudenza», precisò Merlin, seduto sulle ginocchia accanto ai cavi. «Non credo che tale facoltà richieda abilità da elettricista!»
«Obiezione: l’essere laureato implica un’età anagrafica che superi la tua. Dunque, dovrà per forza saper riparare una cavolo di scatola con i fili».
«Obiezione?» farfugliò confuso il francese.
«Cosa c’entra l’età col fai da te?» domandò Merlin in disaccordo, trascurando l’intervento di Mordred.
«Più anni, più esperienza!» espose semplicemente l’altro con l’arroganza di chi pretende di aver ragione. (Alla solita maniera dei Pendragon, insomma).
«Shh…» Gwaine si era ormai alzato dal suo posto allontanandosi di qualche passo dal divano.  «Parlate piano».
«Sembra di risentire la lite tra me ed Helena» Parsifal si sporse verso il parigino sorridendo al battibecco dei due ragazzi.
Merlin ed Arthur stavano ancora discutendo quando Gwaine fu costretto ad abbassarsi sui talloni e distendere la piccola coperta color fragola, liberando la bestiolina che vi era avvolta; grugnendo e zampettando, l’animaletto si fiondò verso i cavi del televisore.
Merlin balzò all’indietro spaventato dal porcellino, mentre Mordred e Arthur spalancarono gli occhi increduli.
«Cosa ci fa quel bacon con le zampe in questa casa?!»
«Prego, Principessa, per te è miss bacon», lo corresse Gwaine sghignazzando sotto i baffi, mentre Parsifal si schiaffava una mano contro la faccia.
«Credo che miss bacon voglia assaggiare spaghetti elettrici stasera», Mordred, ancora basito, indicò con un dito il porcellino mentre si avventava sui fili.
«No, no, no» Merlin gattonò fino all’animaletto tentando di scacciarlo con una mano, ma il quadrupede non faceva altro che aggirare l’ostacolo e ritornare sui suoi passi.
«Hartie, da brava, vieni qua». Gwaine si inginocchiò sul pavimento cercando di attirare l’attenzione del mammifero. «Non fare la scrofa cattiva».
«Hartie? Davvero?!» Arthur lo guardò come se fosse impazzito, con una faccia così buffa da far ridere persino Mordred.
«Sì, Hartie come Joe Hart», spiegò.
«Dimmi che non è vero», lo supplicò il Pendragon mentre Merlin continuava la sua lotta contro la piccola Hartie.
«Non l’ho scelto io il nome, mi è stata affidata».
«E chi sarebbe il pazzo che te l’avrebbe affidata?» chiese l’Asino, gli occhi quasi fuori dalle orbite.
«Helena», fu la sua risposta.
Arthur scosse il capo decisamente attonito. «Helena? Chi cavolo è questa Helena? Con chi diamine vai a letto?!»
«È la mia mogliettina vegana.» La voce di Parsifal si frappose tra quella del Pendragon e i grugniti di Hartie. Imbarazzato tenne lo sguardo basso comprimendo le labbra, mentre Arthur, pietrificato, cominciava a domandarsi dove fosse capitato.
«… E con cui sono stato solo una volta», precisò infine Gwaine, attirando su di sé gli sguardi sconcertati e sbigottiti dei presenti.
«Sei una prostituta», l’espressione di Arthur non era variata di una virgola, «lo sai, vero?»
Gwaine alzò le spalle. «Ognuno fa ciò che può».
«Possiamo pensare al maiale, adesso?!» Merlin richiamò la loro attenzione, ostacolando Hartie con le mani.
«Io volevo solo pensare alla partita» cominciò a borbottare l’Asino, senza accorgersi della pericolosa vicinanza di Gwaine. «Mi sarei steso da qualche parte, avrei mangiato pizza calda e bevuto della sana e fresca birra, guardando il City dal mio piccolo televisore portatile e… NO!»
Gwaine sfilò con un gesto secco la sciarpa dalla spalle del biondino avvicinandola al muso di Hartie, improvvisandosi un torero esperto, lasciando che la bestiolina l’afferrasse e scappasse in cucina.
Arthur balzò in piedi con l’aiuto della sua stampella, puntando minaccioso l’indice verso la piccola mammifera. «Prendete quel prosciutto!»
«No, fermi tutti!» Merlin si mise in posizione eretta stanco ed esausto di quella situazione, diventando stranamente autoritario. «Tu», disse indicando Gwaine, «recupera Joe Hart, Bacon o come si chiama quell’animale e tu», continuò indirizzando il dito verso il petto di Arthur, «chiama chiunque tu voglia e fatti portare quel cavolo di televisore!»
Normalmente non avrebbe mai perso le staffe in quel modo, ma era decisamente troppo: voleva passare una serata da solo con Arthur come ai vecchi tempi, ma poi si erano imbucati persone e maiali e il televisore aveva deciso di dir loro addio e Merlin non poteva, per nessuna ragione al mondo, mandare a monte i suoi piani già rovinati.
 







Erano passati più di una ventina di minuti da quando Hartie aveva preso in ostaggio la sciarpa portafortuna del giovane Pendragon costringendolo a mordersi le mani e a maledire tutte le pietanze fatte con carne di maiale, vittima di uno stato di trance in cui i suoi amici non lo avevano mai visto; gli occhi blu pronti ad incenerire con la sola forza del pensiero quella piccola mammifera ogni volta che la sentiva grugnire beata, masticando un cimelio sacro come se fosse della misera poltiglia di scarti.
Mordred, un angolo della bocca portato all’insù con la gratitudine verso quel piccolo quadrupede rosa che gli aveva regalato l’irripetibile scena di un Arthur ammutolito, si lasciò scappare l’accenno di una risata, seduto coi gomiti sulle cosce. «Andiamo, Arthur. Era solo una sciarpa».
Merlin sospirò, già conscio della futura reazione dell’Asino, preparandosi psicologicamente a sentirlo ragliare per trenta secondi buoni. «Oh no, ti prego…»
Se solo avesse avuto il dono della magia…
«Una sciarpa?» Arthur si voltò a rallentatore verso il francese, più o meno allo stesso modo di una bambina posseduta, protagonista di un qualsiasi film horror americano. «Solo una sciarpa? Hai idea di quante partite ha vinto il City grazie a quella sciarpa?!»
Il parigino sbuffò una risata alzando gli occhi su Merlin.
Il corvino non capiva perché Mordred fosse sempre in cerca del suo parere, sempre pronto ad osservarlo o a scambiarci quattro parole: si sentiva studiato e messo alle strette. Il giovane Emrys allora scrollò le spalle, pronto a schierarsi dalla parte del Pendragon: «Da quando l’abbiamo trovata non solo il City ha acquistato punti ma siamo anche riusciti a passar tutti i test della Campbell per un pelo».
«O magari sono solo coincidenze» fece notare Mordred.
«Nah», s’intromise Gwaine mangiucchiando un tramezzino sgraffignato dal frigo. «La Wilson ha solo provato compassione e ha passato loro alcune domande».
«La Wilson?» Mordred si voltò verso il moro, cercando delucidazioni.
«Gwen», spiegò risoluto Merlin, dando un’occhiata all’orologio che aveva al polso. «Dove sono finite le pizze?»
«La Principessa e Merlin la facevano sgobbare alla grande.» Le guance barbute di Gwaine erano gonfie come quelle di uno scoiattolo ingozzato di ghiande. «Ricordo ancora quando Lancelot tornava afflitto in officina».
Solo dopo aver terminato la frase e aver visto un’ombra scura calare sul volto di Arthur, Gwaine capì di essere stato indiscreto ma i sensi di colpa non sarebbero bastati: Merlin gli si parò dinanzi sottraendogli il sandwich dalle sue grosse mani. «Giù le zampe dal mio cibo».
Merlin non aveva voglia di litigare e di far nascere nuove questioni; il piano iniziale era quello di passare una serata in compagnia di Arthur – solo in compagnia di Arthur – e tutti quegli incidenti di percorso iniziavano ad irritarlo. Passi il televisore rotto, passi anche una maialina che distrugga la “sacra sciarpa” dell’Asino, passi l’invasione d’imbucati in casa sua, ma non avrebbe trascorso il resto della serata con un Arthur che sembrava evitare il suo sguardo ogni volta che si girasse a guardarlo, né tanto meno con liti riguardanti vecchie fiamme e triangoli irrisolti.
Stava per fare un passo verso la cucina quando sentì urtare qualcosa con la punta della sua scarpa da ginnastica. Abbassò gli occhi incontrando quelli piccoli e scuri di Hartie ferma ad osservarlo come un cane obbediente; il musetto rosa caratterizzato da una grossa macchia nera sull’occhio sinistro, il corpicino che ricordava tanto il manto di un Dalmata e le orecchie a punta addolcirono il corvino al punto da strappargli un sorriso sghembo, riportandogli alla mente il viso bagnato di un micino impaurito che Arthur aveva recuperato dai rami di un albero solo per far felice Gwen e che avevano poi nascosto nel garage del vecchio Gaius.
Lo stesso micino che gli aveva permesso di restare serate intere in compagnia della bella e irraggiungibile Morgana, illudendosi che quelle ore bastassero per entrare a far parte della sua vita.
Parsifal batté l’unica mano sana sulla coscia, smorzando la tensione. «Così, sei laureato in giurisprudenza?» chiese al francese.
Merlin si occupò di recuperare la sciarpa maltrattata del Pendragon che Hartie aveva lasciato ai suoi piedi, sentendo Mordred rispondere: «Sì, a Parigi avevo anche uno studio, ma io e Morgana abbiamo deciso di voltare pagina».
Arthur sorrise sarcastico. «Diciamo che Morgana volta pagina in continuazione».
«È una ragazza volubile», ammise il francese. «Non sai mai cosa le passa per la testa».
«Quello vale per tutte le donne».
Merlin girò il capo verso il divano, rialzandosi con la sciarpa tra le mani, cercando lo sguardo di Arthur. Il biondino ascoltava Gwaine esporre la sua tesi sul mondo femminile senza accorgersi di nulla.
«Prima vengono a letto con te recitando la solita storia della donna indipendente e poi si arrabbiano se non le richiami», continuò Gwaine lagnoso, mettendosi a cavalcioni sulla sedia.
«Diventano pazze se chiedi una bistecca ai ferri.» Le sopracciglia di Parsifal si mossero verso l’alto mentre gli occhi sembravano rivedere scene dell’ultima lite.
«O magari ti tradiscono.» La voce di Mordred arrivò alle orecchie di Merlin come una lama affilata, il suo sguardo enigmatico fisso sulla faccia del corvino. «Credendo che tu non te ne accorga».
Merlin deglutì a vuoto sentendo il sangue gelarsi nelle vene; si chiese se Mordred sapesse, se fosse una semplice provocazione, se si divertisse a giocare a fare lo strizzacervelli con lui; ma i suoi pensieri s’interruppero quando notò le iridi bluastre di Arthur sul suo corpo. Fisse, come a sondare ogni minima traccia di dubbio, un movimento falso che potesse sgamarlo e per un istante ebbe paura che il Pendragon sapesse.
«Hai anche affrontato cause penali, allora.» A spezzare il silenzio fu Parsifal, rivolto al parigino.
«Uhm, sì», rispose. «Mi è capitato di dover difendere più volte il colpevole».
«Brutta storia», commentò Gwaine mentre Merlin prendeva posto su un’altra sedia di legno.
«Già».
«Qual è stato il più difficile?» Parsifal sembrava seriamente interessato.
«C’è stato… il caso di Jaenette Renard.» Mordred non era assente, Mordred guardava il suo interlocutore fisso negli occhi. «Arrestata per omicidio, è stata ritrovata con le mani sporche del sangue di Bastien, suo figlio. Ma la donna sosteneva di non aver mai toccato il bambino: incolpò il marito per averla drogata volontariamente al fine di renderla incosciente, sostenendo la sua colpevolezza».
«Com’è finita?» A parlare, dovendosi schiarire la gola, fu Merlin.
Mordred intercettò il suo sguardo, sorridendo amaramente. «Persi».



 
 
*


 
Sorrideva, sorrideva come se non potesse farne altrimenti, come se tutte le gioie del mondo quella sera si fossero concentrate tra i suoi denti bianchi e le labbra rosa, mentre il fresco vento Londinese le accarezzava dolcemente le gote giovani.
Sentiva il cuore accelerare ad ogni passo, ad ogni metro in meno verso casa sua.
Continuava a ripetersi mentalmente la parole che gli avrebbe detto una volta rivisto, il modo in cui lo avrebbe salutato.
 
Ciao, sono io. Perché non scendi? Gli avrebbe potuto dire dal citofono o ancora, Ciao K.G., ti andrebbe di vedermi anche adesso?
 
Igraine si fermò di colpo e per poco la busta non cadde dalle sue mani.
Gorlois era lì, fuori dal portone di casa sua, con indosso il giubbotto di sempre, quello gonfio che Igraine aveva immaginato soffice e caldo, pieno del suo profumo.
Gorlois era lì, sul marciapiede deserto con la luce calda dei lampioni tra i capelli neri, ad accarezzare dolcemente il viso pallido della bellissima Vivienne, la donna dei suoi sogni.
Igraine era ancora lì quando Gorlois la strinse tra le sue braccia, immergendo una mano in quei ricci d’oro.
Gorlois era ancora lì, ad annusare ad occhi chiusi il buon odore della donna che aveva sempre desiderato, quando gli occhi di Igraine cominciarono a pizzicare e la gola stringersi in un nodo soffocante.
Gorlois era ancora lì quando Igraine tornò indietro sui suoi passi, col cuore a pezzi.
 

 
*


 
 
Erano ancora seduti in quella sorta di semicerchio con Hartie addormentata sulle cosce di Parsifal quando il campanello suonò.
Merlin guardò in direzione di Arthur prima di alzarsi. «Forse saranno le pizze».
Si alzò dalla sedia e raggiunse la porta d’entrata in poco tempo, aprendola senza chiedere chi fosse.
Se ne pentì, solo un po’.
Davanti a lui, due smeraldi vivi brillavano illuminati dalla luce del soffitto; onde nere ricadevano dolcemente sul petto coperto da una camicia bianca, lasciata sbottonata quel tanto che bastava per mostrare le clavicole e il collo diafano.
Morgana gli porse il piccolo televisore portatile senza perdersi in inutili discorsi e parole scontate.
Merlin lo afferrò senza tuttavia staccare gli occhi dal suo viso. «Grazie».
La vide alzare forzatamente un angolo della bocca in un mezzo ghigno, pronta ad allontanarsi quando il corvino parlò ancora: «Ho saputo che lasci il bar».
Morgana si fermò, sostenendo il suo sguardo. «Resterò ancora per qualche giorno, giusto il tempo che Arthur trovi qualcun altro».
Guardarla negli occhi faceva male, lo faceva soffrire. Gli ricordava la sua scelta e quanto fosse stata dolorosa.
Spostò un sassolino immaginario con il piede destro, abbassando lo sguardo per un secondo, per poi ritornare in quegli smeraldi freddi e distaccati. «Grazie per essere venuta… Il televisore si è “spento per sempre” e Gwaine ha minacciato Arthur di raccontare la storia della “Principessa” se non ti avesse chiamata e-»
«Merlin io…»
Morgana lo interruppe bruscamente, anche se le parole morirono nel palato. Sembrava non sapesse cosa dire, cosa scegliere di dire.
«Io non voglio esserti amica», disse infine. «Non voglio nemmeno fingere provarci ad esserlo».
Merlin incassò il colpo in silenzio, ingoiando l’ennesimo boccone amaro.
In fondo, era giusto così: aveva scelto Freya e lei sarebbe rimasta con Mordred.
«D’accordo».
Morgana però non si mosse, non si allontanò, come se avesse dell’altro da dirgli, come se il suo discorso non fosse finito lì ma, nell’esatto momento in cui la Pendragon aprì la bocca, il fattorino delle pizze salì l’ultimo gradino, andando incontro al corvino.
Quest’ultimo lo ringraziò, prese le pizze ed il portafogli dalla tasca dei jeans pagandolo. Ma quando sollevò lo sguardo per rivedere quegli smeraldi accesi, Morgana era già andata via.





 
Relie's Corner
Hi guys!
Se siete arrivati qui ci sono solo due spiegazioni logiche:
- Pendragon's vi era veramente mancato;
- Avete saltato tutto per poi arrivare alle note.

- Il personaggio di Parsifal era già stato introdotto nel capitolo VIII e il soprannome " Troppi caffè " viene affibbiato a Merlin da Elyan nel XIII capitolo;
- La storia della "Principessa" racchiude un trascorso Merthur;
- Joe Hart è il portiere del Manchester City;
- Hartie nasce da una passione dell'autrice verso i piccoli maialini, così come l'idea di una Helena vegana. Inoltre, vorrei seriamente suggerirvi la lettura di Myricae, una storia stupenda scritta da Celtica. Se amate, o se avete mai amato un cane, è la storia perfetta per voi;
- Sinceramente, non saprei cos'altro chiarire xD


Alla prossima!
   
 
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