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Autore: Adeia Di Elferas    09/06/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Vincenzo Bellorato, ambasciatore di Ferdinando d'Aragona, era impaziente di lasciare il castello di Pavia, tanto da aver preparato i bagagli con mezza giornata d'anticipo.
 Non gli piaceva il clima freddo e umido di quella città. Il Ticino, il fiume che attanagliava Pavia con la nebbia gelata che saliva dalle sue rive, si era ghiacciato, quella notte e la neve aveva cominciato a scendere tanto fittamente da fornirgli la scusa per partire subito.
 “Potrei non riuscire a raggiungere Milano.” aveva detto al Duca, fingendosi molto addolorato per la partenza anticipata: “Dunque, prima di non poter adempire ai miei compiti, preferisco partire.”
 Gian Galeazzo, sorseggiando un po' di vino scaldato e speziato, l'aveva guardato con ironia e aveva commentato, giusto per metterlo in difficoltà: “Perché non usate una lilza? Lo fanno tutti, quando c'è questo mal tempo.”
 Bellorato si accigliò: “Una lilza...?” chiese, incerto.
 “Oh, dimentico che voi napoletani non avete bisogno di slitte con pattini al posto delle ruote, al vostro paese.” fece Gian Galeazzo, con una risatina.
 “Io sono di origini siciliane.” si schermì Vincenzo Bellorato, che era sempre andato fiero della sua terra natale e un po' si indispettiva, quando lo scambiavano per spagnolo o per napoletano.
 “Suvvia, vi prendevo in giro con bonarietà!” esclamò Gian Galeazzo, un po' più sottotono, vedendo come Bellorato fosse rimasto avvilito da quell'esortazione.
 In realtà per il Duca era un grandissimo sollievo sapere che l'ambasciatore sarebbe partito presto. Da quando era arrivato, Isabella si era trasformata in una fonte inesauribile di lamentele.
 Tenendosi il pancione, che si era fatto prominente, nelle ultime settimane, non faceva altro che ripetere a Bellorato quanto fosse scontenta della sua posizione e della scarsa attenzione che la corte milanese le prestava.
 “Ottiene più favori e complimenti quella donna di strada della Gallerani – aveva detto una sera, mentre cenavano – che non io, che sono la legittima Duchessa, futura madre dell'erede del Duca di Milano!”
 Bellorato le dava ragione, ma le diceva che la colpa principale non era tanto di Ludovico Sforza, quanto proprio di Gian Galeazzo, che, in qualità di Duca, avrebbe dovuto rimettere lo zio al suo posto e prendersi il Ducato una volta per tutte.
 Isabella, in privato, aveva confidato all'ambasciatore che Gian Galeazzo, per quanto fosse un uomo gradevole e dalle doti inattese, era malato e questa sua condizione lo rendeva fragile e indeciso. Lo descriveva come un giovane incredibilmente debole e cagionevole, anche se l'ambasciatore stesso si era reso conto che il Duca riacquistava tutto il suo smalto ogni volta che gli si profilava l'occasione di passare del tempo con la moglie.
 Certo, spesso Gian Galeazzo aveva un colorito cereo e appena eccedeva anche un minimo con il cibo o il vino, terribili dolori lo coglievano e lo costringevano a ritirarsi nelle sue stanze. Tuttavia...
 “Dunque che dovrei fare, io?” aveva chiesto Bellorato, quasi con disperazione, stanco morto di sorbirsi le lamentele della Duchessa.
 “Ebbene – aveva subito risposto Isabella – dite al Moro che sono disposta a governare al posto di mio marito, se lui non ne sarà in grado, ma che deve subito lasciare il Ducato a noi, senza nemmeno sognarsi di prendere il potere dopo aver sposato mia cugina Beatrice Este!”
 “Andate, andate...” concesse alla fine Gian Galeazzo, ben felice che quella visita fosse finita: “E salutate mio zio Ludovico. E ringraziatelo per il vino, è ottimo.” aggiunse il Duca, alzando il calice e svuotandolo d'un colpo.
 Bellorato fece un profondo inchino e si affrettò a ritirarsi nei gelidi alloggi che gli avevano assegnato, nella speranza di poter partire immediatamente e lasciare quel castello e i suoi abitanti.

 'Non dubito che la signora Contessa abbia dato a messer Giacomo Feo l'incarico di castellano della rocca di Ravaldino per i suoi meriti – aveva scritto Sfrondati, nella sua prima missiva a Ludovico il Moro – tuttavia ho seri dubbi sul fatto che suddetti meriti siano in campo militare o politico. Sono più dell'idea che si tratti di un premio per affari di tutt'altro genere.'
 Il reggente del Duca respirò rumorosamente, irritato dal tono da vecchia comare che il nuovo ambasciatore aveva usato. Non era meglio parlarsi chiaro, senza tanti giri di parole?
 'Inoltre pare che vi sia davvero un infanti di mezzo e credo, da quello che ho potuto ascoltare, che sia maschio e sono certo che si tratti del neonato che in questi giorni le nuove balie si passano come un pezzo di cristallo, chiamandolo il 'povero figlio del castellano', facendo intendere che la madre del piccolo sia morta dandolo alla luce. Mi pare ovvio che la madre invece sia in salute e raggiante, perché è così che trovo vostra nipote in queste giornate.' proseguiva Sfrondati, con maggior pressione sul foglio, tanto che sembrava che l'inchiostro stesse per passare dall'altra parte: 'Al povero Conte Riario non è sfuggita, come non è sfuggita a me, la reale situazione della rocca. L'ho avvicinato con circospezione e ho letto in lui molta rabbia e ira e altro che non sto qui a spiegarvi, ma vi dico che se voi doveste dirmi di aiutarlo nel suo intento di prendere il potere a discapito del Feo e del figlio appena nato del suddetto, non tarderò a farlo. Attendo vostre indicazioni.'
 Ludovico non aveva nemmeno bisogno di pensarci. Se c'era già un figlio di mezzo, come aveva ipotizzato dall'ultima lettera di Ottaviano, era inutile starsene lì a cercare una via d'uscita. Sua nipote non avrebbe rinunciato a un bambino nato da una relazione che lei stessa aveva voluto, dunque tanto valeva cercare di salvare il salvabile.
 Il Moro prese carta e inchiostro e, lasciando qualche riga per i saluti iniziali, che avrebbe aggiunto in un secondo momento, scrisse in fretta: 'Vi impedisco categoricamente, per ora, di prendere posizioni contrarie al Feo, anzi, vi farò avere i documenti necessari per insignirlo dell'Ordine Cavalleresco' Ludovico restò un momento con la penna a mezz'aria e lasciò un po' di posto, in attesa che gli venisse in mente a che ordine affibbiare quel buono a nulla di uno stalliere: 'Dimostratevi sempre di buon carattere tanto con il giovane Ottaviano, quanto con mia nipote.'
 Lasciò il foglio sulla scrivania, ripromettendosi di concludere il prima possibile quella missiva e morsicò il pollice. Sarebbe stato folle a opporsi a sua nipote in quel frangente. Tutti quanti si stavano muovendo, ormai, c'era inquietudine nell'aria e se al sud potevano non accorgersene, al nord era palese che qualcosa stesse bollendo in pentola.
 I veneziani erano inquieti e i genovesi non erano da meno. I francesi stavano intensificando le ambascerie e tutte le città, da Mantova fino a Ferrara, stavano cominciando a riarmarsi, chi più chi meno.
 Se il suo fiuto non lo ingannava, Ludovico sapeva che presto una guerra sarebbe scoppiata. Poco importava chi avrebbe acceso la miccia, ci sarebbero andati di mezzo tutti. Inimicarsi la signora di ben due città posizionate sulla via Emilia sarebbe stato un vero suicidio.
 E per tenerla buona, Ludovico sapeva che poteva fare solo una cosa: aiutare quello stalliere nullafacente a far carriera e a farsi un nome.
 “Mio signore – fece Calco, entrando nello studiolo – c'è Vincenzo Bellorato, l'ambasciatore di Napoli.”
 Ludovico il Moro, che aveva sperato in un ritardo dovuto alla neve, gettò gli occhi al cielo e sbuffò: “Che entri e finiamola qui.”
 Vincenzo Bellorato entrò già chinato in avanti, in segno di rispetto.
 Il Moro si trattenne a stento dallo sbuffare di nuovo. Non voleva lungaggini, non aveva voglia di chiacchiere inutili, ma non poteva certo prendere a male parole un uomo che simboleggiava Ferdinando d'Aragona, anzi, Ferrante, come lo chiamavano i napoletani.
 L'ambasciatore si profuse in panegirici mirabolanti e voli pindarici che descrissero Ludovico come una sorta di messia, capace di pacificare tanto Genova quanto Forlì senza inutili guerre, con il solo 'sfoggio delle vostre capacità', e solo dopo almeno un quarto d'ora di parole vuote, si arrischiò a dire: “Ed è per questi grandi meriti che il mio signore, il re Ferrante, è convinto che spetti a voi un periodo di riposo. Vostro nipote Gian Galeazzo, il legittimo Duca, ha ormai l'età giusta per governare e sua moglie, la Duchessa Isabella, è in attesa di un erede...”
 Ludovico lo fermò subito, alzando la mano: “Ma avete tutte le ragioni.” disse, con un sorriso mellifluo che Calco comprese al volo, compiacendosene: “Appena avremo celebrato le mie nozze e quelle di mia nipote Anna Maria, sarò lieto di passare una volta per tutte il comando a mio nipote Gian Galeazzo.”
 Bellorato si accigliò, un po' sorpreso da quel tono disteso e pacioso. Si era fatto convinto che quella discussione sarebbe stata lunga e difficile, mentre il reggente lo aveva subito assecondato. Forse con troppa facilità...
 “Riferite pure al vostro re che ho tutto l'interesse a lasciare questa scomoda carica di reggente...” proseguì il Moro, tenendo le mani in grembo e assumendo un'espressione stanca, ma lieta: “Ho difeso mio nipote negli anni più difficili del suo regno, ma adesso sono d'accordo con voi: largo ai giovani!”
 Bellorato aveva in viso un sorriso stolido. Era incapace di controbattere degnamente e non sapeva come uscire da quella situazione. L'unica cosa che era andato a dire al reggente era che doveva lasciare il Ducato al Duca. Dunque, che altro motivo aveva di restare lì?
 “Bene... Allora...” fece l'ambasciatore, farfugliando appena.
 “Prego, faremo in modo di trovarvi un comodo passaggio per Napoli al più presto.” sorrise il Moro, invitando con un gesto il Bellorato a uscire.
 “Ah...” fece l'ambasciatore, appena prima di uscire: “Vostro nipote mi ha detto di ringraziarvi per il vino...”
 Ludovico ridacchiò: “Ma davvero? Bene, bene... E salutatemi Ferrante!”
 Una volta rimasti soli, il Moro e Calco si scambiarono una lunghissima occhiata.
 “Da voi non mi sarei mai aspettato un simile controllo.” fece il cancelliere, ammirato.
 “Ho imparato da voi.” si gongolò Ludovico.
 “Però avete rischiato molto – lo redarguì Calco, facendosi molto più cupo – Ferrante ha molto interesse a mantenere la pace, lo so bene, e la pensa come voi e Lorenzo Medici...”
 “Esatto, finché noi tre saremo al potere, l'Italia non rischia nulla. Da anni manteniamo lo status quo e lo faremo ancora a lungo.” concordò Ludovico, convinto delle sue parole.
 “Certo...” sussurrò Calco, poi riprese, con più forza: “Tuttavia Ferrante non scoppia di salute, ormai e suo figlio Alfonso, il padre di Isabella, è molto meno stabile e non si farà scrupoli a scatenarvi contro una guerra, se sua figlia glielo chiederà.”
 Ludovico guardò storto il cancelliere. Lo sapeva benissimo anche lui. Era proprio il pensiero che lo tormentava giorno e notte, era il motivo stesso per cui voleva tenersi buona Caterina, e la causa ultima dei suoi tentennamenti nell'imporsi con la forza su suo nipote Gian Galeazzo.
 “Se il figlio di Isabella sarà un maschio, dubito che Alfonso d'Aragona se ne starà buono buono a guardare la signoria vostra prendersi quello che spetta a un Aragona.” affondò Calco, in attesa che il suo signore gli spiegasse che accidenti aveva in testa.
 “Lo so, per Dio, Calco, non sono mica ritardato, sapete?!” sbottò il Moro: “Ma io ho una carta da giocare contro Alfonso d'Aragona, se oserà alzare la cresta.”
 “Sarebbe?” domandò Calco, scettico.
 Il Moro ghignò: “Lo sapete anche voi. Gli Angiò di Francia si sono visti strappare il trono di Napoli proprio grazie a mio nonno Filippo Maria Visconti, che aveva appoggiato gli Aragona. Basterà aizzare i francesi per spaventare Alfonso.”
 Calco sentì il sangue raggelarsi nelle vene. Cercò lo sguardo del reggente del Duca, sperando di leggervi la burla sottesa a quelle parole, ma quando incontrò le iridi ferme del suo signore, capì che il Moro non stava affatto scherzando.
 “No, è troppo rischioso.” si oppose il cancelliere.
 Ludovico alzò le mani, spazientito: “Re Carlo ha solo vent'anni e non capisce un accidente, dicono sia più stupido di un asino. Credete che non saprei sfruttarlo per i miei scopi?”
 Calco passò il peso da un piede all'altro, indeciso su cosa dire. Voleva far ragionare il Moro, ma come?
 “Il mio ambasciatore in Francia, Barbiano, mi ha detto chiaramente che quel ragazzino non vede l'ora di mettersi in mostra.” spiegò Ludovico: “Ecco, io gli darò questa opportunità. Lui crederà di venire in Italia a prendersi Napoli, mentre io lo userò per far paura ad Alfonso e consolidare il mio dominio su Milano.”
 “E se una volta in Italia, Carlo non se andasse più?” provò a dubitare Calco.
 Il Moro strinse i denti e concluse: “Questo è tipico di voi diplomatici: sempre a pensare il peggio! Carlo VIII se ne andrà appena glielo dirò io. Milano ha più fondi e soldati migliori di quel ragazzetto. Barbiano dice che è un impulsivo e che basta poco per fargli cambiare idea, dunque dopo che l'avrò usato a dovere, lo ingolosirò con qualcos'altro e se ne tornerà a casa sua.”
 Calco era già pentito delle lodi fatte al suo signore poco prima, per la sua recita, ma si limitò a dire: “Per fortuna Ferrante è ancora vivo. Abbiamo tempo per pensare a queste cose.”
 
 Lucrezia Landriani, in barba alla neve che ammantava le strade e i sentieri, aveva deciso di trascorrere quel Natale a Forlì, assieme alla figlia.
 Dopo essere passata dal figlio Piero a Forlimpopoli e averlo trovato molto bene e appagato dal suo ruolo di castellano di una rocca piccola, ma comunque degna di quel nome, aveva fatto rotta verso Ravaldino.
 Caterina era stata felicissima di rivederla, soprattutto perché quella visita equivaleva all'effettivo perdono per quello che era successo con Bianca e Tommaso.
 “Sono già ripartiti da Bologna, ormai, ne sono certa.” aveva assicurato Caterina, facendo un rapido conto a mente: “Credo che siano già a Savona.”
 “Speriamo di avere presto loro notizie.” aveva concordato Lucrezia, con un sospiro: “Richiamerai mai Tommaso al tuo servizio?”
 La Contessa aveva tergiversato un momento, poi aveva alzato la spalla: “Privare per sempre questa città di un soldato tanto valido sarebbe un grosso errore.”
 E a Lucrezia quella parziale promessa bastò per tranquillizzarsi.
 La presenza di un neonato alla rocca, come previsto, era pressoché impossibile da nascondere, per lo meno a chi abitava tra quelle spesse mura di pietra.
 Per quanto molti si fossero accontentati della storiella per cui quel bambino fosse un figlio di Giacomo Feo, avuto da una popolana morta di parto, la verità era sotto agli occhi di tutti.
 Lucrezia, una sera, qualche giorno prima di Natale, sentì i tre figli maggiori di Caterina parlottare tra loro proprio di quel neonato che se ne stava quasi tutto il tempo in un'ala riparata della rocca, accudito pressoché esclusivamente dalle nutrici e dal padre, che stava trascurando vistosamente i suoi impegni da castellano per dedicarsi a quella nuova vita.
 Non le era piaciuto il tono che i bambini avevano usato per parlare del piccolo, ma si rendeva conto che un po' di gelosia era normale e che probabilmente tutto sarebbe sbollito con il tempo. Con il crearsi di un legame d'affetto, alla fine tutte quelle recriminazioni sarebbero passate in secondo piano.
 Non potendo più negare con se stessa l'evidenza, Lucrezia si fece coraggio e si recò, la mattina seguente, proprio nelle stanze in cui stava il piccolino.
 “Mi figlia mi ha detto tutto, non c'è bisogno che recitiate davanti a me.” mentì, quando una delle nutrici tentò di allontanarla.
 Una volta nella stanza, Lucrezia si rese conto che c'era anche il nuovo castellano. Il ragazzo stava guardando in adorazione il visetto bianco del neonato e non si accorse subito della presenza della donna.
 Quando la vide con la coda dell'occhio, la sua prima reazione fu quella di mettersi sulla difensiva: “Chi cercate?” domandò, teso.
 Lucrezia lo guardò per un lungo istante e, umanamente, comprese cosa, in quel giovane, avesse attirato tanto sua figlia.
 “Sono venuta qui a vedere il mio nipotino.” sussurrò la donna, con semplicità.
 Giacomo si accigliò e poi si disse che quella sicurezza non poteva essere una farsa. Probabilmente Caterina alla fine aveva deciso di parlare apertamente anche con sua madre...
 Così il castellano indicò il neonato e disse: “Si chiama Bernardino.”
 Lucrezia trovò la scelta del nome un po' strana, ma non lo fece notare. Si avvicinò alla culla e guardò dentro, colma di aspettativa.
 Le manine, le guanciotte e gli occhi curiosi del piccolo la lasciarono senza fiato: “Ma è veramente bellissimo...” bisbigliò, allungando le dita per accarezzarne la pelle liscissima.
 Giacomo, con il petto gonfio d'orgoglio commentò: “Non poteva essere altrimenti.”
 Lucrezia si prese ancora qualche minuto per osservare il suo nuovo nipotino, e poi si congedò da Giacomo con un semplice: “Sono felice per voi.”
 
 “Giacomo mi ha detto che sei stata dal bambino.” sussurrò Caterina, quando ebbe raggiunto sua madre, che vagava senza meta negli orti coperti di neve.
 Lucrezia non riuscì a interpretare subito il tono della figlia, perciò attese, prima di negare o confermare quella versione.
 Caterina guardò di sfuggita la pianta di fico, trasformata in un cumulo bianco, e si ricordò di come avesse attirato sotto le fronde di quella pianta Tommaso, prima di metterlo in trappola. Puntò gli occhi altrove e, mentre una nuvoletta di vapore le usciva dalle narici, facendo turbinare i fiocchi di neve, si concentrò di nuovo su sua madre.
 “Lui era convinto che tu sapessi già tutto.” andò avanti la Contessa.
 “Tu hai smentito questa sua convinzione?” chiese Lucrezia, con calma, mettendo un piede davanti all'altro.
 Forse con quel clima infausto non era una grande idea, camminare all'aperto, ma Lucrezia non sopportava di stare troppo a lungo dentro a una rocca. Anche a Imola faceva lunghe passeggiate, senza pensare al freddo o alla pioggia o alla neve.
 “No, no...” fece subito Caterina: “Gli ho detto che era vero, che ti avevo confidato già tutto.”
 Sul viso della giovane si era impressa una ruga di preoccupazione e Lucrezia comprese improvvisamente quanto dovesse essere pesante tutta quella segretezza per sua figlia.
 “Ti assomiglia molto.” disse, riferendosi al neonato: “Davvero, sai? Mi ricordo bene com'eri, quando eri piccola quanto lui, e siete davvero simili...”
 Caterina non represse un sorriso compiaciuto. Per la prima volta era sinceramente felice di poter ammettere che il figlio che aveva partorito assomigliava sia a lei sia al marito, ma preferì non sminuire l'entusiasmo della madre.
 “Come mai lo avete chiamato Bernardino?” fece Lucrezia, abbassando ancora di più la voce, benché tutt'intorno a loro non ci fosse che ghiaccio, neve e silenzio.
 Il sorriso lasciò le labbra di Caterina, per far posto a una nuova smorfia di preoccupazione: “È il nome di un uomo che ci ha aiutati molto in questo periodo e poi...” si strinse un po' nelle spalle, fingendo di avere freddo: “Si tratta di un nome meno riconducibile a me, rispetto ad altri. Se l'avessimo chiamato con un nome della mia famiglia, sarebbe stato anche troppo facile dimostrare che i pettegolezzi che girano sono veri.”
 Lucrezia mise una mano sulla schiena della figlia, mentre incedevano lentamente nella neve e la massaggiò un po', per farle coraggio: “Sei felice con lui?” chiese, riferendosi palesemente a Giacomo.
 “Sì.” rispose subito Caterina: “Altrimenti non lo avrei sposato.”
 Lucrezia dovette lottare con se stessa per non bloccarsi a metà passo. Non immaginava che sua figlia si fosse spinta tanto oltre. Se aveva osato sposare quel ragazzo di nascosto, significava che era davvero disposta a correre qualsiasi rischio, pur di tenerselo accanto.
 “Questo è quel che conta.” ebbe lo spirito di dire Lucrezia, con la gola un po' secca.
 “E tu, con Gian Piero? Siete sempre felici, assieme?” chiese Caterina, tanto per sviare un po' l'attenzione da sé.
 “Sì, come sempre.” assicurò Lucrezia, che da quando era a Imola riusciva ad apprezzare ancora di più la calma e la sicurezza che le dava il suo matrimonio con Gian Piero.
 “Come si possono amare due uomini in una sola vita?” chiese Caterina, senza pensarci.
 Lucrezia restò colpita da un simile quesito, ma rispose, con una certa leggerezza: “Credimi, figlia mia, una vita basta, per amare due uomini, anche molto diversi l'uno dall'altro.”

   
 
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