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Autore: Francine    16/05/2016    4 recensioni
Ci sono storie che nascono da sole, mentre tu stai facendo qualcos’altro. Succede all’improvviso: il tuo cervello segue un pensiero e tu ti ritrovi a rincorrerlo come il gabbiano che si alza in volo perché ha visto un pesce guizzare argentino tra le onde del mare.
Ci sono storie che non sono buone per farci il brodo, e dare sapore ad una zuppa già avviata. Storie che stanno bene da sole, sì; ma che se le metti in girotondo con le altre si divertono di più. E splendono di più. Come un giro di perle al collo di una ragazza. Storie che ti vengono in mente voltando le carte sul tavolo. Storie che ho raccolto in questo mazzetto di tarocchi, in maniera casuale, nella speranza di farvi piacere.
 
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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#12 – Quella strada nel bosco
Lama IX– L'Eremita
Personaggi: Libra Doko



 
C’è una strada che s’inoltra nel bosco ed arriva fino su, in cima alla Cascata del Drago.
La Cascata si sente da circa metà percorso, un fracasso che serpeggia tra le fronde degli alberi e il martellare dei picchi. Un posto suggestivo, invero, ma ai bambini del villaggio è vietato oltrepassare la casa del taglialegna. «Il Drago che dorme nella cascata potrebbe arrabbiarsi», dicono gli adulti, nella speranza che i bambini restino a distanza di sicurezza dalla cascata. È un bel salto, da lassù, fatto di acqua rombante e vapori scroscianti. E a valle ti attende un fondale basso, di ciottoli levigati, sempre ammesso che tu non ti sia sfracellato strada facendo.

Ding conosce la leggenda del Drago che dorme sotto le acque della Cascata, ma non ne ha mai avuto paura. Anzi, ha sempre voluto incontrarlo per chiedergli di esaudire un suo desiderio. I draghi devono farlo. Per contratto. In tutte le storie è così. Quindi, perché il Drago della Montagna avrebbe dovuto sdirazzare?
Perché il Drago della Montagna non esiste, ovvio. È solo uno spauracchio inventato per i bambini, anche se sua nonna gliene ha sempre parlato come se si trattasse di una persona in carne ed ossa. Qualcuno che, stando ai suoi racconti, dovrebbe avere più di cent’anni. Forse anche duecento. E mentre Ding avanza tra gli alberi, spera con tutta se stessa che sua nonna abbia ragione.

Il sentiero si perde nel bosco alle spalle della casa della nonna di Ding, l’ultima del villaggio. Avanza tra gli alberi e si perde dopo una quindicina di passi. Bisogna fare attenzione – ché se si sbaglia strada ci si ritrova al punto di partenza – e svoltare ad un certo punto, evitando i calappi per i conigli e le tagliole per le volpi – ché se la volpe arriva e si pappa il coniglio appena catturato, ci sarà una volpe colla pancia piena ed un cacciatore a bocca asciutta.
Ding conosce la strada, perché da piccola si divertiva a passeggiare nel bosco. Sempre da sola, ché non ha mai legato molto coi bambini del villaggio. La vedevano come una bestia strana, lei che appariva per un mese solo, d’estate, come fosse un fantasma o un tasso dispettoso, e non appena aveva rotto il ghiaccio s'era fatta l'ora di tornare in città. Così Ding andava in esplorazione solitaria, spingendosi ogni giorno un po’ più in là, fino alla casa del taglialegna, ché oltre non si fidava ad avventurarsi. Non era sicura di riuscire a trovare la strada del ritorno. E se poi gli adulti avessero dovuto cercarla, non le avrebbero più permesso di andare nel bosco a caccia di fiori, fragole e farfalle dalle ali colorate.

«Non fare tardi», si è raccomandata zia Xiaoyu.
Il suo treno parte alle sette, e Ding sa che dovrà salire in carrozza da sola. Sua madre è stata chiara al riguardo. «Non azzardarti a tornare a casa con quella cosa», le ha detto – le ha sibilato – al telefono ieri sera, mentre Ding singhiozzava e l’implorava di ripensarci. «Avresti dovuto pensarci prima. Adesso arrangiati!», e ha riattaccato, lasciandola a fissare una cornetta che le riproponeva uno stizzito tututututututu.
Non c’è un’altra soluzione, no, si ripete Ding mentre avanza, lo sguardo fisso all’orizzonte a lasciar vagare la mente e i suoi crucci. La bambina dorme. La bambina è tranquilla. Ma Ding non può tenerla. Nossignore. E vorrebbe tanto che ci fosse un altro modo, un’altra via. Solo che Ding non sa dove cercarla, quest’altra strada, ché i suoi occhi sono fissi sulla voragine che le si apre davanti. Se è andata da sua nonna, l’ha fatto per aiutarla. Ché è tanto malata, la povera vecchina. Non può certo tornare indietro con un fagottino. Che direbbe, alla gente? L’ho trovata sotto ad un cavolo? L’hanno portata gli dei della fortuna?

Ding sospira. Se solo non fossi sola, pensa. Se solo Fulang mi avesse creduto.
Ma Fulang non c’è. Fulang le ha intimato di smetterla, con quelle sciocchezze, ché quel figlio non poteva essere suo, nossignore, perché lui aveva preso tutti i provvedimenti necessari a non farsi incastrare. «E quali?!», avrebbe voluto gridargli dietro lei; invece Ding era rimasta in silenzio, a sentire il suo sguardo di rimprovero e biasimo passarla da parte a parte. Certo, avrebbe potuto parlarne a suo fratello, o a suo padre, e avrebbero potuto costringere Fulang ad assumersi le sue responsabilità; ma mentre lui le intimava di non farsi vedere mai più, pulendosi le unghie con la lama di un coltellino, e di andare a bussare alla porta di chi l’aveva messa in quella condizione – ammesso che si ricordasse chi fosse stato – Ding era stata presa da un’ondata di nausea così travolgente da decidere che avrebbe fatto a meno di lui. Non lo voleva più. Le faceva schifo. Per questo non aveva rivelato il suo nome a suo padre e aveva accettato di andare in campagna. Avrebbe partorito laggiù, e la levatrice avrebbe pensato al bambino. Sarebbe tornata a casa e nessuno avrebbe mai sospettato niente.
«Una via d’uscita facile e pulita», le ha detto sua madre, riempiendole la valigia; ma nove mesi dopo, Ding la pensa diversamente. Nove mesi dopo non c’è nulla di facile e pulito, in quella situazione, ché la levatrice è stata chiara: certe cose non si fanno più. Non alla luce del sole, ovviamente, ché se sai ungere i cardini giusti, ti si spalancano tutte le porte. Ma lei non aveva l’olio giusto, o meglio: non ne aveva abbastanza. Così la levatrice ha fatto il suo dovere e se n’è andata, lasciandole l’indirizzo di un orfanotrofio che avrebbe risolto la sua situazione. Ma Ding ha commesso l’errore di guardare sua figlia, di tenerla in braccio ed attaccarla al seno. E adesso le si spezza il cuore anche solo all’idea di doversi separare da lei. Ma sua madre è stata molto, molto chiara, ieri sera, al telefono.
E così adesso Ding è disperata come un’animale braccato, una volpe che non riesce a trovare la forza di amputarsi una zampa a morsi, pur di salvarsi dalla tagliola in cui è inciampata.
Il suo treno parte stasera alle sette. E per quell’ora, Ding dovrà aver risolto la questione. Sua zia le ha consigliato di sbrigare tutto alla vecchia maniera, ché gli orfanotrofi sono al collasso, e rischia che le sbattano tutte le porte in faccia. E poi, dove andrà? Che farà? Che s’inventerà?
«Tua madre ha ragione. Devi farti coraggio», le ha detto la zia, aiutandola a preparare le sue cose. «Ormai è tardi. Adesso, escine a testa alta.»
Ding ha le vertigini. Ma come si fa?, si chiede. Come posso

Shunrei dorme. Tranquilla e beata, ignara del fatto che sua madre voglia disfarsi di lei come se fosse un sacco di calzini maleodoranti. Così, quando arriva alla casa del taglialegna, oramai disabitata, Ding si fa forza, si stringe la bambina al petto e si lascia quella casupola dal tetto di paglia alle spalle. Il rombo della Cascata si sente in lontananza. Una specie di ruggito fragoroso dell’acqua che l’attira. Non l’ho mai vista, si dice, dirigendo i passi verso quel richiamo liquido.
Il rumore aumenta a poco a poco. L’aria stessa diventa più umida. Fa freddo, lassù. Come se l’inverno non se ne fosse ancora andato. E io dovrei lasciarti qui?, pensa, stringendosi contro quel fagottino rosa. Ding avanza, oramai gli alberi sono più radi. Forse è questa la radura di cui parla il marito della zia Xiaoyu, quella dove lui lascia le provviste per il Drago della Montagna. Perché non si sa mai, dice lui. Dovessi fare brutti incontri, dice, infischiandone di quello che pensa la suocera.

Ancora pochi passi, e gli alberi si diradano, lasciando il posto ad una vista mozzafiato.
L’acqua della cascata scroscia a valle, illuminata dal sole al tramonto. Ding si trova a metà altezza, il vertice è ad un centinaio di metri più in alto. Qui c’è solo il fragore dell’acqua e qualche albero e uno spiazzo erboso. Sarebbe perfetto per un picnic estivo, pensa Ding, avvicinandosi al bordo del crepaccio. L’acqua scende tumultuosa. La potenza del Drago che sembra quasi volersi mostrare in tutto il suo fulgore liquido. E sembra quasi volerla abbracciare. E dirle che va tutto bene. Che non farà male, mentre le rocce aguzze, poco oltre il crinale, suggeriscono tutt’altro.
Ding si leva le scarpe. Le sfila, lasciandole l’una accanto all’altra, a poca distanza dal dirupo. La bambina si agita. Apre gli occhi. Piange. Tutto quel fracasso deve averla svegliata, si dice Ding, accarezzando la schiena di sua figlia.
«Tra poco sarà tutto finito», le sussurra, sperando di calmarla. Ma sua figlia deve avere fame – o il pannolino bagnato – ché no, non si calma. E se per un attimo Ding pensa di allattarla – ché se devono andare all’altro mondo, tanto vale farlo con la pancia piena – desiste, perché teme che, dopo, non avrebbe più la forza necessaria per spiccare il salto e farla finita.
Ma anche volendo, come farei?, si chiede. Le gambe le fanno un male del diavolo. Colpa delle proteine, dice sua zia. E intanto Ding ha i polpacci più grossi di quelli di un calciatore. Avrebbe bisogno di una seduta di agopuntura. O di un bel bagno caldo. Uno di quelli in cui sprofondare senza pensieri, un piede a sgocciolare sul pavimento e una musica rilassante di sottofondo.
Ding ride. Tra poco avrò tutta l'acqua di questo mondo, pensa. E ridacchia ancora. Più forte. Mentre sua figlia piange, le lacrime le rigano il viso e l'orlo del crepaccio si avvicina sempre di più, sempre di più, sempre di più...

«Fossi in te, farei un passo indietro.»
La voce assomiglia ad un fruscio di carta ingiallita dal tempo. Un crepitare di foglie secche nel fuoco. Eppure, riesce a sentirla nonostante il rombo assordante della cascata. Ding si volta, il mascara che cola lungo le guance e le colora di un alone scuro il contorno degli occhi stanchi. C’è una figura, a pochi passi da lei. L’ha scambiata per delle rocce ammonticchiate l’una sull’altra, tanto era immobile. Invece, quella roccia ha parlato. E adesso la sta fissando con il più dolce dei sorrisi.
«I…»
«Eh», dice la roccia. Poi si muove. Recupera un bastone accanto a sé, si puntella e si solleva dal sasso piatto e largo che usa come sedile. E non è una roccia, no. È un uomo. Un vecchio incurvato dall’età, le sopracciglia bianchissime e cespugliose che sbucano sotto ad un cappello di bambù. «Scusami, ma con gli anni, i miei acciacchi si fanno sempre più sentire…», dice. E si avvicina.
Ding si stringe la bambina al petto. «Chi… chi sei?!» Non si accorge di aver gridato.
«Da dove vieni?», le chiede lui. Ha la pelle di un colore improbabile. Piena di rughe come un albero è ricco di venature. È la persona più vecchia che Ding abbia mai visto.
«Dal… villaggio», risponde lei. Come se lui le avesse chiesto l’ovvio.
«Non ti ho mai vista», insiste lui.
«È la prima volta che vengo quassù», ed è la verità. «Ai bambini è vietato superare la casa del taglialegna. E non tornavo al villaggio da molto tempo.»
«Capisco», mormora il vecchio. Avvicinandosi. «È un bel salto, eh?», le dice. Indicandole il fondo della cascata col bastone.
Lei annuisce.
«Forse un po’ troppo azzardato per una mamma ed una neonata. Non credi?»
Ding si morde le labbra. Trema. La sua bambina piange disperata. E qualcosa dentro di lei, alla fine, si spezza, e si lascia scivolare a terra, l’erba umida è fredda sulle calze.
«Non ho altra scelta» mormora, stringendosi al petto la sua bambina, come se da quel fagottino dipendesse la coesione stessa dei suoi atomi.
«Avanti, avanti. C’è una soluzione per tutto, nella vita», le dice il vecchio, poggiandole una mano sulla spalla. «Come si chiama questa bella bambina?»
«Shu… Shunrei. Si scrive con gli ideogrammi di Luna e Primavera.»
Al vecchio sembra piacere, quel nome. «Molto appropriato. Molto femminile.» E annuisce, soddisfatto. «Ha fame, eh?»
«Oh, lei ha sempre fame», replica Ding.
«I neonati sono così», commenta il vecchio. «Un buon appetito indica una persona forte e vivace.» Pausa. «Tu come ti chiami?»
«Ding. Come giada
«Ding», ed il vecchio sembra voler assaporare quel nome in punta di lingua. «Facciamo così, Ding. Io adesso mi siedo alle tue spalle. Perché intanto non mi racconti la tua storia, mentre allatti la tua bambina? Magari, in due, troviamo una soluzione, che ne pensi?»
«Ma tu chi sei?», gli chiede Ding, la bambina stretta al petto che strilla come un’ossessa, riempiendo l’aria di vagiti, quasi a voler zittire la cascata con la sua voce.
«Tua nonna mi conosce come Doko, ma giù al villaggio mi chiamano in molti modi.»
«Quali modi?»
«Vediamo… Il vecchio della Montagna. Il drago della Montagna. L’eremita della Cascata del Drago.» Pausa. «Sono chi vuoi che tu sia.»
«Voglio che tu sia il Drago. Quello delle fiabe. Quello che esaudisce i desideri!», ribatte Ding, nemmeno avesse di nuovo sette anni e le ginocchia sbucciate.
«Mmmmh», mormora il vecchio. «Io non sono il Drago, mi dispiace per te. Lui è troppo potente, per abitare questo povero corpo vecchio e stanco», e libera nell’aria una risata di cuore, forte e chiara come quella di un ragazzo di vent’anni.
«Allora non mi resta che la cascata», replica Ding. Serissima.
«Davvero?», chiede il vecchio. E quando lei annuisce con vigore, lui aggiunge: «Se è davvero così che la pensi, accomodati. Ma lascia la bambina.».
«No, lei viene con me.»
«Nossignore.»
Come? «Nossignore un corno!», replica Ding. «Lei è mia!»
«Lei non è tua.» La voce del vecchio è pacata come lo scorrere della sabbia in una clessidra. «Nessuno appartiene a nessuno, se non a se stesso. Lei è tua figlia, ma non ti appartiene.»
«Non mi appartiene? Mi ha sconvolto la vita e nemmeno mi appartiene? Nemmeno questo?»
«No. Nemmeno questo.»
«Non è giusto!»
«Sì che lo è», replica il vecchio, una scintilla paterna negli occhi scuri e dolci. «Tu le hai dato la vita. Tu hai scelto di darle la vita. Hai scelto di tenerla in vita. Perché arrenderti adesso?»
«Perché non posso.»
«Perché hai scelto di non potere.»
Ding lo fissa come se gli fosse spuntata una seconda testa. «Come?!»
«La vita è una questione di scelte. Non scegliamo di nascere, ma scegliamo di continuare a vivere. Giorno dopo giorno. Respiro dopo respiro. E a volte c’è chi sceglie di arrendersi. Tutto qui.»
«Tutto qui?!»
«Sì, ragazza mia. Tutto qui», ribatte il vecchio Doko.
«La vita non è mica così facile.»
«Non è facile infatti. Né facile, né difficile. Soltanto semplice.» Pausa. «Avanti, Ding. Tua figlia ha fame e io sono curioso di sentire la tua storia.»

E Ding obbedisce. E racconta tutto. Di sé. Di Fulang. Della gravidanza. Di sua madre, di sua zia, di sua nonna. Parla a ruota libera, fino a quando la gola non le fa male e non ha più parole nella testa. Poi scende il silenzio, nella radura, riempito solo dal rombo della cascata. Shunrei mangia, Ding fissa qualcosa oltre l’acqua che scende a valle illuminata dai raggi del sole, Doko medita, le palpebre socchiuse e il cappello calato sul viso.
«Prima mi hai detto che la vita è semplice. Ma che cos’è la semplicità, maestro?», chiede Ding, cullando la sua bambina tra le braccia.
«Seguire il soffio del vento», ribatte lui.
«Io non lo so mica, dov’è che soffia il vento, adesso…»
«A volte devi solo fermarti. Fermarti e ascoltare.»
«Ma se mi fermo, ho la testa piena di… pensieri…»
«Allora devi allontanarti un po'. E vedere se quei pensieri sono poi così brutti e cupi come credi.»
«E come faccio?»
«Lasciali a me», le dice lui. Con una tranquillità ed una sicurezza da farle pensare Perché no? «Credi che io non sappia prendermi cura di una neonata?»
«No, ma… Come l’allatterai?»
Lui sorride. «Quando scenderai, dirai che il Vecchio della Montagna vuole del latte fresco. Tutti i giorni. Vedrai che arriverà puntuale.»
«E se non dovessi tornare? Che ne sarà della mia bambina?»
«A te cosa importa?», e quella domanda brucia, come se le avesse assestato uno schiaffo a mano aperta sulla guancia.
«È mia figlia!», protesta Ding.
«Stavi per gettarla via, o sbaglio?» Lei abbassa lo sguardo. Colpevole. Si sente così piccola. Così misera. Così… «… fragile.»
«Come, scusa?» Adesso leggi pure nel pensiero?!
«Ho detto che sei fragile. Sei presa tra due fuochi. Non hai sufficiente chiarezza per scegliere una strada o l’altra. Devi allontanarti dal tuo problema e valutarlo. Con calma e pazienza. Se sceglierai di non poterla crescere, saprai che qui con me è al sicuro. Altrimenti, la tua bambina sarà sempre qui. E potrai venire a riprenderla quando vorrai. Quando ti sentirai pronta.»
«Dov’è la fregatura?»
«Nessuna fregatura», replica il vecchio. Sorridendo, gli occhi dolci e scuri che brillano sotto le sopracciglia bianchissime. «Pensaci, Ding. Pensaci e prenditi tutto il tempo che ritieni più opportuno.»
«Ho il treno alle sette», ribatte lei.
«Ce ne sarà un altro, prima o poi.»
«E che dirò a casa?»
«Che il panorama è incantevole, in questa stagione», ridacchia il vecchio. «Anzi, a tal proposito. Guarda, è sorta la luna….»
 
 
   
 
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