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Autore: Adeia Di Elferas    06/06/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Lucrezia credeva di aver capito male, quando il marito Gian Piero le aveva detto che la loro figlia Bianca stava per entrare nella rocca, scortata da ben quaranta cavalieri e da tutti i suoi bagagli.
 Solo quando se l'era trovato davanti, visibilmente provata da una lunga giornata, si era convinta che fosse tutto vero.
 Suo genero si comportò con un po' di distacco, ma sempre con gentilezza, quando chiese a Gian Piero di poter passare lì la notte, prima del lungo viaggio che li attendeva.
 “Andremo a Bologna – aveva spiegato – e poi partiremo per Savona. Ho ancora dei parenti in quella zona e so che ci ospiteranno volentieri.”
 Gian Piero aveva accolto la notizia con un certo sgomento e aveva provato a chiedere maggiori spiegazioni, ma Tommaso aveva sviato ogni domanda, dicendo che, semplicemente, lui e Bianca avevano deciso di lasciare Forlì.
 “Affrontare un viaggio simile, con l'inverno alle porte...” aveva provato a opporsi Lucrezia, molto debolmente: “E poi perché non ve ne andate al Bosco? Sarebbe una buona soluzione, no?”
 “Andare al Bosco è fuori discussione. E poi in fondo sono contenta di andare a Savona.” aveva detto Bianca, alla madre, che non si era bevuta le scuse sommarie e superficiali di Tommaso: “Mi fa piacere che mio marito abbia deciso di andare tanto lontano. Almeno adesso dovrà guardare me, non mia sorella.”
 “Ma cos'è successo di preciso?” aveva allora domandato Lucrezia, trovando troppo rancore nelle parole della figlia.
 “Quella rocca era troppo piccola per tutt'e due.” aveva risposto Bianca: “Dunque spettava a me andarmene, perché è lei, la sorella importante.”
 Lucrezia avrebbe voluto controbattere in qualche modo, ma Bianca l'aveva anticipata: “Lei è sempre stata la tua preferita, l'ho sempre saputo. So che darai ragione a Caterina anche questa volta.”
 Nessuna delle due ebbe il coraggio di approfondire l'argomento e si limitarono a parlare d'altro per quasi tutta la notte, lasciando che la luna passasse il testimone al sole dell'alba.
 “Promettimi che tornerai.” fece Lucrezia, quando venne il momento di separarsi dalla figlia.
 Bianca l'abbracciò e le sussurrò, prima di salutare anche il padre: “Quando sarà il momento lo farò, lo prometto.”

 Il Cardinale Raffaele Sansoni Riario sporse il mento in fuori, appoggiandosi la lettera del Conte Ottaviano sulle gambe.
 Era stato convinto, fino a quel momento, che il ragazzino avesse visto oltre quello che c'era davvero da vedere, che avesse interpretato malamente sguardi e parole, ma adesso che gli veniva riferito di come il castellano Tommaso Feo era stato bene o male scacciato dalla Contessa per mettere al suo posto lo stalliere...
 “Mio signore, desiderate altro?” chiese il servo, dopo aver messo sul tavolino del Cardinale una caraffa di vino e qualche pezzo di pane nero, come gli era stato richiesto.
 Raffaele rifiutò con un gesto della mano, senza aprir bocca. Era troppo agitato anche per mangiare quel misero spuntino, che altro poteva volere?
 Il servo, allora, si inchinò e sparì dalla sua vista, lasciandolo solo nella sua grande stanza a pensare.
 Il Cardinale diede un'occhiata alla caraffa di vino e sentì di non avere nemmeno più sete. Si alzò dal suo scranno e si mise a rimirare gli affreschi del suo appartamento, apparentemente assorto nella contemplazione di quelle figure che mescolavano il sacro al profano, in realtà intento a decidere come muoversi con i suoi cugini di Forlì.
 A Roma, Ascanio Sforza stava intessendo sempre più saldamente un'amicizia interessata con Rodrigo Borja e Raffaele aveva il sentore che entrambi lo volessero tenere a distanza. Lo Sforza era certo di poter avere con la Contessa Riario un dialogo preferenziale. In fondo, non smetteva mai di ricordare a tutti, era stato lui a convincerla, anni prima, a lasciare Castel Sant'Angelo.
 Raffaele non credeva che Caterina avrebbe ascoltato Ascanio molto volentieri per una seconda volta e sapeva che prima o poi quell'uomo, per conto di Borja, avrebbe cercato un contatto politico con la nipote.
 Al papa, tanto quanto agli altri signori della penisola, Forlì interessava perché stava proprio nel mezzo del passaggio più rapido e comodo d'Italia: la via Emilia.
 Ottaviano, nella sua lettera, faceva capire senza mezzi termini che sia lui sia Cesare erano ben intenzionati a levar di torno lo stalliere, anche a costo – e il solo pensiero aveva fatto inorridire Raffaele, che pure non nutriva per la Contessa una grande simpatia – di dover togliere di mezzo anche Caterina.
 'Se nostra madre non comprenderà il suo fatale errore – aveva scritto il giovane Conte, dimostrando tutta la proprietà di linguaggio per cui i suoi precettori lo ammiravano – spetterà a noi prendere il suo posto, seppur per farlo sarà necessario prendere sgradevoli misure nei suoi confronti. Il Conte di Forlì e Imola sono io e come tale pretendo rispetto.'
 Il Cardinale Sansoni Riario prese la decisione mentre rimirava le finiture in oro dello stipite della porta.
 Si diresse allo scrittoio e si lambiccò per trovare le parole giuste con cui far capire a Ottaviano due cose fondamentali: innanzitutto non doveva fidarsi a scrivere cose tanto compromettenti senza usare codici cifrati o canali sicuri e secondariamente, ci voleva tempo, per organizzare certe cose, dunque era d'uopo un po' di pazienza.

 “Quanta è bella giovinezza, che si fugge tuttavia...” lesse Poliziano, con un che di scettico nella voce: “Chi vuol esser lieto, sia.” alzò gli occhi su Lorenzo, mentre declamava l'ultima parte: “Del doman non c'è certezza.”
  Il Magnifico si stava massaggiando un ginocchio, dolorante da un paio di giorni e attendeva con una certa ansia di sapere cosa ne pensasse il suo amico di quella composizione.
 L'aria fresca dell'autunno appena accennato smuoveva le fronde della alte piante sotto cui il signore di Firenze stava riposando accanto ad Angelo Poliziano. Avevano bevuto qualche sorso di vino e stavano aspettando che calasse la sera, immersi nel verde delle prime campagna fiorentine, lontani dalla confusione della città.
 “Ci vedo molto pessimismo in questa poesia.” decretò alla fine il letterato, porgendo il foglio a Lorenzo: “Sembra una cosa allegra, ma dimostra solo quanto sia grande il baratro che attende tutti noi alla fine dei nostri giorni.”
 Il Magnifico prese la pagina e rilesse in fretta quello che aveva scritto. Forse Poliziano aveva ragione, ma non voleva dargli la soddisfazione di sentirglielo ammettere.
 Così disse solo: “Da quando Pico della Mirandola ha cominciato a influenzare tutti con i suoi discorsi filosofici, non si trova più un solo poeta in gradi di stare allegro, in questa città.”
 Poliziano, che in effetti dall'inizio dell'anno aveva cominciato ad allontanarsi sempre di più dalla poesia, non componendo più nemmeno un verso, in favore di approfonditi studi sulla filosofia antica, alzò le spalle e commentò, amaro: “Anche se uno volesse stare allegro, con quel domenicano che avete riportato in città c'è poco da gioire.”
 Lorenzo, che sapeva che in quel 'avete riportato' Poliziano faceva rientrare tanto lui quanto Pico, si angustiò parecchio e volle chiudere il discorso: “Savonarola e i suoi Piagnoni... Sta distraendo tutti come speravo, ma li sta portando a opporsi a me e questo non doveva farlo.”
 “Ho sentito che anche Lorenzo e Giovanni, i tuoi cugini, hanno cominciato ad appoggiarlo.” buttò lì Poliziano, stiracchiandosi e annusando l'aria che profumava già di sera: “A Cafaggiolo hanno un certo seguito, sai? E dicono che a volte chiamino tuo figlio Piero 'il Fatuo'...”
 Lorenzo non voleva più sentirne, di chiacchiere simili. I dolori alle articolazioni lo tormentavano e non aveva nessuna intenzione di permettere a quei due parassiti dei suoi cugini di rovinargli quel momento di riposo.
 “Mio figlio saprà difendersi benissimo.” fece il Magnifico, con uno sbuffo: “Piuttosto... Hai sentito della Tigre di Forlì?”
 Poliziano si accigliò: “No, che ha combinato questa volta, a parte aver rifiutato il compromesso di matrimonio tra sua figlia e Astorre Manfredi?”
 Lorenzo diede in una risata un po' incerta, perchè a ogni sussulto il dolore al ginocchio pareva accentuarsi: “Ha cacciato quel castellano che dicevano essere il suo amante, quello che aveva sposato sua sorella – disse – e a guidare la rocca di Ravaldino ci ha messo il fratello del suddetto castellano.”
 Poliziano non rimase molto colpito dalla notizia, pensando che si trattasse solo di una delle tante stranezze da imputare al fatto che la signora di Forlì fosse una donna.
 Però, quando Lorenzo terminò con la rivelazione: “Il nuovo castellano è più giovane di lei di otto anni e stavolta non ci sono dubbi sul fatto che siano amanti.”, Poliziano fischiò con interesse.
 Battendosi le mani sulle cosce, il letterato decretò: “Gli Sforza sono proprio tutti uguali...”
 Lorenzo annuì, pensando al suo eterno rivale e in fondo amico Ludovico: “E se non sono ragazzini, a loro non garbano...!”

 Il Moro non vedeva altre soluzioni. Era palese che il suo attuale ambasciatore a Forlì non fosse in grado di vedere al di là del proprio naso e non poteva nemmeno fidarsi del tutto di quello che gli scriveva il giovane Ottaviano.
 Anche quel giorno erano arrivate da Forlì ben due lettere, una da sua nipote Caterina e una del di lei figlio e il loro contenuto faceva a pugni. Dunque, a chi credere? A una donna che voleva a tutti i costi difendere una squallida relazione segreta o a un ragazzino che poteva benissimo aver travisato molte cose?
 Ludovico non ascoltava molto il messo ferrarese, che era stato mandato a esprimere delle perplessità mosse dagli Este circa l'integrità morale proprio di Caterina. L'uomo stava elencando una serie di dubbi sorti in Ercole che, improvvisamente, sembrava restio a permettere ben due matrimoni che avrebbero unito in modo indelebile gli Sforza e gli Este.
 In realtà tutte quelle difficoltà stavano sorgendo perché la moglie di Ercole, Eleonora d'Aragona, non voleva rinunciare a un matrimonio in pompa magna a Milano per almeno uno dei due figli, quando invece il Moro aveva opposto resistenze sempre crescenti, millantando di non avere le possibilità economiche di mettere in piedi una festa degna di quel nome nella grande città città lombarda.
 “Il fatto che vostra nipote abbia cacciato il suo castellano...” stava dicendo il messo ferrarese.
 A quelle parole Ludovico perse la pazienza: “Non l'ha cacciato.” precisò: “Si è dimesso lui.”
 L'altro lo guardò un momento, con l'espressione di chi si chiede se il proprio interlocutore stia scherzando o creda davvero a quello che sta dicendo e concesse: “Sì, certo...” e ricominciò con le sue pantomime su quanto Ercole Este fosse ora in dubbio circa la moralità degli Sforza.
 “A maggior ragione – attaccò il messo – da quando si è saputo che madama Cecilia Gallerani soggiorna ancora a corte per lunghi periodi.”
 Ludovico spalancò gli occhi e si morse la lingua, riuscendo a trovare le parole giuste per il rotto della cuffia: “Madonna Cecilia sta collaborando con il maestro Leonardo ad alcuni progetti, ecco perché soggiorna ancora a corte, di tanto in tanto. Ora, se mi volete scusare, devo consultarmi con il mio cancelliere, prima di dare una risposta ufficiale a questi messaggi del mio futuro suocero.”
 Il messo ferrarese fece una riverenza anche troppo cerimoniosa e si ritirò.
 “Calco!” chiamò Ludovico, con voce piena e tonante.
 Il cancelliere arrivò nella sala senza dare il tempo al Moro di ripetere la sua invocazione.
 Ludovico, che ormai con Calco non aveva più filtri, si alzò dal suo scranno e cominciò a smaniare, divorato da mille preoccupazioni.
 “Ah! Mia nipote continua a giocare col fuoco, anche se si è già scottata le dita!” esclamò, battendo le mani con uno schiocco che non smosse di un millimetro il cancelliere: “Invece di cacciare quel dannato Tommaso Feo, che le stava facendo un gran servizio, avrebbe dovuto guardare meglio i suoi figli!”
 Calco ascoltava con pazienza, sapendo quanto fosse inutile cercare di placare il suo signore, quando cominciava una sfuriata del genere.
 “Da oggi non risponderemo più alle lettere di Ottaviano Riario.” decretò Ludovico, con fermezza: “Nella sua ultima missiva insinua che sua madre sia incinta di quello stalliere che ora fa il castellano e posso anche crederci, altrimenti dubito che mia nipote si sarebbe liberata anche di sua sorella...”
 Il cancelliere annuì, completamente d'accordo.
 “Manderò Sfrondati come nuovo ambasciatore, dunque predisponete subito per la sua partenza alla volta di Forlì. È l'unico in grado di tenere d'occhio la situazione e riferire con oggettività quel che accade in una corte.” continuò il Moro, mentre Calco prendeva appunti: “Se dovesse saltar fuori che mia nipote davvero sta per avere un figlio illegittimo da quel buono a nulla...” Ludovico sospirò: “Ebbene, vedremo che fare. In fondo è pur sempre una Sforza, non posso voltarle le spalle, no?”
 Il cancelliere ondeggiò il capo a destra e sinistra, prima di suggerire: “Sì, è una Sforza, ma per il momento non ha quasi mai preso le vostre parti apertamente. Ha solo approfittato della vostra benevolenza...”
 Il Moro si appoggiò allo scranno e commentò, a denti stretti: “Anche questo è vero. Tuttavia, in questo caso, non posso farle una colpa, non io.” ammise: “Anche io ho giocato col fuoco e continuo a scottarmi...”
 Calco comprese che quella frase si riferiva al fatto che da poco il Moro aveva scoperto la gravidanza di Cecilia Gallerani. Se ancora non si era deciso a cacciarla definitivamente dalla corte, infatti, era proprio per il bambino che portava in grembo.
 “Però mia nipote deve capire che non può fare tutto quello che vuole.” insistette Ludovico, come a convincere anche se stesso di quella regola non scritta: “Essere padroni di uno Stato non dà la libertà. Prima se ne renderà conto, meglio sarà per tutti.”
 Il cancelliere si trovò d'accordissimo col suo padrone e, con servilismo, domandò: “Altre consegne, mio signore?”
 Ludovico cercò di scacciare le ombre dalla sua mente: “Sì... Mi hanno fatto sapere che mio nipote ha quasi finito le scorte del vino che gli piace così tanto. Fategliene avere a volontà.”
 Calco annuì, mentre il Moro concludeva, parlando tra sé: “Ora che sta per diventare anche lui padre, è bene che si goda un po' la vita...”
 
 Bianca Riario avrebbe compiuto nove anni di lì a poco più di un mese e si sentiva molto orgogliosa di quell'età. I suoi precettori la lodavano spesso, notando come fosse più avanti rispetto ai due fratelli maggiori nello studio delle lettere e della filosofia, e le cameriere che le avevano insegnato a ricamare sostenevano di non aver mai trovato una bambina così abile con ago e filo.
 Proprio dopo aver portato a termine un difficile ed elaborato ricamo su un pezzo di stoffa, uno di quelli che le serve spesso tenevano da parte per permettere alla piccola di fare pratica, Bianca aveva deciso di cercare sua madre, per mostrarle i suoi progressi.
 In realtà sapeva che sua madre non apprezzava molto quel genere di abilità, ma tutte le volte che la sottoponeva qualche suo lavoro, le piaceva vedere i suoi occhi illuminarsi di orgoglio, mentre lodava il ricamo.
 Aveva ormai attraversato mezza rocca, senza riuscire a trovare sua madre da nessuna parte. Le cameriere le avevano detto di attendere la sera, il momento della cena, magari, ma Bianca non aveva saputo resistere e così si era messa a vagare a destra e a sinistra, senza però riuscire nella sua ricerca.
 Finalmente, quando stava per perdere le speranze, aveva sentito la voce di sua madre provenire da una delle scalette che portavano al piano di sotto.
 Stava per chiamarla e correrle incontro, quando sentì anche un'altra voce, altrettanto nota, ma meno cara: quella di Giacomo Feo, il nuovo castellano.
 La bambina smise all'istante di scalpicciare sul pavimento e si avvicinò alle scale silenziosamente, trattenendo anche il fiato.
 Quando fu abbastanza vicina, si sporse appena dal parapetto, per guardare giù. Sua madre stava discutendo con il castellano Giacomo in modo molto fitto e partecipato.
 Tutti e due sembravano preoccupati per qualcosa e Bianca faceva molta fatica a capire quello che stavano dicendo. Riusciva ad afferrare giusto qualche parola ogni tanto, ma si trattava di pezzi di discorso tanto slacciati l'uno dall'altro da non permetterle di farsi un'idea circa il contenuto effettivo.
 Tendendo le orecchie e stando sempre attenta a non farsi vedere, Bianca si sporse un poco di più e qualche mezza frase finalmente le arrivò.
 “...arriveranno presto a Bologna.” stava dicendo sua madre.
 “...perdonerà, vedrai.” ribatteva Giacomo, con un sorriso spento.
 “...madre non... capirà anche lei...” fu la risposta che arrivò spezzettata alle orecchie della piccola.
 Bianca non coglieva il senso di quelle frasi, ma era molto più interessata da un altro fatto. Il castellano e sua madre erano davvero molto vicini l'uno all'altro. Tanto che si sfioravano.
 Quando, dopo uno scambio di frasi dette davvero a voce troppo bassa per essere udite da quella distanza, Giacomo allungò una mano, appoggiandola sul fianco della madre di Bianca, la bambina ebbe un mezzo sussulto. Si dovette mettere una mano sulla bocca, per evitare di farsi scoprire, quando vide l'uomo protendersi e baciare sua madre proprio lì, davanti ai suoi occhi.
 Bianca sentiva di avere il respiro affannoso e non voleva credere possibile che ora i due stessero sorridendo allegri, come se fosse una cosa normale. Poi, ricominciando a sciorinare parole appena bisbigliate, Giacomo accarezzò la pancia della sua signora e Bianca sentì sua madre rassicurarlo: “Nostro figlio sarà al sicuro, in questa rocca.”
 La bambina fece istintivamente un passo indietro. Lasciò cadere il ricamo in terra e, tremando come se avesse la febbre alta, corse via, senza più prestar attenzione al non farsi scoprire.
 Raggiunse i fratelli, che stavano oziando in attesa della cena nella stanza dei giochi e, dopo aver preso da una parte Ottaviano, gli disse, in fretta: “Fate quello che volete, con messer Giacomo. Solo, io non ne voglio sapere nulla.”
 Il fratello maggiore fece un breve sorriso alla sorellina e disse: “Non ci tradirai, allora?”
 Bianca scosse con forza il capo, il capelli biondi smossi da quel gesto repentino: “No. Fategli quello che volete, non mi opporrò, ma io non voglio sapere nulla.”
 “Come siete seri...” sorrise una delle balie, avvicinandosi ai due bambini: “Che avete da dirvi, di così importante?”
 Ottaviano si esibì in uno dei suoi sorrisi da furbo: “Niente.” disse subito.
 “Niente.” ripeté Bianca, senza riuscire a simulare bene quanto il fratello.

 I progetti per collegare il Paradiso al corpo principale della rocca erano già stati messi nero su bianco e la Contessa li aveva già approvati in pieno. Con quell'innovativo sistema di corridoi e passaggi segreti, sarebbe stato facile, per lei e Giacomo, andare nella loro alcova privata senza essere visti da nessuno.
 Quella sera Caterina si era ritirata presto, tanto presto che era arrivata nella sua vecchia stanza molto prima sia della sua cameriera personale, sia di Giacomo.
 Era felice di poter avere un momento per sé. Aveva trovato in terra un ricamo che doveva essere di sua figlia, in un punto molto vicino a dove, fino a pochi minuti prima, era stata a parlare con Giacomo. Quel dettaglio l'aveva un po' messa sull'attenti, ma a cena Bianca le era parsa esattamente come al solito, dunque si era convinta che quel ricamo fosse finito là per puro caso e non per un qualche motivo più grave.
 Da quanto Tommaso aveva lasciato la rocca, Caterina aveva avvertito una certa insofferenza in suo figlio Ottaviano e non le era sfuggito come il ragazzino osservasse con astio Giacomo, non perdendo occasione di criticarlo più o meno velatamente per qualunque motivo.
 Cesare, invece, restava nelle retrovie, ma era più che evidente come anche lui non accettasse la nuova posizione dell'ex stalliere. Per quanto la rattristasse una simile considerazione, Caterina era arrivata al punto di rivalutare l'ipotesi di mandare il suo secondogenito presso qualche religioso, magari Ascanio Sforza o Raffaele Sansoni Riario, per iniziarlo alla carriera ecclesiastica e allontanarlo dall'influenza negativa del fratello maggiore.
 Un frullio d'ali le smosse la pancia, sorprendendola come sempre e facendola quasi ridere. Per quanto fosse il suo settimo figlio, quella piccola vita che ogni tanto si faceva sentire la stupiva ogni volta. Ormai era troppo grande per fare grandi giravolte, ma alla sera spesso riusciva a spostarsi un po'.
 Accarezzò il punto in cui aveva avvertito il movimento e si chiese come sarebbe stato quel bambino. Lei immaginava che si trattasse di un altro maschio, mentre Giacomo sosteneva che sarebbe stata una femmina. Visto come andava il mondo, Caterina era convinta del fatto che per un maschio sarebbe stato tutto più semplice, motivo per cui si augurava di aver ragione, per quanto una bambina le sarebbe piaciuta ugualmente.
 In ogni caso, si disse, sarebbe stato un figlio illegittimo. Come lo era stata lei. Anche se suo padre le aveva dato il suo cognome, lei era sempre stata la figlia nata fuori dal matrimonio...
 “La tua dama di compagnia non è ancora arrivata?” chiese Giacomo, entrando in stanza senza avvisare nemmeno con un colpo alla porta.
 Caterina si ridestò dai ricordi e gli sorrise: “Il piccolo si è appena mosso, sai?”
 Giacomo, esaltato come ogni volta in cui la sua donna gli dava quel genere di notizie, corse da lei e appoggiò la mano dalle lunghe dita sul suo addome: “Ha voglia di conoscerci.”
 Caterina guardava il ragazzo, nemmeno ventenne, che stava inginocchiato accanto a lei, proteso verso il mistero insondabile che stava nel suo ventre. Il suo fisico slanciato e proporzionato, il modo in cui le sue guance si colorivano e i suoi occhi si accendevano e l'onda morbida dei suoi capelli castani... Tutto quanto in lui era un inno alla bellezza e alla giovinezza.
 La Contessa, con tutte le cure che aveva avuto nei confronti del suo corpo, specialmente negli ultimi tempi, poteva vantare ancora una pelle liscia e vellutata, fianchi morbidi e un'eleganza di complesso degna di una diciottenne, ma la realtà era che gli anni erano già ventisette, quasi ventotto...
 Quanto fuggiva in fretta la giovinezza, e con lei quella bellezza effimera che svanisce coi primi segni del tempo...
 “Sposiamoci.” disse piano Caterina, mentre Giacomo ancora bisbigliava parole d'amore al loro bambino non ancora nato.
 Il ragazzo alzò gli occhi verso di lei e, alla luce del camino acceso, domandò: “Davvero mi sposeresti?” poi si ricordò di come la sua signora avesse rifiutato quando era stato lui a proporre la medesima cosa: “Come mai hai cambiato idea così all'improvviso?”
 “Perché nessuno dei miei figli sarà mai un figlio illegittimo.” spiegò la Contessa, con una serietà che per poco non rovinò l'atmosfera romantica che si stava creando.
 Giacomo le diede un leggero bacio sulla fronte: “Sposiamoci.” accettò.
 “Ma in segreto, non dovrà saperlo nessuno, a parte le persone di cui ci fidiamo davvero.” precisò Caterina.
 Giacomo si accigliò. Non aveva dimenticato tutti i discorsi di Caterina su quanto fosse inutile sposarsi in segreto, dato che già vivevano come marito e moglie in clandestinità.
 Quasi divertito, chiese: “Dunque credi in Dio?”
 Caterina avrebbe voluto essere del tutto sincera e confessargli che voleva quel matrimonio, oltre che per dare al figlio che aspettava due genitori sposati tra loro, anche per un motivo molto meno nobile. Se fossero diventati marito e moglie 'davanti a Dio', come diceva Giacomo, la Contessa era certa che il ragazzo non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciarla.
 Prima o poi, pensava, si sarebbe accorto che lei era più vecchia di lui, che i sei figli che aveva avuto dal primo marito non erano un dettaglio e che non bastava l'amore, nella realtà in cui vivevano. E da lì a stufarsi di lei e cercare di meglio altrove il passo sarebbe stato breve. Con un contratto firmato 'davanti a Dio', Giacomo ci avrebbe pensato due volte, prima di guardarsi in giro in cerca di una donna più giovane, più semplice e meno impegnativa.
 “Credo nel nostro amore.” sviò Caterina.
 “Allora è deciso. Ci sposiamo.” concluse Giacomo, gonfiando il petto per la soddisfazione di quel traguardo che aveva creduto irraggiungibile.
 Con quella promessa strappata alla sua donna, il ragazzo si sentiva molto più tranquillo. Con un matrimonio e un figlio, Caterina non avrebbe più potuto scaricarlo all'improvviso. Tutte le cattiverie che Tommaso gli aveva sputato in faccia l'ultima volta che si erano visti, diventavano improvvisamente prive di fondamento. La sua Caterina non si sarebbe mai stancata di lui e, se anche col tempo l'avesse fatto, era una donna troppo ligia al dovere, per calpestare un contratto matrimoniale.
 Quando la moglie di Bernardino arrivò negli appartamenti della Contessa, trovò la sua signora e il nuovo castellano della rocca stretti in un abbraccio silenzioso e tanto intimo da imbarazzarla più che se li avesse trovati intenti in attività molto più equivoche.

   
 
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