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Autore: Adeia Di Elferas    07/06/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Da molto tempo non vi vedevo nella mia barberia...” constatò Andrea Bernardi, con uno sguardo un po' di sottecchi, mentre la Contessa si prendeva una delle sedie e si accomodava: “Sono successe molte cose, ultimamente...”
 Caterina comprese che il Novacula si riferiva principalmente alla partenza di Tommaso Feo, così non si prese il disturbo di fare la finta tonta e venne subito al dunque: “Il vecchio castellano non poteva più adempire degnamente al suo compito, ragion per cui ha deciso di prendersi un periodo di pausa.”
 Bernardi alzò un sopracciglio e prese ad affilare il rasoio, che in quei giorni stava perdendo il filo perché veniva usato troppo poco. Se non fosse stato per l'appannaggio che la Contessa gli versava regolarmente in cambio dei suoi servigi come storico e chiacchierone, difficilmente il Novacula sarebbe riuscito a mettere tutti i giorni qualcosa nello stomaco.
 “Comunque credevo che sarebbe passato da voi, prima di partire per Bologna. Credevo foste amici.” buttò lì Caterina, sospirando, mentre passava in rassegna il degrado della bottega del suo amico.
 “Se è per quello, non è passato nemmeno da Cobelli.” fece il barbiere, che aveva sentito il suo rivale lamentarsi in prima persona di quella mancanza di rispetto del vecchio castellano.
 'Amici, amici' – aveva detto l'artigiano – 'e poi se ne va senza nemmeno fare mezzo saluto'.
 “Per il resto è tutto sempre sotto controllo?” chiese Caterina, che di parlare di Tommaso proprio non aveva alcuna voglia.
 Bernardi sospirò e appoggiò il rasoio su uno dei ripiani. Si mise a sedere proprio di fronte alla sua signora e, un'occhiata al suo viso e una alla veste ampia e decorata che le nascondeva le forme, si decise ad affrontare l'argomento.
 “Sapete che si dice, in paese? E anche fuori, porco mondo...” cominciò, scuotendo la testa contrariato.
 La Contessa poteva immaginare, ma alzò le sopracciglia e disse: “Sono qui apposta per saperlo.”
 Bernardi si agitò un po' sulla sedia e poi ammise: “Molti dicono che voi abbiate sollevato il Capitano Feo dal suo incarico solo per...” si passò la lingua sulle labbra, seriamente a disagio perché il suo sesto senso gli diceva che una volta tanto le chiacchiere c'avevano azzeccato in pieno: “Per mettere al suo posto il Feo più giovane e che lo abbate fatto solo perché quel ragazzo è il vostro amante.”
 Caterina si lasciò scappare un sorriso abbattuto. Era fatale che il sospetto si spandesse tra la popolazione e non avrebbe dovuto restarci così male, ma...
 “Io ho cercato di negare con tutti, ma mi prendono per stupido, mia signora.” si difese il Novacula: “Cosa posso fare di più, se non ostinarmi a negare, negare, negare...”
 “Avete fatto anche troppo, per me.” concordò Caterina, alzandosi e lasciando che la sua larga veste non nascondesse più di tanto il suo ottavo mese di gravidanza: “Però vi sarei grata se poteste farmi un favore ancora.”
 “Tutto quello che comandate.” si affrettò a dire il barbiere.
 La Contessa parlò a voce bassa, ma sicura: “Dovete trovarmi un uomo di Chiesa di cui mi possa fidare e mandarmelo alla rocca in un momento tranquillo, magari verso sera.”
 “E cosa dovrebbe fare, questo uomo di Chiesa?” domandò il Novacula, incerto.
 Caterina si prese un secondo, poi soffiò: “Celebrare un matrimonio.”

 “Nostro cugino ci invita alla calma...” riassunse Ottaviano, scorrendo in fretta la lettera appena arrivata da Roma: “E anche a essere più cauti quando gli scriviamo.”
 Cesare ascoltava con la fronte aggrottata e una certa apprensione. Per quanto si fosse dichiarato fino a quel momento pronto a seguire il fratello maggiore fino in fondo, non condivideva l'astio che Ottaviano provava nei confronti della loro madre. Finché si trattava di eliminare messer Giacomo, erano d'accordo, ma far del male alla loro madre...
 “Cosa c'è?” chiese Ottaviano, storcendo la piccola bocca in una smorfia di sospetto.
 Cesare mostrò i palmi delle mani, mentre i riccioli ribelli gli coprivano un po' gli occhi: “Niente, perché?”
 Ottaviano diede un'ultimissima occhiata alla lettera e poi, obbedendo a ciò che il Cardinale aveva consigliato, la stracciò in mille pezzi e la gettò nel camino: “Mi sembra che tu abbia dei ripensamenti.”
 Cesare abbozzò un sorrisetto, pallida ombra del ghigno che increspava sempre più di frequente le labbra del fratello maggiore: “No, io...”
 “Ti ricordi della notte in cui è morto nostro padre?” chiese Ottaviano, abbassando sensibilmente il tono di voce e facendosi molto più vicino a Cesare: “Ricordi di quando l'hanno buttato giù dalla finestra del palazzo? Ricordi di come l'hanno fatto a pezzi senza pietà?”
 Cesare ricordava bene quella notte, anche se non aveva visto quasi nulla coi suoi occhi. Per tutto il tempo era rimasto accanto alla zia, alle balie, alla madre, senza mai avere il coraggio di guardare fuori, come invece suo fratello aveva fatto.
 “Io ho visto tutto e non dimentico.” ringhiò Ottaviano: “Nostra madre invece sembra essere rinata, dopo quella notte.”
 Con un lampo che gli attraversava le profondissime pupille, il giovanissimo Conte prese per la collottola il fratello minore e gli assicurò: “Gli Orsi le hanno fatto un favore, uccidendo nostro padre, e gliene avrebbero fatto uno anche più grande se avessero ucciso anche noi.”
 Cesare deglutì rumorosamente, mentre il fratello concludeva: “Dunque perché mai dovremmo farci scrupoli nei suoi confronti? L'hai sentita anche tu: impiccateli pure davanti a me, se volete! Ecco cos'ha gridato agli Orsi: ho qui il necessario per farne altri!”
 Il ricordo colpì Cesare come un pugno in pieno volto. Il bambino si divincolò dalla stretta del fratello e dovette trattenere le lacrime, che minacciavano di scendere copiose e roventi. Aveva cercato di dimenticare quell'orribile scena e i sentimenti disperati che aveva provato quel giorno.
 Ora che Ottaviano risvegliava in lui tutte quelle immagini, non poteva fare altro che condividerne l'astio.
 “Allora? Sei ancora convinto che lei meriti la nostra pietà?” inveì Ottaviano, gonfiando il petto per sovrastare il fratello minore, più esile, ma alto quanto lui.
 Cesare si asciugò il naso col dorso della mano: “No. Non la merita.” poi aggiunse, in un moto di filiale abnegazione impossibile da soffocare: “Ma non le faremo niente, a meno che non sia strettamente necessario.”
 Ottaviano sbuffò, ma fece un breve cenno d'assenso e si sistemò il giacchetto, appena prima che il loro barbosissimo precettore di latino entrasse nella stanza.
 
 “Posso fidarmi di voi?” chiese Caterina, evitando di guardare la sua cameriera personale negli occhi.
 La donna, sorpresa da quella domanda, visto il fedele servizio che svolgeva ormai da parecchio tempo, assicurò: “Certo, mia signora.”
 “E di vostro marito?” si informò Caterina, che ben sapeva quanto Bernardino fosse ben informato dalla moglie su ogni dettaglio della questione.
 “Potete fidarvi di lui quanto vi fidate di me.” affermò la cameriera, finendo di acconciare la Contessa per la cena.
 “Mi posso fidare abbastanza da affidarvi la mia vita e quella delle persone che più amo?” domandò Caterina, alzando lo sguardo verso quello della serva.
 Questa, spiazzata da una simile richiesta, ci pensò un istante, poi annuì, con decisione: “Ovvio, mia signora.”
 “Allora tu e tuo marito – disse in fretta la Contessa, con un tono molto più confidenziale – farete da testimoni a me e Giacomo, stanotte.”
 La cameriera aprì la bocca, in segno di massimo stupore, restando con le mani a mezz'aria e un'espressione da ebete dipinta in viso. Stava per chiedere come mai i due avessero deciso di sposarsi, dato che la loro storia andava avanti benissimo anche a quel modo, a suo parere, ma non fece in tempo a porre alcuna domanda, perché la Contessa l'anticipò.
 “Io e Giacomo aspettiamo un figlio che nascerà a breve e non voglio insultare la tua intelligenza fingendo di non sapere che ne sei al corrente da tempo.” fece Caterina, tormentando il polsino dell'abito da sera: “Non voglio che mio figlio nasca fuori dal matrimonio. Non voglio che viva come un figlio illegittimo. Già sarà difficile, per lui o per lei, perché si sentirà comunque diverso dai suoi fratelli, ma non voglio che sia un figlio nato fuori dal matrimonio. È capitato a me e non voglio che capiti anche a uno dei miei figli. Ti sembrerà un motivo sciocco, ma...”
 La serva appoggiò con delicatezza una delle piccole mani sul braccio della sua signora e, con un sorriso, le disse: “Non mi sembra affatto un motivo sciocco.”
 Caterina le sorrise di rimando e poi sospirò: “Finisco io di pettinarmi. Vai da tuo marito e spiegagli dove deve farsi trovare.” e spiegò alla donna dove e quando si sarebbe tenuta la cerimonia segreta.
 
 Il frate si sentiva un po' intimorito da quella grande e pesante costruzione che andava sotto al nome di rocca di Ravaldino.
 Uno dei motivi per cui aveva deciso di indossare un saio e non un'armatura era proprio l'avversione e la paura che provava di fronte a simili edifici. Pensare che lì dentro, poi, ci fossero pressoché solo soldati e armi, lo metteva ancora più in difficoltà.
 Tuttavia aveva un compito da svolgere ed era anche stato pagato in anticipo. Il suo silenzio era costoso, ma il risultato era garantito. Avrebbe fatto tutto a regola d'arte, il matrimonio sarebbe stato valido a tutti gli effetti, ma nessuno avrebbe saputo nulla, almeno fino a che gli sposi non avessero deciso altrimenti.
 Un uomo con indosso un giubbetto imbottito lo andò ad accogliere al ponte levatoio e lo scortò fino nel punto più remoto della rocca. Le torce appese alle pareti faticavano a sconfiggere il buio e il freddo che regnavano in quella specie di sotterraneo deserto.
 Tenendo bene l'orecchio, il frate poteva sentire anche lo squittire di qualche topo, ma sopportò tutto quanto in nome del suo dovere. E poi, per danaro, aveva visitato anche posti peggiori.
 L'uomo che l'aveva preso in custodia lo fece arrivare fino alla stanzetta in cui aspettavano i due promessi sposi, assieme a un'altra donna.
 Il frate tenne gli occhi bassi. Anche se conosceva bene l'identità di colei che l'aveva pagato per quel servizio, voleva dar l'impressione di essere talmente riservato da non guardare in volto né la sposa né lo sposo.
 Officiò la cerimonia con grande pomposità, seppur a voce bassa, e non si lasciò fiaccare né dal freddo, né dallo sparutissimo pubblico. Quattro persone erano già molte, per quel genere di affari.
 Solo quando si apprestò a dare l'ultima benedizione, i suoi occhietti corsero al viso di quello che ormai era a tutti gli effetti il nuovo marito della signora di Forlì.
 Un brivido gelido, che nulla aveva a che vedere con l'umidità, gli percorse la schiena. Mentre distoglieva di nuovo lo sguardo, per puntarlo in terra e borbottare le ultime parole del rito, il frate si trovò a pensare che quel giovane uomo era di una bellezza decisamente singolare, quanto quella di un cherubino, ma che il trionfo che si poteva leggere nelle sue iridi aveva ben poco di angelico. Era più un angelo caduto, che non uno di quelli che portano con sé la grazia divina.
 Ma a lui non spettavano simili congetture.
 Finito il suo compito, si permise di augurare il meglio agli sposi. Salutò la donna che aveva pianto di commozione per parte della cerimonia e si lasciò scortare dall'altro testimone di nuovo fuori dalla rocca, all'aria aperta.
 Il cielo stellato sopra di lui, in quella notte algida e luminosa, gli fece tornare l'aria nei polmoni e il sangue nelle vene.
 “Dio sia con voi.” si congedò dall'uomo con il giacchetto e, con un abbozzo di segno della croce, voltò le spalle alla rocca, ben contento di aver portato a termine il suo compito senza intoppi.
 
 Il nuovo ambasciatore di Milano, Battista Sfrondati, arrivò a Forlì carico di notizie e doni da parte di Ludovico il Moro.
 Caterina, che da un paio di giorni sentiva il suo tempo vicino, ascoltò tutti i convenevoli che l'uomo doveva fare, ma non prestò molta attenzione a quello che le sue parole lasciavano sottintendere.
 Sfrondati era di una pasta molto diversa rispetto all'ambasciatore che l'aveva preceduto e lo stesso Oliva aveva avvisato Caterina: “Io vi ero ostile, in un primo tempo, è vero, ma lo rendevo palese. Costui pare un uomo affabile e conciliante, ma guardatevi da lui come dalla peste!”
 La Contessa, però, si era detta che il tempo non le sarebbe mancato, per conoscere meglio quella nuova spia mandata da suo zio a controllarla e pensò che starne lontano almeno per i primi tempi non sarebbe stata una brutta idea.
 Prima di tutto, era vicina al parto e difficilmente avrebbe potuto nascondere un evento tanto eclatante a un uomo che veniva definito tanto astuto. Perciò avrebbe fatto in modo di tenerlo fuori dalla rocca almeno fino a quando suo figlio o sua figlia non fosse nato.
 Sfrondati si finse entusiasta dell'idea della Contessa, di mandarlo a girare per le campagne e le terre vicine: “Almeno in questi primi tempi – gli aveva detto, con estremo candore – avrete modo di vedere meglio questa terra e così comprenderete meglio i suoi problemi e di conseguenza le mie azioni ed eviterete di passare a mio zio valutazioni scorrette o incomplete.”
 Prima di partire per il suo giro di ricognizione, l'ambasciatore aveva recapitato una lettera al giovane Conte Riario, prendendolo in disparte e completando a voce la missiva: “Per ogni altra vostra corrispondenza futura con Milano, lo zio di vostra madre la Contessa vi prega di affidarvi a me e a me esclusivamente.”
 Ottaviano aveva preso il biglietto e aveva assicurato a Sfrondati che non si sarebbe affidato a nessun altro canale.
 Il Moro aveva scritto al giovane Conte poche righe, intrise di ipocrisia e bei paroloni con cui lo invitava a starsene buono al suo posto, a non intralciare sua madre e, soprattutto, a non mettere in giro voci che, una volta uscite dalla rocca di Ravaldino, sarebbero state difficili da zittire.
 Ottaviano aveva accartocciato il messaggio con rabbia e aveva subito cercato Cesare per informarlo del fatto che Ludovico Sforza, evidentemente, non aveva interesse a far cacciare Tommaso Feo dalla loro vita.
 “Non capisce che quello stalliere è un pericolo per me, il legittimo Conte.” aveva detto Ottaviano, carico di rabbia: “È inutile, fratello mio... Lui è uno Sforza, non un Riario. Se dovrà scegliere tra noi e nostra madre, sceglierà sempre nostra madre.”
 “E quindi?” chiese Cesare, un po' più nervoso del solito all'idea che il potente Ludovico Sforza stesse voltando loro le spalle.
 Ottaviano soffiò: “Quindi per ora ci fideremo solo del nostro cugino Cardinale. Per quanto riguarda Milano, vedrò di capire meglio dal nuovo ambasciatore come la pensa davvero il Moro...” e masticò l'ultimo appellativo come fosse un insulto.

 La notte del 28 novembre, nel silenzio del Paradiso, Caterina Sforza era entrata in travaglio alla presenza della sua dama di compagnia e di una levatrice recuperata da Bernardino, marito della suddetta fedelissima serva.
 Giacomo aveva insistito fino a strappare alla sua fresca sposa il permesso di assistere in prima persona alla nascita del loro primo figlio e così anche lui assisteva con apprensione a ogni cosa.
 “Non puoi uscire dalla rocca – gli aveva intimato Caterina, mentre prendeva la decisione di partorire al Paradiso, i cui passaggi di collegamento con il corpo principale della fortezza non erano ancora pronti – resta al tuo posto...”
 “Io voglio esserci – aveva controbattuto lui, incrociando le braccia sul petto – nessuno saprà che sono uscito e io voglio vedere il mio primo figlio nascere.”
 Caterina allora, stremata dalle contrazioni che non le davano più pace, capì di aver atteso anche troppo a stendersi su un letto e così gli permise di far quel che gli pareva, benché non fosse riuscita ad aggiungere, mentre l'accompagnavano al Paradiso: “Ho sempre pensato che i parti non siano cose per gli uomini... Io sono stata anche in guerra, ma ti assicuro che questo è molto peggio...”
 La moglie di Bernardino e la levatrice si stavano operando per dare il loro sostegno alla Contessa, mentre Bernardino faceva coraggio al futuro padre, stringendogli la spalla con forza ogni volta che la partoriente emetteva gemiti di dolore.
 Il travaglio fu più breve, rispetto alle gravidanze precedenti e, malgrado il bambino fosse grande, Caterina non soffrì tanto quanto aveva sofferto le altre volte. La gioia era talmente forte, forse, da impedirle di provare appieno la sofferenza di quel momento difficile.
 “Mia signora!” esclamò la cameriera, la voce tremula per l'emozione: “È un maschietto!”
 A Caterina scappò da ridere, mentre gli occhi le lacrimavano ancora per lo sforzo. La levatrice prese il piccolo e, dopo aver reciso il cordone, lo controllò un istante, gli diede una sommaria pulita e lo appoggiò al petto della madre.
 Giacomo, che si sentiva svenire dall'emozione, si accucciò accanto al letto e, perso nello sguardo ancora opaco e sperso del neonato, scoppiò in lacrime.
 Caterina aveva il cuore che le batteva all'impazzata, colmo di felicità e incredulità per il suo stesso stato di grazia. Per quanto in quel momento fosse dolorante, sporca, stremata e in cerca di riposo, non avrebbe potuto desiderare di meglio. Il suo figlio appena nato, sano e forte, stretto al seno, il suo uomo al suo fianco, scosso da singhiozzi di gioia...
 Se qualcuno, solo tre o quattro anni prima, le avesse detto che si poteva essere tanto felici come lo era lei in quel momento, non ci avrebbe creduto. E avrebbe sbagliato.
 E chi se ne importava, se sarebbe stato difficile nascondere la presenza di un neonato nella rocca... Ogni cosa aveva il suo prezzo, in fondo, perfino la felicità.
 

   
 
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