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Autore: francy91    14/04/2009    0 recensioni
Fanfiction confusa, molto strana, direi. Non anticipo i personaggi, perchè so già che quando la leggerete mi odierete a morte. Nata mentre scrivevo "Don't phunk with my heart". Come nasce il fuoco.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sakura, Touya/Toy
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Senza nome 1

Vivi ogni attimo e questo non sarà mai l'ultimo.

Akira Kurosawa

 

Rimani, come le onde fragorose e odorose. Rimani ancora, come questi forti alberi immortali, frutti di un seme ricco e vero. Rimani immobile sul mio viso, come questo roteante soffio di vento che uggioso sparge e semina fuoco sulla mia pelle.

-Sai, a volte quando sono con te mi sento un pedofilo.-, sussurri laconicamente erotico.

Morbosamente mi fissi con lo sguardo scuro e luminoso del nostro mistero, astro invisibile e buio, troppo lontano lui per poter essere ammirato e troppo disattenti noi per notarlo. Inquietante questo cielo spinato che ci circonda pretenzioso, confusionarie le tue dita sul mio viso…

Il sole illumina le tue oscure piume da corvo producendo riflessi grigio scuro e color fumo, mentre la mia inettitudine di fronte al sole ed al tuo volto fertile e terreno non fa che acuirsi sempre di più.

La mia croce, la tua croce, brucia riflettendo i criptici raggi di un sole plumbeo, madreperlato, ombroso, malinconico; pare uno specchio in cui le nuvole che ci celano all’astro primato si gonfiano fino ad inghiottire il tuo bruno petto.

Eppure questo paesaggio è triste, cadente, piangente, come quei salici che spiccano, eleganti e viziati come una frivola e leziosa ragazzina vagamente donna, essenzialmente bambina; lo stesso salice i cui rami ospitarono le vergini e candide vesti di Aretusa prima che s’immergesse letteralmente nelle vitree acque del suo amato e sconosciuto Alfeo. I cipressi, avvolti nel loro confortante apollineo mantello verde, piangono le loro principesche lacrime di una sfumatura più cupa dell’erboso colore dei miei occhi. Una luna mattutina e sfumata affiora da una goccia celeste di questo cielo ruvido e voluminoso.

E’ tutto così oziosamente oscuro… L’ombra dei tuoi spessi e pesanti capelli sul mio viso fragile e delirante è più rassicurante di qualsiasi foglia immortale, di qualsiasi ramo fruttifero e selvaggio, di qualsiasi albero sostenitore dei mali della Terra, questa Terra che nessuno conosce e dei cui orrendi difetti solo noi godiamo: puri in acque torbide, intoccabili, insaziati dal fango che golosamente ingoiamo, dai vermi che ci calpestano senza rispetto né pietà. Sì, persino gli insetti ci disprezzano, troppo occupati nel costruirsi una casta, una tribù di cui rispettare regole varate dai più saggi e avviliti, dai più stanchi della vita tanto da renderla salata e amare anche per coloro che non sono altro che terra, che mangiano la polvere, che vivono in miseria, che seminano scandalo, che sputano su erba profumata e accessibile per ungere la loro turpe pelle con olezzi oleosi e marci baci.

Schiacciateci, oltraggiateci, umiliateci: preferiamo nutrirci di arboree lacrime miste a sterco ammuffito piuttosto che usufruire di una falsa rugiada  proveniente da petali taglienti e fiori cannibali.

Un melanconico cuscino di nuvole acceca il sole, il suo splendente nitore.

-It’s going to rain, kids! Be careful.-.

La tua mandibola scatta, il viso virile si gira, veloce, verso la ventosa voce di Wendy, la dolce e giovanile madre della famiglia presso cui alloggiamo. Il tuo collo si tende, si stende, attende… Oh…

-Don’t worry, Mrs. Brothster, we love rain. We can stay here, in Japan we used to go walking when it rained. It’s a… tradition. Thanks, anyway.-.

-Cos’ha detto? Cos’hai detto? Eh?-.

La curiosità non è minore della meraviglia, pur essendone figlia e sposa. Attendendo la tua risposta, ti osservo; un punto nero, un frammento di onice, unghia di Venere… No, due gemme notturne, due germi vespertini che mi cingono, mi attraggono, mi circondano, mi pugnalano, redimono  la mia voluttà. Non mi tentare, amore mio, non mi stringere il cuore, non lo arpionare con le tue scaltre dita.

Fallo, fallo, fallo…

Le tue pupille sono ritornate, infestano un’altra volta il fertile prato dei miei occhi, fiamme di cloro bruciano il tuo cupo e tenebroso inchiostro, lo incendiano, fuori controllo, sfrenati, incandescenti. Grinze sul mio cuore, stonate e raschianti, artificiali, opache e doloranti: mi strozzi il cuore, lo privi di aria pura, risucchi compiaciuto la mia anima, mi annulli, mi azzeri in zolle di cenere zampillante, come un piromane disperato. Ancora il mio cuore, ancora!

Fallo fallo fallo fallo fallo fallo.

-Niente, la puttanella, il Golem e Paperino ci lasciano soli, finalmente.-, bisbigli accarezzandoti il labbro inferiore e gettando gli occhi sotto il mio mento.

-Non parlare così della signora Brosher, del signor Bruffer e di Jerry! Sono molto gentili con noi e…-.

-Be’, almeno ne hai azzeccato uno su tre. Si chiamano Brothster.-, puntualizzi al mio sguardo perplesso, mentre strizzo l’occhio sinistro per un ciuffo di capelli entratovi. Cautamente, il dito prima poggiato sul labbro mi carezza la palpebra, rotatorio e sensuale.

-Troppe consonanti.-, borbotto imbronciata.

La tua mano, fredda e sudata, mi storce un orecchio per scherzo, facendo defluire quel momento di delirio (mio) e di compiacenza (tua) in un’allegra e frivola leggerenza cangiante.

Sento i coniugi che ci ospitano e il loro bambino, Jerry, raccogliere in movimenti stanchi e incoerenti con la voce festosa di Wendy le tovaglie a scacchi stese sull’erba fradicia, le sfrigolanti buste bianche per la spazzatura diligentemente piene, la guida per le campagne, i centri d’ippica e gli agriturismi nei dintorni di Stecin, dove alloggiamo nei fine settimana, il cestino di vimini per il pranzo e il barbecue portatile sporco di Ketchup; percepisco accanto a noi i passi lievi e rasenti di qualcuno e, voltandomi, scorgo il piccolo Brothster, la sua chioma castana, tanto lignea da ricordarmi quella di Shaoran con sorprendente angoscia, quasi del tutto ottenebrata dal cappuccio arancione della giacca a vento datagli con calore e preoccupazione dalla mamma, il viso sempre contratto, come se combattesse perennemente con un sole invisibile posto da un dio maligno davanti ai suoi occhi grandi e scuri da bimbo, o come se fosse eternamente impegnato in un pianto perpetuo.

Ci voltiamo verso quell’ombra grigia nel cielo cinereo e sull’erba plumbea, improvvisamente accesa d’arancio, e aspettiamo che apra quella piega, una delle tante nella sua espressione uggiosa.

-Now you’re alone. Screw in peace.- (trad.: ora siete soli. Scopate in pace).

Touya sporge le labbra e aggrotta le sopracciglia, pensieroso e… divertito, in maniera oltremodo sconsiderata, a giudicare dal sorriso furiosamente angelico che gli balena sul viso, accartocciando la sua perfetta espressione rilassata. Dal canto mio, non capisco cos’abbia detto quel ragazzino dalla pelle argentea e lentigginosa per far reagire in tal modo mio fr… Touya. Touya, Touya, Touya.

-Mind you own fucking business.- (trad.: fatti i cazzi tuoi).

-Cosa gli hai detto? Che sta succedendo?-, bisbiglio al tuo orecchio parzialmente nascosto dalle piume corvine della tua notturna capigliatura. Palpito, non capisco cosa stia accadendo, le mie pupille rimbalzano nell’angusto spazio delineato dalle palpebre, vorrebbero schizzare fuori come macigni che scivolano da una rupe, sono biglie metalliche e brillanti attratte dalla tua mente, desiderano ardentemente varcare le porte adornate della tua testa, comprendere ogni tuo cambiamento di espressione, ogni grinza tura del tuo viso, ogni distensione muscolare, ogni flessione articolare, ogni gioco di palpebra, pregustare ogni tuo impulso, essere trasportata di sinapsi in sinapsi dai tuoi stimoli, baciare la tua pelle come piastrine delicate, penetrare ogni tua membrana, conoscere e assaporare ogni residuo di citoplasma, piegarsi e accomodarsi in ogni tuo organulo, insinuarsi fra i legami misteriosi dei tuoi atomi, per poi rifluire nel fluviale flusso ematico, accarezzare con leggiadria le pareti dei tuoi vasi sanguigni, solleticandole e abbandonandomi alle tue viscere.

Ma tu non rispondi, ignori la mia domanda, ancora concentrato a fissare quell’undicenne (sì, quando ci siamo presentati ha detto I’m thirteen, cioè che ha undici anni, no? Anche Touya ha annuito e poi ha ridacchiato quando gli ho fatto notare ciò che avevo capito…); sembra vagamente la scena di un film western, manca solamente la polvere secca in nuvole opprimenti, sostituita dalla pioggia fina e fitta che picchietta sui miei capelli sciolti.

-You’re just two rotten bogs...- (trad.: siete solo due cessi schifosi), bisbiglia Jerry voltandosi.

-Jerry, come here! You’ll catch a cold!-, (trad.: Jerry, vieni qui! Prenderai il raffreddore!), urla Wendy dal finestrino del passeggero.

Che sorriso tagliente, amore mio. Come un dio greco, come un’entità vendicatrice e superba, il tuo sorriso si flette come una lama affilata, come il coltello folle di un sanguinario assassino.

Agitiamo contemporaneamente la mano per salutare la nostra famiglia inglese, che aspetterà in auto finché non finirà di piovere – questione di minuti, come dice sempre Wendy – mentre io e Touya rimaniamo seduti sull’erba acquosa, su questo letto di alghe palpitanti e accoglienti.

-Troia.-, sussurri trionfante.

-Smettila di prenderla in giro! È una donna fantastica, non puoi trattarla in questo modo.-, commento bruscamente, tirandoti con forza un piccolo ciuffo di capelli dietro la nuca rugosa e soffice e facendoti ritirare il capo all’indietro. In questa posizione mi osservi con gli occhi socchiusi, sensuali e lascivi, scioccanti. Come minuscole mezzelune orizzontali, nuove e fondenti, le tue pupille mi fissano, mi circondano, avvolgono il mio corpo, accentrano i miei margini e rimodellano la mia figura, ammorbidendo le creste vesp…

Le tue labbra bagnate, fradicie di pioggia, pure e straripanti di umore, innaffiano le mie, le fertilizzano, le fecondano, creano miracoli scoppiettanti, turbinii di cellule, vita. Ritmo, note, musica, pennello, penna, violino, corda, archetto, tavolozza, tela, calamaio, tastiera, disco, costellazione cromatica, pulsione fonetica, orgasmo grafico, furia tattile, ovattata fiamma d’ispirazione. Sei come arte per me, mi ravvivi con il legno bagnato del tuo corpo, mi inaridisci come Scirocco, mi sazi con le labbra, mi impregni di denso liquido vitale con le tue guance, mi avviluppi mortalmente, mi privi d’aria e me la rendi con immensa misericordia, gonfi la mia disperazione per poi sminuirla, adorni l’incuria del mio spirito e lo nutri di imprescindibili carezze incessanti. Sei il mio periferico organo vitale, il guscio immortale della mia anima, il sospiro che arricchisce ogni respiro di significati dolceamari, acri e spiritosi.

-Ma sai almeno qualcosa, una cosa, d’inglese?-, ridi esasperato e pazzo. Pazzo, folle, scellerato, con quello sguardo tutt’altro che limpido, ma torbido, schiumoso e indecente. Il ciuffo che prima ti stringevo ora è libero, le mie mani scivolano sulle tue spalle; nonostante la liberazione, non sposti il viso, mi scruti ancora da quella mezzaluna magistralmente intagliata in porcellana olivastra, assolata, selvaggia.

-Certo!-. Mi sollevo, costringendo anche te ad alzarti, e inizio a piroettare attorno al tuo tronco, accarezzo i tuoi rami umidi e ti sfioro le fronde cospicue e copiose, intonando:

-I’m singin’ in the rain, just singin’ in the rain! What a glorious feelin’… I’m happy again!-.

Che delicatezza, che… bellezza, semplice, grezza e vera. Pura bellezza, bellezza pura! Oh, acqua volubile e serafica, salvatrice delle mie membra disseccate, depuratrice! Uccidi, schiaccia, polverizza i vermi ipocriti che ci calpestano, scioglici da questo dolore, dissolvi in acido i loro corpi e, con essi, fertilizza la nostra passione! Liberaci dal male! Viola, grigio, bianco… Mischia il mischiato e il mischiabile, lasciaci soli nel nostro putridume, nel marciume che ci ricopre, nella muffa benefica che ci permea!

Trionfa, lordura!

Trionfa, sporcizia!

Trionfa, amore!

 

O dolore! O dolore! Il Tempo si mangia la vita,

e l’oscuro Nemico che ci rode il cuore

cresce e si fortifica col sangue che noi perdiamo!

(Charles Baudelaire, Fiori del male, X)

 

Nel cielo scoppia un turbine di stelle che si riflette sul tuo tenero viso e, come prima ha iniziato a piovere, così finisce.

Come prima tutto è iniziato, così finisce.

 

Non è tutto tenero ciò che si semina,

come petali di rosa, dopo poco termina;

quel che il cielo riflette son solo dolcezze,

mentre noi, bagnati, siamo in preda alle brezze.

Ci dilaniano, turpi, gli insetti epuranti,

ci perdiamo, noi, naufragando distanti.

   
 
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