Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    29/05/2016    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~~
 “Ridono di me non solo in tutta Italia, ma in tutto il mondo!” esclamò Isabella d'Aragona, battendosi con forza i pugni contro le gambe: “Ora mi dite anche che mia madre ha scritto anche a sua sorella, la regina d'Ungheria, sparlando di me! Invece di darmi il loro sostegno, ridono tutti di me! Come se fosse colpa mia...!”
 La rabbia che provava era tale da farle vibrare la voce e portarla quasi al pianto.
 Il messo napoletano, assieme ai due soldati che gli facevano da scorta, ascoltava in silenzio, il capo chino e un'espressione mesta che ben si addiceva al clima cupo che si respirava nel castello di Pavia.
 “Che colpa ne ho io, se mio marito non ne vuole sapere di me?!” continuò Isabella, asciugandosi una lacrima furtiva che stava scivolando oltre le ciglia: “Se n'è anche andato a Vigevano con suo fratello Ermes, dicendomi di restare pure a Pavia, come se non mi volesse intorno...!”
 Il messo di Napoli alzò appena gli occhi, incerto se provare a parlare o meno. Avrebbe voluto farle notare che se lei stessa non avesse ripetutamente ribadito nelle sue lettere quanto fosse infelicemente sposata, forse lo scandalo sarebbe stato più contenuto. Tuttavia egli si rendeva conto che quella che aveva di fronte era poco più che una ragazzina, terrorizzata da quello che le stava accadendo e da quello che sarebbe potuto essere il suo futuro.
 Comunque, quando si accorse che la Duchessa si stava passando una mano sugli occhi per reprimere il pianto sul nascere, l'uomo trovò il coraggio di passare alla parte peggiore.
 “Vostro padre ha deciso di inviare un contingente autorevole qui nello Stato di Milano per certificare la nullità delle nozze e procedere alla rescissione di ogni contratto.” disse il messo, chiudendo con un inchino profondissimo: “Egli crede che dopo quindici mesi circa non ci sia più molto in cui sperare e non vede l'utilità di tenere in vita questo legame.”
 Isabella improvvisamente smise di piangere. Puntò gli occhi, resi ancora più vividi dalle lacrime, sull'uomo che le stava davanti e deglutì rumorosamente. Non voleva rinunciare alla sua posizione, né a suo marito che, per quanto scostante e pieno di difetti, continuava a piacerle in modo tanto irrazionale quanto disperato.
 “Dite a mio padre che mi serve ancora un mese. Se fallirò e il matrimonio sarà da annullarsi, allora non farò storie. Ancora un mese, ve ne prego.” disse la giovane, con risolutezza.
 Il messo napoletano arricciò un angolo della bocca e a malincuore ribatté: “Se è questo che volete, scriverò subito a vostro padre per chiedere un mese di proroga.”
 Isabella annuì con forza e, sistemandosi la chioma di un meraviglioso rosso scuro, cominciò a ragionare in fretta sul da farsi.

 Caterina stava faticando come non poco a seguire il discorso del Capo del Consiglio degli Anziani.
 L'uomo le stava elencando in parte i problemi e in parte i dubbi della popolazione di Forlì, ma lo stava facendo con un tono talmente pedante e monotono che anche il più volenterosi degli auditori si sarebbe distratto almeno un paio di volte.
 La Contessa aveva un motivo molto serio, per aver la testa altrove, ma si rendeva conto che non era il caso di sottrarsi al suo dovere.
 Finita la lunga filippica sulle difficoltà di una grande fetta di popolazione nel reperire i soldi per le tasse, Caterina prese in fretta la parola: “Capisco e condivido le vostre lamentele e le vostre difficoltà, tuttavia ho già ridotto al minimo le tasse e cerco di economizzare in ogni modo le risorse, portando avanti solo le spese strettamente indispensabili.”
 “Con permesso, mia signora – fece l'Anziano – i lavori a quello che chiamano il Paradiso e le ristrutturazioni alla rocca di Ravaldino hanno portato all'aumento delle tasse e non si trattava di spese strettamente indispensabili...”
 Caterina avvertì la bocca seccarsi per un momento, sentendo nominare il Paradiso. Pareva una vera e propria congiura per farla distrarre dal vero argomento della conversazione.
 “I lavori alla rocca – rispose, dopo la prima esitazione – sono invece fondamentali, perché in caso di pericolo, avere una struttura solida e inaccessibile potrebbe essere l'unica via di salvezza.”
 “Per voi, forse, non di certo per la popolazione intera!” la rimbrottò uno degli Anziani, alzandosi in piedi: “Che se ne fanno, i forlivesi comuni, di una fortificazione come Ravaldino?”
 “Aspettate che qualcuno ci invada e lo scoprirete!” ribatté la Contessa, con altrettanta veemenza, scansando la sedia con un movimento rapido e secco.
 L'uomo si zittì, guardandola con una sorta di sospetto, ma evitò di alimentare ulteriormente la diatriba.
 “E per quanto riguarda il Paradiso? Era proprio necessario costruire quella specie di casupola appena fuori dalla rocca?” indagò il Capo degli Anziani, cercando di nuovo di mettere in difficoltà Caterina.
 “Era un ampliamento necessario.” si limitò a dire la Contessa.
 “Vostro figlio era d'accordo, con questo ampliamento necessario?” fece l'Anziano, stringendo le palpebre.
 Caterina perse una volta per tutte la voglia di sentire le lamentele di quel vecchio, così lo liquidò dicendo: “Ovviamente. Mio figlio è il Conte legittimo e perciò ogni decisione passa anche dal suo giudizio. Se non lo vedete a presiedere tutte queste riunioni è solo perché è ancora un ragazzino e per lui è meglio passare le sue giornate a studiare e a imparare, piuttosto che starsene in questa stanza a fare la muffa, mentre voi vi lamentate per motivi assurdi.”
 Qualcuno borbottò, qualcun altro parve soddisfatto dalla spiegazione e per nulla offeso dalla considerazione che chiudeva il breve discorso della Contessa. Molti altri, poi, erano annoiati quanto Caterina dai discorsi del Consiglio e accolsero quella frettolosa chiusura con gioia.
 Man mano che gli Anziani lasciavano la stanza del Consiglio, Caterina sbolliva e ritrovava la calma.
 “Ritornate subito alla rocca?” chiese Oliva, rassettando le sue carte.
 La Contessa, che aveva trovato in quel vecchio nemico un valido sostenitore, gli disse di andare pure, che lei aveva ancora qualcosa da fare a palazzo.
 Rimasta sola, Caterina lasciò la stanza e, seguita dagli sguardi curiosi delle guardie, si mise a camminare per corridoi e stanze che non attraversava più o meno dalla notte in cui era morto Girolamo Riario.
 Come guidata da una forza superiore, la Contessa arrivò fino alla porta chiusa che permetteva l'accesso alla stanza delle Ninfe.
 Appoggiò una mano sulla maniglia e, con un profondo sospiro, si decise ad aprire l'uscio ed entrare nella camera in cui era stato ucciso il suo primo marito.
 Non sapeva nemmeno lei cosa l'avesse portata lì di preciso. La finestra, con il suo pesante davanzale, lasciava filtrare la luce incerta di quell'aprile e le permetteva di vedere la stanza alla perfezione.
 Era come se qualcuno avesse congelato il tempo e lo spazio. Ogni dettaglio riportava a quella notte di due anni addietro. C'erano ancora i mobili e gli oggetti buttati alla rinfusa. Lì il popolino non aveva osato entrare.
 Caterina mosse un paio di passi verso la finestra e si fermò proprio davanti alla grande chiazza scura che testimoniava l'omicidio di Girolamo. Era morto proprio in quel punto.
 Si inginocchiò un istante, andando a sfiorare con la punta delle dita il sangue, ormai una vernice indelebile sul pavimento.
 Dopo quel gesto, che parve a lei stessa del tutto privo di senso, Caterina si portò quella stessa mano al ventre.
 Una sensazione di libertà e forza la travolse. Mentre ancora fissava il vecchio sangue del suo primo marito, sentiva il proprio ribollirle di vita nelle vene.
 Ormai ne era quasi certa, anche senza avere il più illustre parere del suo medico personale. Si conosceva troppo bene per non capire che dentro di sé stava crescendo una nuova vita.
 Chiuse un momento gli occhi, sentendo che Girolamo era sempre più lontano, un fantasma sempre meno spaventoso e pericoloso. Ora davanti a sé c'era un altro uomo, un'altra realtà. Sarebbe stato difficile, lo sapeva, ma avrebbe dato alla luce una creatura frutto dell'amore, non della violenza e tanto le bastava per trovare il coraggio e il desiderio di combattere per difendere quel segno tangibile della sua felicità.
 Con un ultimo sguardo alla macchia sotto alla finestra, Caterina uscì dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle.
 Decise che avrebbe atteso ancora qualche giorno, per essere ancora più sicura, e poi avrebbe interpellato il suo medico. Dopodiché l'avrebbe detto anche a Giacomo. Era certa che anche lui ne sarebbe stato felice, magari un po' spaventato nel pensare a quello che li avrebbe aspettati, ma felice, tremendamente felice.
 In fondo, l'avevano cercato entrambi, senza dirselo apertamente, lasciando che i fatti parlassero per loro.

 Gian Galeazzo vuotò il calice di vino e si alzò da tavola: “Mia moglie Isabella?” chiese, accigliandosi.
 Il servo abbassò il capo: “Proprio lei, mia signora. È arrivata a Vigevano pochi minuti fa e sta raggiungendo il palazzo.”
 Il Duca si grattò la testa, indeciso se essere lieto o contrariato da quella notizia. Da un lato era felice che la moglie avesse preso quell'iniziativa, dall'altro non apprezzava il fatto che Isabella avesse contravvenuto a una sua disposizione. Quella napoletana era troppo intraprendente, per lui.
 “Va bene, va bene...” farfugliò Gian Galeazzo: “Ditele che l'aspetto nel... Nella... Oh, al diavolo, le vado incontro.”
 Il servo restò chino, mentre il Duca gli passava davanti, diretto all'ingresso del palazzo.
 Quasi per caso, Gian Galeazzo incontrò il fratello Ermes, appena prima di oltrepassare il portone principale del palazzo, così lo chiamò a sé, per farsi forza: “Accompagnami ad accogliere la mia sposa.”
 Ermes non fece storie e scortò il fratello nel vento freddo che scuoteva Vigevano fin dalla sera precedente, rammaricandosi solo di non aver avuto il tempo di indossare una cappa imbottita.
 Isabella d'Aragona restò abbastanza stupita nel vedere il marito andarle incontro, mentre si avvicinava alla residenza vigevanese degli Sforza. Volle leggere quell'iniziativa come un buon segno e perciò tentò con tutta se stessa di apparire lieta, anche se per tutto il tragitto da Pavia fino a lì non aveva fatto altro che borbottare tra sé le dure frasi che avrebbe voluto rivolgere al Duca per indurlo una buona volta a toglierla da quell'imbarazzante situazione.
 Per tutto il resto della giornata, Isabella non riuscì mai a stare da sola nemmeno un minuto con il marito che, piuttosto che no, la trascinò in giro per la città, assieme a Ermes, per mostrarle le varie migliorie apportate dal maestro Leonardo.
 Cenarono in pompa magna, alla presenza di alcuni dignitari locali e solo quando fu il momento di ritirarsi per la notte, Isabella trovò lo spirito di sussurrare a Gian Galeazzo: “Non provate a scapparmi, questa notte.”
 Il Duca fece un sorrisetto tirato, mentre nel suo stomaco nascevano i crampi che lo prendevano quasi ogni sera, con sempre maggior violenza e frequenza. Non le promise niente, senza però negarsi apertamente, in modo da non adirarla.
 
 “Il messo pontificio dovrebbe arrivare tra un paio di giorni – precisò Tommaso Feo, rileggendo la lettera arrivata da Roma – e richiede la vostra presenza a Imola, per assistere alla cerimonia ufficiale.”
 Caterina annuì, distrattamente, desiderosa di chiudere in fretta quell'ultimo aggiornamento della giornata.
 Voleva andare da Giacomo, al Paradiso, per dirgli tutto. Quella mattina il medico le aveva dato la conferma che aspettava e, facendo bene i calcoli, tra tutti e due erano anche riusciti a stimare che il bambino sarebbe nato per fine novembre, al massimo per l'inizio di dicembre.
 C'erano così tante cose che lei e Giacomo dovevano dirsi, che dovevano decidere, che starsene lì a parlamentare con Tommaso su messi pontifici e conventi da costruire le pareva una perdita di tempo colossale.
 “È tutto?” chiese la Contessa, con impazienza, mentre il castellano rileggeva ancora una volta le frasi giunte da Roma.
 Tommaso si riscosse e ammise: “Sì, sì, non ho altro da riferire per oggi.”
 Caterina si lasciò scappare un sospiro di sollievo e salutò in fretta il castellano, uscendo in fretta dallo studiolo.
 Tommaso si morse la lingua appena in tempo, ma quando fu certo di essere rimasto davvero solo, non poté evitare di sibilare: “Correte, correte da lui...”

 Isabella non credeva possibile che Gian Galeazzo non avesse capito quanto grave era la loro posizione.
 Era inutile starsene in attesa in quella stanza, così splendidamente arredata, con mobili in legni pregiati ricchi di pirografie con lo stemma degli Sforza, se mancava lo sposo.
 Stanca di attendere qualcuno che non sarebbe mai arrivato di sua spontanea volontà, Isabella afferrò la vestaglia e se la infilò con risolutezza.
 “Questa sera non torno in camera, quindi ritiratevi pure.” disse alla sua dama di compagnia, che con una riverenza si defilò all'istante.
 La Duchessa fece un paio di respiri profondi e poi, preso un candelabro, uscì dalla sua camera e si addentrò nelle viscere del palazzo, in cerca di suo marito.
 Prima di tutto, provò nella sua stanza da letto, ma la trovò vuota. Allora tentò in tutte le sale che le capitavano a tiro, una dopo l'altra, fino a giungere nelle cucine.
 Stava per desistere, convinta che probabilmente il marito, pur di sfuggirle, fosse andato a trascorrere la notte altrove, magari perfino in qualche osteria di second'ordine insieme a compagnie discutibili, quando sentì un lieve gemito provenire dalla dispensa.
 Con il cuore che le martellava nel petto, spaventata da quel suono improvviso e inatteso, Isabella si mosse rapida, seguendo il mugolio dolente che si faceva sempre più vicino.
 Arrivata alla dispensa, ignorando l'agitazione che la prendeva fin nelle ossa, Isabella spalancò la porta e si trovò davanti proprio Gian Galeazzo.
 Il giovane era seduto in terra, le mani sullo stomaco, imperlata di sudore e un'espressione sofferente dipinta in volto.
 Il Duca alzò lo sguardo verso la moglie e tentò immediatamente di ripararsi dal suo sguardo con un braccio: “Lasciatemi stare, sono malato...” disse, la voce appena rotta dai dolori lancinanti.
 Isabella non lo aveva mai visto così. Sapeva che suo marito soffriva spesso di dolori all'addome e aveva personalmente assistito al via vai di eminenti medici presso le sue stanze, a Pavia. Tuttavia suo marito non le si era mai mostrato a quel modo.
 “Fareste meglio a coricarvi in un letto...” sussurrò Isabella, accucciandosi accanto al giovane e trovandolo fradicio di sudore freddo e con gli occhi acquosi e febbrili.
 Gian Galeazzo la guardò un momento con le pupille vitree e non si oppose, quando lei cercò di tirarlo in piedi.
 Non senza fatica arrivarono fino alla stanza del Duca. Isabella lo aiutò a levarsi parte dei vestiti, gli asciugò con una pezza il viso e poi lo fece adagiare sul suo giaciglio.
 Gian Galeazzo era preda della febbre e faticava a parlare, i denti stretti in una morsa e il viso contratto in modo orribile.
 “Devo chiamare il vostro dottore?” propose Isabella, che avrebbe voluto più di ogni altra cosa evitare al marito quella penitenza.
 Gian Galeazzo, a gesti, fece capire che non voleva nessun medico.
 “Allora resterò qui con voi io. Non posso lasciarvi solo...” decise Isabella e, prendendo una sedia, si sistemò accanto al letto.
 Prese la mano umida e fredda del marito e si mise d'impegno a passargli la pezzuola sulla fronte a intervalli regolari, fino a che, stremato dal male e dalla stanchezza, alla fine Gian Galeazzo si addormentò.

 “C'è qualcosa che non va?” domandò Giacomo, che da qualche giorno aveva notato delle differenze in Caterina, accarezzandole la spalla con delicatezza.
 La Contessa si stava riscoprendo più codarda del previsto. Non riusciva a confessare a Giacomo il suo stato e non ne capiva il motivo.
 Quando aveva taciuto le sue gravidanze a Girolamo, lo aveva fatto per pura rappresaglia, per privarlo di una gioia, perché, malgrado tutto, per il suo primo marito ogni nuovo erede era da festeggiare.
 Mentre adesso che aspettava un figlio da Giacomo e che non vedeva l'ora di sentirsi pienamente felice e realizzata come donna e come madre assieme a lui, aveva solo paura.
  “Devo dirti una cosa.” prese coraggio Caterina, appoggiandosi sui gomiti e guardando Giacomo con attenzione, per vederne ogni reazione.
 Il ragazzo si sistemò con un gesto fluido i capelli, spostandosi una ciocca dalla fronte e si accomodò meglio, rapito dalle ombre che donavano alle forme della sua donna quel velo di mistero che la rendeva più attraente che mai.
 “Oggi ho visto il mio medico – cominciò Caterina, facendosi più tesa – e lui mi ha dato conferma a una cosa che già sospettavo, ma di cui ancora non ti avevo parlato perché...”
 Non sapeva come continuare, perciò si perse a lisciare le coperte ricamate con entrambe le mani, tanto per guadagnare tempo.
 Giacomo le si avvicinò appena, facendosi più serio e concentrato. Il suo intuito gli suggeriva qualcosa, ma la sola idea gli faceva girare la testa, dunque attese che fosse Caterina a dirgli tutto.
 Alla fine, capendo di non poter protrarre oltre l'attesa, la Contessa fece un lungo sospiro e dichiarò: “Aspettiamo un figlio.”
 Giacomo sentì il cuore fermarglisi nel petto per un istante e poi ripartire, con più forza e vigore di prima, illuminato da una nuova fiamma.
 Senza ragionarci sopra, si buttò su Caterina, assaporandone la pelle calda e soffice come la prima volta e, dopo un profondo bacio, le chiese: “Davvero? Diventerò padre?”
 Resa euforica dalla reazione entusiasta di Giacomo, che quasi piangeva di gioia, Caterina annuì: “Sì, diventerai padre.”
 Giacomo immerse il viso nei lunghi capelli della sua donna e le sussurrò: “Mi stai rendendo l'uomo più felice del mondo.”
 “Dovremo pensare bene a tutto.” disse piano Caterina, che, pur non volendo frenare il trasporto del ragazzo, non riusciva a trattenere le sue incertezze.
 “Ci penseremo domani – sorrise Giacomo, stringendola forte a sé – ora dobbiamo essere felici e basta.”
 E per quella notte il loro universo segreto li catturò una volta di più, proteggendoli dal mondo e da tutti quelli che restavano in attesa di un loro passo falso.

 Alle prime luci dell'alba, Gian Galeazzo si svegliò di soprassalto. Si guardò attorno confuso e solo quando vide Isabella, addormentata su una sedia accanto al suo letto, si ricordò di quello che era accaduto.
 Si mise a sedere sul letto e si tastò con circospezione la pancia, scoprendo che i dolori se n'erano andati del tutto.
 Era in un bagno di sudore e si sentiva i capelli incollati al collo e alla fronte. Si mise a sedere e cercò di ricomporsi, per quel che poteva.
 Quei pochi rumori bastarono a Isabella per svegliarsi dal suo sonno leggero.
 “Come state?” chiese, dopo un breve sbadiglio.
 Gian Galeazzo deglutì a fatica per via della gola secca: “Molto meglio.”
 “State così male ogni notte?” chiese Isabella, sfregandosi gli occhi per svegliarsi meglio.
 “Non tutte le notti, ma molto spesso.” confessò il Duca, in imbarazzo.
 Il suo male lo metteva a disagio e lo faceva sentire un uomo di seconda categoria. Si sentiva debole e inetto, inadatto alla vita a cui Dio lo aveva destinato. Un uomo malaticcio e incapace di reggere il peso della carica che il destino gli aveva concesso.
 “Ed è per questo che mi evitate dal giorno delle nostre nozze?” domandò la giovane, che nel corso della notte era giunta anche a quella conclusione.
 Gian Galeazzo si passò una mano sul collo, in difficoltà: “In parte sì, ho sempre il timore di star male all'improvviso e...” scosse il capo, incapace di continuare.
 “In parte questo, e in parte che altro?” proseguì Isabella, ben lungi dall'essere in imbarazzo, giunta a quel punto.
 Il Duca schiuse le labbra e gli ci volle un po', prima di dire: “Voi mi siete piaciuta moltissimo, fin dal primo momento in cui vi ho vista e questo non ha fatto che rendere tutto più difficile. Io... Sono impacciato e ho paura di non essere all'altezza...”
 Isabella si alzò dalla sedia e si andò a mettere accanto a Gian Galeazzo sul letto. Lui fece per protestare, dicendole che le lenzuola erano umide di sudore e altre scuse che lei non accolse in nessun modo.
 “Anche io ero piena di paure, quando ho saputo che saremmo diventati marito e moglie. Solo perché i miei modi possono sembrare spavaldi, anche io, a volte, mi lascio spaventare da certe cose.” spiegò Isabella, prendendo la mano del Duca: “Ma insieme possiamo farcela, Gian Galeazzo. Abbiamo avuto la fortuna di piacerci fin da subito, adesso stiamo scoprendo anche che possiamo andare d'accordo.”
 Il Duca ascoltava in silenzio, tentato, a ogni parola della moglie, di scappare, governato da quella paura profonda che non lo voleva lasciare per nessun motivo.
 “Mio padre mi ha concesso ancora un mese di tempo.” fece alla fine Isabella, abbassando lo sguardo: “Se tra un mese il nostro matrimonio non sarà ancora stato consumato, lui lo farà annullare, io tornerò a Napoli e noi due non ci vedremo mai più. È questo che volete?”
 “No.” rispose subito Gian Galeazzo, colpito da quella notizia come da una freccia nel centro del petto.
 Quella cosa cambiava tutto. Se prima si era permesso di lasciare ai suoi demoni e alle sue paure di frenarlo, adesso sentiva che non poteva commettere un errore tanto imperdonabile. Sua moglie aveva ragione, su tutto: non c'era più tempo per le incertezze e i dubbi.
 “E allora diamo loro un buon motivo per non far annullare il matrimonio.” disse prontamente Isabella e senza troppi riguardi bloccò Gian Galeazzo per riuscire a scoccargli un bacio sulle labbra, a cui lui rispose a scoppio ritardato, ma comunque con molto entusiasmo, malgrado la fiacchezza dovuta alla notte di grande male.
 Mentre le mani di Isabella cominciavano a chiedere di più e così le sue labbra, Gian Galeazzo ritornò con la mente alla lettera di sua sorella Caterina e dovette ammettere con se stesso che il sapore del sangue gli piaceva e che ne voleva ancora di più.

 Rodrigo Borja si trattenne a stento dal fare a pezzi la lettera del messo pontificio. Se non fosse stato che quella era la corrispondenza privata del papa, lo spagnolo non avrebbe esitato un momento a sfogare la propria rabbia su quella pergamena.
 Invece la ripiegò con estrema cura e si adoperò a rimettere al suo posto il sigillo, in modo tale che Innocenzo VIII non potesse sospettare che qualcuno aveva già aperto e letto la missiva.
 Rodrigo concluse la sua opera egregiamente, benché quella testa di legno del papa non si sarebbe forse accorto di nulla nemmeno se avesse ricevuto una lettera con la ceralacca spezzata in due.
 'Castra expugnata dicuntur' aveva scritto il messo papale. E a quanto scriveva quell'insulso spione, la stessa Isabella d'Aragona andava in giro a vantarsene apertamente, fingendo un pudore che non le era per nulla proprio.
 'Le castella sono state espugnate: così si dice' ribadiva, in italiano, il messaggio del messo pontificio, come se ci fosse bisogno di specificare oltre.
 Rodrigo aveva sperato troppo che l'alleanza tra Napoli e Milano saltasse e quindi la sua delusione era stata immensa. Da quando si era sparsa la voce che il Duca Gian Galeazzo non sembrava disposto ad adempire ai suoi doveri coniugali, il Cardinale Borja aveva pregato affinché la situazione restasse immutata fino a portare Alfonso d'Aragona a chiedere l'annullamento.
 E invece quella piccola intrigante alla fine era riuscita a circuire il giovane Duca...
 “La corrispondenza di Sua Santità...?” chiese uno dei servi, affacciandosi nello studio di Rodrigo.
 Borja lasciò cadere la lettera appena richiusa in cima alle altre e disse, sprezzante: “Ecco qua. Portatele tutte al papa, che se la veda lui...”

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas