#Once I was seven years
old - seconda parte
L'Ebbets Field
è pieno dentro e pieno fuori e Steve è un sacco per le gomitate. Tra
punte bucate dei guanti di lana, le dita congelano, ma le tiene ben
aperte al volto, a parare i colpi di chi non lo vede.
La calca che lo schiaccia è un'onda che lo sbatte avanti e indietro,
puzza di sudore, sigaro e caldarroste bruciate e bercia della rabbia
o della gioia dei tifosi.
Vede solo schiene e toppe cucite sui gomiti; i bagarini vendono
ancora biglietti falsi, ma di spicci non ne ha manco per quelli.
E allora trattiene il dolore, butta fuori il coraggio e avanza, tra
i denti educati «Permesso».
«Così ti farai ammazzare!»
La voce esplode tra le grida e subito dopo una mano lo cattura.
Steve riemerge dalla folla rantolando nell'inverno di Brooklyn, il
braccio è teso, il polso stretto da dita unte di pop-corn. Un
bambino lo guarda e, in quegli occhi, si stupisce di essere visto.
È la prima volta, eppure è come se lo guardasse da una vita.
«Vieni con me, conosco un modo per entrare.»
Non c'è tempo per dubitare (Hai sbagliato persona?), il
bambino lo trascina alle transenne, si china e offre le spalle come
appoggio «Muoviti, prima che ci becchino!»
È vivo, è vero, constata Steve. Non può essere lì per lui.
«Non ti farò cadere, promesso.»
Il freddo della prima neve si scioglie nelle parole del bambino
(la voce tiepida odora di burro, gl'occhi caldi di mare, quello che
lui non ha mai visto) e il suo sorriso arrossa le guance di
Steve.
«Manco mi conosci.» s'imbroncia. Non ha mai chiesto l'aiuto di
nessuno e nessuno gliel'ha mai offerto.
«E quindi?»
Finora.
La mano del bimbo è più grande della sua, lo travolge in una pacca e
Steve quasi cade. L'altro ride, il suono allegro, gorgogliante.
Ride, ma non di lui. Quando smette, Steve ne sente ancora il
trillo alle orecchie – un ricordo, il primo di loro.
«Io sono James.» |