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Autore: Adeia Di Elferas    31/05/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Ah! Sembrerebbe che il giovane Duca abbia decisamente cambiato idea in merito a vostra cugina, figlia mia...” esclamò Ercole Este, terminando di leggere l'ultima missiva dell'ambasciatore Trotti, in cui si diceva chiaramente che, da un giorno con l'altro, dopo mesi di dilazioni, il Duca di Milano aveva cominciato a frequentare con assiduità quasi imbarazzante le stanze della moglie.
 “Andando avanti di questo passo – soppesò Ercole – Isabella resterà gravida rapidamente e il Duca avrà il suo tanto sospirato erede...”
 Beatrice fingeva di essere lieta per la cugina, mentre dentro di sé sentiva bruciare il solito rancore che l'aveva accompagnata fin dalla prima infanzia. Sempre un'Isabella a rovinarle la piazza!
 La moglie di Ercole, Eleonora d'Aragona, frenò l'entusiasmo del marito sul nascere. Riusciva a leggere meglio del suo consorte le emozioni represse della figlia e, per quanto nemmeno lei fosse stata felice nel dare alla luce una seconda femmina, dopo la primogenita Isabella, con il tempo aveva imparato ad amare la figlia tanto quanto la sorella maggiore.
 “Dite a Beatrice perché siamo qui con lei.” fece Eleonora, con lo stesso cipiglio con cui presiedeva l'Esame delle Suppliche: “Spiegatele le novità circa il suo matrimonio.”
 Ercole represse uno sbuffo: “Certo, certo... Dunque, Ludovico Sforza aveva chiesto di anticipare le nozze all'estate, dato che sembrerebbe aver cacciato la sua amante dalla corte.”
 Beatrice si permise di sperare, ma il tono paterno lasciava poco a cui appigliarsi.
 “Tuttavia, parrebbe che lo Sforza non sia in grado di sborsare la dote richiesta di centocinquantamila ducati per sua nipote Anna Maria, che andrà in sposa a vostro fratello Alfonso. Ora, anche se abbiamo proposto di scalare la vostra dote di quattromila ducati a quella di Anna Maria, sembra che per l'estate Ludovico proprio non riesca a trovare la somma.” sciorinò in fretta Ercole, convinto che tanto la figlia non potesse capire quelle fini regole diplomatico-economiche.
 Ovviamente si sbagliava.
 Beatrice trovava profondamente ingiusto che Anna Maria Sforza, che di fatto contava meno di niente, avesse una dote principesca, mentre lei, la secondogenita del signore di Ferrara, dovesse accontentarsi di una cifra tanto misera da poter essere paragonabile a un 'piccolo sconto' su un altro matrimonio.
 “E per un motivo molto simile, il Moro vorrebbe che le vostre nozze si tenessero, come dice lui, alla casalinga, qui a Ferrara, ma non possiamo permetterlo. La cerimonia sarà in pompa magna, perché se lo Sforza vuole un'alleanza duratura con noi, deve dimostrarlo impegnandosi anche economicamente!” aggiunse Ercole, con una certa enfasi.
 Su quel punto, più di tutti, si era concentrata Eleonora. Ella voleva poter accompagnare la figlia a Milano, respirare l'aria aperta e intellettuale di quella corte, bearsi, una volta tanto, di un ambiente stimolante e vitale, così diverso da quello in cui il matrimonio l'aveva costretta a vivere. Per Trotti ed Ercole sarebbe andata bene anche una cerimonia da poco, ma Eleonora aveva trascinato il marito verso la sua posizione, facendogli credere che le sue motivazioni fossero puramente di ordine politico.
 “Dunque?” chiese allora Beatrice, dato che i genitori non accennavano a proseguire il discorso.
 “Dunque aspetteremo gennaio, come previsto, a maggior ragione adesso che il legame tra il Duca e la Duchessa si è finalmente creato.” rispose seccamente Eleonora d'Aragona, che nel profondo restava più napoletana, che non ferrarese: “Abbiamo deciso di parlartene solo per evitare che qualche pettegolezzo di palazzo ti portasse a nutrire speranze che potessero essere disattese dalla realtà.”
 Beatrice guardò entrambi i genitori con risentimento. Sapeva benissimo che a loro interessava di più il matrimonio di Alfonso e quello di sua sorella Isabella, e finanche quello di sua cugina Isabella...
 Si trattenne, comunque, dai suoi soliti commenti sprezzanti, e fece una profonda riverenza: “Come i miei signori genitori desiderano.”

 Monsignor Giacomo Mezzamici, Vicario Generale del Vescovo Monsignor Simone Bonadies consegnò con orgoglio la Bolla papale denominata 'Ex juncto nobis' a Fra Bernardo da Crema, Generale dell'Ordine, affinché con i soldi raccolti dalle elemosine e con il benestare della Contessa Sforza Riario si adoperasse a costruire un convento in onore della Madonna, che in Romagna, in quei mesi, aveva fatto miracoli straordinari.
 Caterina seguì la cerimonia al fianco del figlio Ottaviano che per l'epoca aveva indossato i suoi abiti migliori, comportandosi, di fatto, per la prima volta come il vero Conte.
 Con i suoi undici anni, Ottaviano non aveva ancora la sicurezza adatta al signore di due città, tuttavia riuscì a mostrare un atteggiamento compito e rassicurante che parve piacere a coloro che erano accorsi per assistere.
 Caterina era felice di vedere che almeno in quel tipo di occasioni Ottaviano riusciva a cavarsela discretamente, anche se riconosceva dei tratti che la inquietavano. Aveva visto suo figlio stringere spesso le redini con nervosismo, e inclinare appena la testa da un lato, come aveva fatto spesso suo padre quando era ancora giovane.
 Sulla strada di ritorno a Forlì, poi, Ottaviano non volle scambiare nemmeno due parole con la madre, fingendosi incredibilmente intento a chiacchierare con una delle guardie che li scortavano.
 Era un modo come un altro per tenerla a distanza. Quel suo atteggiamento un po' le ricordava il modo in cui lei stessa aveva cercato di allontanare suo padre Galeazzo Maria dopo che era stata fatta sposare al suo primo marito. C'era da dire, però, che lei non aveva le stesse colpe del del defunto Duca...
 Dopo quell'impegno quasi mondano, Caterina poté reimmergersi nella sua vita quotidiana, che si dipanava tra lo studiolo di Tommaso Feo e il Paradiso.
 Aveva ricevuto una lettera da Isabella d'Aragona, che la ringraziava per 'tutto quello che aveva fatto', dato, scriveva 'che il merito d'ogni cosa sembra derivare anche da una vostra missiva, e di questo vi sarò eternamente grata'. Chiudeva suggerendo una sua possibile gravidanza, che avrebbe messo al sicuro, secondo lei, la posizione di Gian Galeazzo, che invece si mostrava ancora 'troppo remissivo e obbediente nei confronti del vostro zio, messer Ludovico'.
 Sapere che anche suo fratello era in attesa di un figlio, aveva dato una nuova forza a Caterina. Anche se con Gian Galeazzo non aveva mai avuto un legame troppo forte, avere qualcosa che li stesse accomunando in quel periodo la faceva sentire più vicina a casa.
 Lei e Giacomo ancora non erano arrivati a una linea comune su come nascondere o confessare il fatto che stessero per diventare genitori e Caterina cercava di sollevare molto di rado la questione, per evitare attriti.
 Giacomo la faceva facile, diceva che il mondo avrebbe dovuto farsene una ragione, ma non immaginava nemmeno cosa sarebbe potuto accadere, se si fosse saputo di un figlio loro. Caterina già vedeva Milano, Napoli, Roma, forse anche Firenze, sollevarsi e sfruttare quella situazione a loro favore. 
 Suo zio Ludovico si sarebbe risentito nel sapere che le voci che gli erano arrivate fino a Milano erano vere e chissà in che modo si sarebbe vendicato per le promesse disattese dalla nipote!
 Napoli avrebbe sfruttato la 'condotta discutibile' della Contessa di Forlì probabilmente per spingere le famiglie nobili di Forlì e Imola a deporla o, peggio, a ucciderla assieme a Giacomo e al bambino che ancora doveva nascere, per far assurgere al potere Ottaviano che, coi suoi undici anni sarebbe stato una pedina estremamente facile da muovere a piacimento.
 Il papa, che presto sarebbe potuto cambiare, viste le scarse condizioni di salute di Innocenzo VIII, avrebbe potuto anche revocare il titolo a Caterina, con la scusa che un figlio illegittimo non era ammissibile, per una donna sottomessa allo Stato della Chiesa.
 Firenze, poi, avrebbe potuto o schierarsi per Ottaviano, cosa poco probabile, dato che Caterina si era fatta persuasa che dietro alla Congiura degli Orsi ci fosse proprio il Magnifico, o avrebbe potuto far pressioni a Roma, affinché deponesse in blocco Caterina e tutta la sua discendenza in favore di un qualche signorotto di loro gradimento. Dopo tutto, non avevano forse fatto una cosa simile anche a Faenza, facendo adottare il piccolo Astorre al Consiglio degli Anziani?
 Giacomo non voleva sentire tutte quelle chiacchiere, sostenendo che erano tutte grandi assurdità e così Caterina lasciava perdere, cercando comunque di mantenere il segreto, nella speranza che prima o poi lui avrebbe capito.
 Indossava abiti larghi, dato che, essendo già la sua settima gravidanza, il ventre aveva principiato molto presto a farsi più pronunciato.
 Aveva dovuto confessare tutto almeno alla sua dama di compagnia, che in quel tempo l'aiutava a vestirsi, ma per il resto non ne aveva fatto parola con anima viva, men che meno con sua sorella Bianca.
 Diversamente da come aveva fatto quando aveva aspettato gli altri figli, quella volta Caterina cominciò a fare una vita più tranquilla, al fine di incorrere in una gestazione senza intoppi né problemi.
 Sia per evitare di mettere in mostra il suo stato stando male davanti a occhi indiscreti, sia perché sinceramente desiderava che quel figlio nascesse sano e forte.
 Aveva cominciato a ridurre le sue uscite a cavallo e le battute di caccia. Evitava i grandi sforzi e non si era più presentata agli allenamenti di Ottaviano e Cesare per paura di essere tentata di prendere in mano la spada e trovarsi coinvolta in qualche esercizio pericoloso per il piccolo.
 Ormai passava gran parte delle sue giornate nella sua alcova a studiare le sue pozioni, o nello studiolo di Tommaso a controllare scartoffie o, ancora più spesso, assieme a Giacomo, a trascorrere il tempo in pace e tranquillità, cullata dalle prime arie di primavera che a fatica stavano riscaldando l'aria dell'inverno.
 
 Il domenicano alzò lentamente gli occhi contro il sole pallido di giugno e finalmente rivide la città di Firenze.
 La Porta di San Gallo lo attendeva bagnata dalla luce del mattino, come una promessa di un nuovo corso, un nuovo corso di cui lui sarebbe stato l'artefice.
 Lo sconosciuto che lo aveva accompagnato fino a lì quasi da Bologna fece un sorrisetto un po' sdentato e indicando la Porta gli disse: “Te sei arrivato, allora... Un po' mi mancheranno le tue strane chiacchiere alla sera...!”
 Il frate puntò lo sguardo severo verso il viandante, che, ormai abituato alla mimica del domenicano, non si lasciò intimidire, anzi, ribadì: “Non stancar troppo anche sti poveri florentini, vè!”
 Con un respiro molto fondo, il frate si sistemò il cappuccio in modo tale che gli riparasse la fronte dalla luce del sole e, con un gesto cerimonioso della mano, si congedò dal suo compagno di viaggio, rendendosi conto solo in quel momento di non saperne nemmeno il nome.
 Il viandante guardò il frate incamminarsi con sicurezza verso la Porta di San Gallo, con il suo passo svelto e spedito, di certo più giovanile rispetto ai suoi modi da vecchio saggio, e, con un ultimo sprizzo di cameratismo, gli gridò: “Fa' che tu facci quello per che tu sei mandato da Dio in Firenze!”
 Il frate si comportò come se non avesse sentito e camminò senza sosta fino alla Porta. A pochi metri da quel cumulo di pietre, misero emblema di quella che chiamavano vita civile, il domenicano guardò in alto, verso il cielo, in cerca del perdono di Dio e del suo sostegno, come sempre.
 'Dai a questo tuo figlio – pregò nella sua mente – la forza di convertire questa città di pagani!'
 E con quell'ultima silenziosa implorazione, Girolamo Savonarola mise di nuovo piede in Firenze.

 Lucrezia Landriani, approfittando del bel tempo di quei giorni di inizio estate, aveva deciso di far visita alle figlie in Forlì.
 Si era aspettata, in realtà, che almeno Caterina si presentasse alla rocca di Imola con maggior frequenza, ma sembrava quasi che a Ravaldino ci fosse una qualche forza misteriosa che tenesse la Contessa come prigioniera, incapace di lasciare la sua dimora se non per poche ore.
 Da un lato Lucrezia era riconoscente alla figlia più grande, che non impicciandosi degli affari della rocca di Imola dimostrava di fidarsi più che ciecamente di Gian Piero, ma dall'altro avrebbe preferito vederla più spesso.
 Quando era arrivata alla rocca di Ravaldino, Lucrezia aveva saputo che Caterina era uscita per alcuni affari, ma che sarebbe tornata presto. Così, nell'attesa, cercò Bianca.
 La trovò in una delle sale adibite alle lezioni dei bambini. Stava aiutando Cesare e Ottaviano nei loro studi, mentre gli altri bambini erano con le balie in un'altra camera, intenti in altre cose.
 Bianca accolse la madre con entusiasmo, scusandosi per non essere andata a trovarla prima: “Non me la sento di lasciare solo Tommaso...” aveva detto, per scusarsi.
 Così, mentre Ottaviano e Cesare continuavano nei loro studi, Bianca e Lucrezia si erano messe a parlare del più e del meno, fino a che la conversazione non era caduta su Caterina.
 Bianca, che da qualche tempo nutriva qualche perplessità sulla salute della sorella, cercò le rassicurazioni della madre che, sul momento, la rincuorò, sostenendo che di certo non si trattava di nulla di serio, ma in un secondo tempo si fece perplessa e dubbiosa.
 Cesare non ascoltava le parole delle due donne, troppo preso dalla lettura teologica che aveva davanti, mentre Ottaviano non faceva altro che carpire ogni frase, ogni mezza affermazione e tutte quante le insinuazioni che la zia e la nonna stavano elencando su sua madre.
 Anche lui aveva notato qualcosa di diverso. Con discrezione si era messo a spiare sempre più da vicino sua madre e, oltre a vederla sempre più vicina a messer Giacomo, l'aveva anche colta in atteggiamenti strani. Si faceva pensierosa, si metteva a guardare a lungo dalla finestra, sospirava spesso e il suo viso aveva sempre un fondo di luminosità che non le apparteneva.
 “Cercherò di capire cosa c'è che non va.” disse alla fine Lucrezia, sorridendo a Bianca e cambiando argomento: “Con Tommaso come va? Siete felici?”
 Bianca spostò lo sguardo repentinamente, come se volesse nascondere qualcosa, ma sorrise nel dire: “Sì, malgrado tutto, io sono felice.”
 
 “Non mi toccare.” disse Cecilia Gallerani, liberandosi dalla presa di Ludovico con uno strattone.
 “Perché?!” chiese lui, esasperato.
 Da quando aveva comunicato a Cecilia la sua decisione di farla sposare con Carminati, la ragazza lo sfuggiva, mantenendo con lui un atteggiamento rilassato e positivo solo quando c'erano in giro testimoni.
 “Tra poco il quadro del maestro Leonardo sarà finito, e allora me ne andrò, non preoccuparti.” fece la giovane, stringendo le braccia al petto: “Non vedo a che serva la mia presenza a palazzo, in fondo. Devo sposare un altro, tu diventerai il marito di una grande signora e se lei non ti dovesse piacere, so bene che non ci metterai molto a trovare qualcuno con cui consolarti.”
 “Perché mi parli così?” controbatté il Moro, con tono lamentoso, cercando di prenderle una mano.
 Cecilia fece un passo indietro: “Tu e la tua brama di potere... Se non volessi sostituirti a tuo nipote, noi potremmo sposarci e nessuno oserebbe dirti nulla.”
 Ludovico la guardò per un lunghissimo istante. Doveva darle ragione. Se lui avesse rinunciato al suo piano di diventare Duca, di farsi preferire dalla corte di Milano rispetto al nipote, avrebbe potuto sposare chiunque. A chi sarebbe importato della moglie di uno zio del Duca di Milano?
 “Non odiarmi, Cecilia, ti prego, non potrei sopportarlo.” fu solo in grado di dire l'uomo, chinando il capo come un penitente.
 “Non voglio rinunciare a te.” disse la giovane, tirando su col naso.
 “Non dovrai farlo.” buttò lì Ludovico, riuscendo finalmente a stringerla tra le sue braccia.
 “Così a te basterebbe avermi come amante segreta? Mi vuoi dare come moglie e un uomo a te fedele per poi cercarmi quanto più ti aggrada?” domandò Cecilia, dolente.
 Ludovico non rispose e lentamente la convinse a baciarlo. Cecilia avrebbe voluto scacciarlo, scappare per sempre da quel palazzo, ma non poteva farlo. Se quello era il suo destino, si disse, tanto valeva imparare a non soffrirne.
 “Il maestro Leonardo ti sta aspettando?” chiese Ludovico, come risvegliandosi all'improvviso.
 “E che aspetti.” concluse Cecilia e lasciò che il Moro la portasse ancora una volta nelle sue stanze, senza riuscire a provare altro che amore per quell'uomo, che, per quanto animato dai migliori propositi, era capace di proporle solo una vita a metà.

 Caterina restò molto sorpresa nel trovare sua madre Lucrezia alla rocca, quando tornò dal suo giro in città.
 Era stata da Bernardi, per sondare le nuove notizie che giravano per città. Era stata lieta nel sapere che il barbiere era riuscito quasi del tutto a mettere a tacere i pettegolezzi che giravano su di lei e ancor più felice nel notare come nessuno dei chiacchieroni avesse capito chi fosse il suo amante.
 Alcune voci, infatti, parlavano di un soldato, altre di uno straniero, ma la maggior parte erano ancora incentrate su Tommaso Feo, il suo castellano.
 “Mi raccomando – aveva detto Caterina al Novacula – soprattutto quest'ultima voce su mio cognato, non la voglio proprio più sentire. Tommaso Feo è il marito di mia sorella.”
 “Certo, mia signora.” aveva annuito Bernardi: “Ma sapete, Cobelli ha il dente avvelenato con il Capitano Feo...”
 Caterina pensò allora che avrebbe dovuto pensarci prima, quando Cobelli era nelle sue segrete. Aveva accettato di liberarlo solo perché glielo aveva chiesto proprio Tommaso. E ora Cobelli gli si rivoltava contro...
 Se non fosse stato che quelle malelingue andavano a ledere anche l'onore di Bianca Landriani, a Caterina non sarebbe dispiaciuto mettere un po' in ridicolo Tommaso, che, secondo i pettegoli di Forlì, dalla Contessa si lasciava fare 'tutto e il contrario di tutto, signori miei'.
 Lucrezia aveva preso in disparte Caterina, appena prima dell'ora di cena e l'aveva scrutata con attenzione.
 Per prima cosa le erano parsi strani gli abiti indossati dalla figlia. Ella, che normalmente preferiva vestiti comodi e poco ingombranti, quel giorno portava una tunica molto larga, tanto voluminosa che quasi le impediva i movimenti. Poteva anche essere un caso, ma a Lucrezia suonava comunque molto strano.
 Le chiese qualche notizia sui figli e la lodò per i progressi che aveva notato in Cesare e in Ottaviano: “Sono davvero due bambini intelligenti – aveva detto Lucrezia – e si vogliono molto bene. E poi sono così teneri... Cesare pende dalle labbra di suo fratello e Ottaviano sembra intenzionato a fare da guida al più piccolo...”
 Caterina aveva stretto gli occhi: “Già, Cesare è anche troppo attaccato a suo fratello.”
 Lucrezia aveva capito di aver toccato un brutto tasto e così, prima di indisporre troppo la figlia, era passata a ciò che più le interessava: “Caterina...” aveva cominciato a dire, un po' incerta: “Tua sorella Bianca mi ha messa a parte di alcune sue preoccupazioni, circa il tuo stato di salute...”
 “Che genere di preoccupazioni?” domandò Caterina, mettendosi subito sulla difensiva.
 “Dice che esci a caccia sempre più di rado, che spesso ti rifiuti di cavalcare e che non ti ha più vista esercitarti coi tuoi figli nel cortile...” spiegò Lucrezia, mentre i suoi occhi chiari cercavano quelli verdi della figlia.
 La Contessa pensò in fretta, ma non le uscì nulla di meglio, se non: “Forse sto solo invecchiando.”
 Lucrezia scosse il capo: “Ma quale 'invecchiando'... Hai solo ventisette anni, non sei per nulla vecchia.”
 Al che Caterina alzò le spalle, ma quel gesto non bastò a Lucrezia, che andò avanti: “L'ultima volta che le tue abitudini sono cambiate così improvvisamente, c'era n motivo molto serio.”
 Madre e figlia si fissarono negli occhi per una frazione di secondo, ma tanto bastò per far capire a entrambe che il nocciolo della questione era stato raggiunto.
 “Questa volta è per un motivo bello, però.” sussurrò Caterina: “E con questo non chiedermi altro, non voglio che si sappia.”
 Lucrezia sentì il sangue defluirle dalla vene, nel vedere come, mentre diceva quelle poche parole, Caterina aveva fatto scivolare con apparente non curanza la mano sul suo ventre, nascosto in modo abile dall'ampio vestito.
 “Ho capito.” disse piano Lucrezia, deglutendo, indecisa su come reagire.
 Caterina non ebbe bisogno di fare domande, per rendersi conto che sua madre aveva compreso ben più di quello che le era stato confessato.
 “Lui chi è?” indagò Lucrezia, senza riuscire a frenarsi: “Non dirmi che è Tommaso, perché...”
 Caterina scosse subito il capo, in parte offesa da quell'insinuazione: “No, non è lui.”
 Lucrezia aspettò un po', ma quando capì che la figlia non le avrebbe detto il nome dell'uomo che l'aveva messa in quel guaio, lasciò stare: “Avremo modo di riparlarne.”
 “Non dire nulla a mia sorella.” la redarguì Caterina, con una fermezza che raggelò Lucrezia.
 “Come preferisci.” disse la madre, poi le accarezzò un braccio: “Stai attenta, bambina mia...”

   
 
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