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Autore: Adeia Di Elferas    11/06/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ La carovana ferrarese era partita dal palazzo degli Este il 29 dicembre dell'anno precedente e era riuscita a raggiungere Pavia solo il 16 gennaio.
 All'idea iniziale di usare dei bucintori per arrivare a destinazione sfruttando il Po, si era preferito l'uso delle lilze. Il fiume gelato in pressoché tutta la sua lunghezza era stato solo il primo degli inconvenienti di quel viaggio.
 Il carico di vettovaglie era rimasto troppo indietro, rispetto al corteo di oltre seicento persone, di scorta a Beatrice Este, e rifocillarsi era stato uno dei problemi maggiori, assieme alle notti, trascorse dormendo pochissimo e malissimo attanagliati dal freddo e dal vento gelido che soffiava indifferente fino all'alba.
 Mentre i ferraresi erano impegnati in quell'apocalittica traversata, anche presso la corte di Milano si erano affrontati molti imprevisti. Il primo scoglio fu l'aver deciso che solo Anna Maria avrebbe avuto un matrimonio a Milano, mentre Ludovico si sarebbe sposato a Pavia, ed essersi comunque assicurati la benevolenza di Eleonora d'Aragona, futura suocera, a cui bastava andare a Milano, poco importava per quale dei figli.
 Quella doppia ubicazione avrebbe sì portato una netta riduzione dei costi per il Ducato, ma avrebbe anche fatto in modo che il Duca Gian Galeazzo non potesse presenziare alle nozze dello zio, rimanendo a Milano a 'presiedere il fortino'.
 “Assieme a quella gran cagna della Gallerani!” si era lamentata sonoramente Isabella: “Che si crede l'unica donna in grado di aver figli su questa terra!”
 Isabella d'Aragona, praticamente al termine della gravidanza, non aveva apprezzato il viaggio, breve, ma difficile, da Pavia a Milano e, per quanto fosse attratta dalla corte ducale, avrebbe preferito traferirvisi in un momento meno concitato.
 Poi c'era stata la questione della festa che sarebbe seguita al matrimonio di Alfonso e Anna Maria. Il Moro aveva organizzato una giostra. Gian Galeazzo gli aveva chiesto il permesso di partecipare, ma tanto Isabella, quando Ludovico glielo avevano impedito, ricordandoli quanto fosse negato in quel genere di attività.
 Allora il Duca si propose per bagordare prima dell'inizio del torneo, ma il Moro si fece categorico e, per puro capriccio, gli disse che quella era una giostra: “Non un insulso torneo!”
 Isabella aveva spinto il marito a insistere. In fondo non sarebbe stato rischioso, per lui, scendere in campo assieme ad altri cavalieri, in una sorta di simulazione a squadre. Ma come sempre accadeva, Gian Galeazzo aveva scosso le spalle e si era adeguato al volere di suo zio.
 Così i Duchi erano rimasti a Milano e Ludovico era partito con il suo seguito per Pavia, in modo da accogliere per primo la sua sposa e celebrare in fretta il matrimonio.
 Beatrice Este aveva sonno, fame e freddo. Scese a fatica dal bucintoro – perché almeno per gli ultimi metri si era riusciti a usare quelle malmesse barchette – che la portava e per qualche secondo si sentì malferma sulle piccole gambe.
  Tutti quelli che la stavano guardando, pensarono che era graziosa, ma nulla di più. Aveva un aspetto molto infantile e il suo sguardo indagava con anche troppa curiosità la città in cui era appena arrivata.
 L'unico che pareva sinceramente rapito da quella visione era proprio Ludovico Sforza, che, in attesa sulla porta che dava sul Ticino, era rimasto senza parole, gli occhi spalancati e le mani strette al petto, come colto da una rivelazione mistica.

 “Pensateci attentamente, mia signora...” cominciò a dire il portavoce degli Anziani: “Non possiamo accollarci nuove tasse, non adesso... I raccolti sono stati scarsi e lo saranno sempre di più.”
 Caterina ascoltava con una noia sempre crescente le lamentele di quell'uomo che, nell'andare a pregarla di ripensare alla reintroduzione di alcuni dazi, proposta il giorno prima, aveva abbandonato tutta la sua sicumera in favore di un atteggiamento remissivo e ossequioso.
 “Che proponete, dunque?” chiese la Contessa, raddrizzandosi sulla schiena, mentre il suo fiato disegnava una piccola ragnatela di vapore in aria.
 Il palazzo era estremamente freddo e riscaldare anche solo la sala del Consiglio sembrava un'impresa impossibile. La neve che aveva continuato a cadere anche in quei primi giorni del 1491 stava riducendo Forlì e dintorni un cumulo di ghiaccio impossibile da debellare.
 Caterina comprendeva bene le ragioni degli Anziani e di tutti gli altri rappresentanti della cittadinanza, tuttavia che altro poteva fare? Mancavano i soldi per mandare avanti la macchina dello Stato e per mantenere in buone condizioni le strutture cittadine, messe a dura prova degli inverni sempre più rigidi.
 Avrebbe volentieri usato i suoi soldi, ma i buchi in bilancio che le aveva lasciato il suo primo marito erano incolmabili. A conti fatti, aveva sì e no il danaro necessario per mantenere la propria famiglia.
 Suo zio Ludovico, forse, le avrebbe accordato un prestito vantaggioso, ma Caterina sapeva che l'esoso matrimonio di Anna Maria – e lo svantaggioso accordo con gli Este per la mano di Beatrice – aveva messo in difficoltà pure il Moro.
 Chiedere soldi al Cardinale Sansoni Riario, poi, era del tutto fuori questione.
 Dunque, che altro poteva fare, se non provare a reintrodurre qualche piccola tassa, cercando così di tamponare almeno gli ammanchi più urgenti?
 “La nostra proposta sarebbe quella di imporre una tassa di pedaggio agli stranieri.” si affrettò a dire l'Anziano: “Uno a Bagnolo e uno sulla via Emilia, in modo da far pagare più gente possibile. Due rastelli sopra al fiume Ronco, e parte dei nostri problemi cesserà.”
 Caterina aveva preso in considerazione l'idea di mettere un pedaggio, come i faentini facevano da tempo, ma aveva sempre temuto delle ripercussioni sul commercio.
 I mercanti dei paesi vicini avrebbero cominciato a evitare Forlì, nel caso in cui ci fosse stato da pagare un pedaggio?
 “Ci penserò.” concluse la Contessa, facendo intendere all'Anziano che l'udienza era conclusa.
 Aveva fretta di tornare alla rocca, dove l'attendevano i suoi figli e Giacomo. Negli ultimi giorni, dopo la ripartenza di Lucrezia alla volta di Imola, i suoi bambini si erano fatti estremamente pacifici, tanto che in un primo momento Caterina aveva temuto che stessero macchinando qualcosa.
 Quando però i giorni erano passati e i piccoli non avevano combinato nessun guaio, si era rasserenata e aveva ripreso a passare del tempo con loro, raccontando storie e leggendo libri.
 Moriva dalla voglia di andarsene a caccia, ma quelle nevicate non le avrebbero permesso una battuta soddisfacente. Si consolava stando con Giacomo il più possibile, alternando momenti di coccole al loro piccolo Bernardino e momenti di passione, che si era riaccesa con ancor maggior ardore, da quando erano diventati genitori.
 Non le pesava fare la gran parte del lavoro che sarebbe spettato a suo marito. Lui faticava troppo coi numeri e lettere, così si limitava a darsi da fare con gli aspetti più pratici del mestiere di castellano, per quanto a volte i soldati si dimostrassero un po' insubordinati con lui. Per fortuna, bastava una breve apparizione di Caterina negli alloggi della truppa, per fargli riacquistare tutta la sua autorità.
 
 Il 17 gennaio, a Pavia, Ludovico Sforza firmò, finalmente, il registro dotale con cui formalmente gli venivano accordati quarantamila ducati come dote della moglie Beatrice.
 Il Moro appose il suo nome con molta soddisfazione, sorvolando su come quei quarantamila ducati sarebbero prontamente tornati nelle tasche degli Este nel momento in cui Alfonso avesse sposato Anna Maria.
 Per tutto il giorno, come era accaduto il giorno precedente, Beatrice era rimasta con la madre Eleonora, per ambientarsi nel castello e per riposarsi dopo il lungo e devastante viaggio.
 Così Ludovico, per sfuggire al tedio dell'attesa del ritorno a Milano, aveva preteso la compagnia di Alfonso, con il quale aveva giocato a palla e poi era andato a caccia.
 “Ha ucciso quattro cervi con la scimitarra...” aveva raccontato, a sera, il Moro a uno dei suoi servi, con ammirazione: “Sarà giovane, ma sa il fatto suo. In confronto, io sono proprio negato...”
 Il giorno dopo ancora, il vescovo di Milano era arrivato in città per celebrare ufficialmente le nozze tra il Moro e Beatrice Este.
 La cerimonia in forma strettamente privata indignò un po' Eleonora, che, però, riuscì a consolarsi pensando che a breve avrebbe assistito alle nozze del figlio a Milano e che allora lo sposalizio sarebbe stato davvero fantastico.
 Ludovico, come da tradizione, consegnò i suoi doni alla sposa appena terminate le formalità. Oltre a costosissimi gioielli e suppellettili, il Moro l'aveva omaggiata anche con una schiera di servi e serve nettamente più numerosa di quella che aveva a disposizione la legittima Duchessa.
 Beatrice gongolava davanti a tanta munificenza e si faceva convinta, ora dopo ora, di essere la più fortunata di tutte le spose.
 L'unica nota dolente, per la novella sposa, era la presenza della sorella, Isabella Este, che il Moro aveva voluto a tutti i costi invitare alla cerimonia. Era atteso anche il marito della suddetta, Francesco Gonzaga, ma per il momento non lo si era ancora visto.
 Beatrice, pur convinta della predilezione di Ludovico per lei, aveva notato con irritazione come l'uomo fosse rimasto colpito dalla bellezza di Isabella e come parlasse con lei in modo piacevole, continuando a sorriderle benevolo.
 L'unica cosa che risollevava lo spirito di Beatrice era sapere che presto sua sorella Isabella se ne sarebbe tornata dal marito, lasciandola in pace una volta per tutte. Certo, nel milanese sarebbe rimasta l'altra Isabella, l'Aragona. Ah, che condanna! Perché mai doveva sempre esserci un'Isabella a rovinarle le giornate?!
 
 Caterina aveva alla fine deciso di permettere l'istituzione di due posti di blocco dove far pagare un pedaggio agli stranieri. Aveva anche tenuti buoni i due punti indicati dall'Anziano e, dopo aver fatto qualche conto, aveva compreso che quella mossa sarebbe stata vantaggiosa.
 Stabilì che tutti i ricavati di quelle tasse venissero usati solo ed esclusivamente per il mantenimento della città, perché se avesse sfruttato in altro modo quei fondi – per esempio cominciando a sanare il debito che aveva nei confronti di suo zio – di certo avrebbe dovuto ugualmente reintrodurre dei balzelli e così tutta quella mossa sarebbe stata inutile, se non addirittura dannosa per la sua immagine.
 Stava attraversando un periodo abbastanza tranquillo, in parte grazie ai presunti miracoli dell'anno appena conclusosi, in parte per un'oggettiva ripresa economica, flebile per via delle difficoltà dei contadini, ma presente e costante. Forse, dopo un primo momento di difficoltà, finalmente il suo regno stava cominciando a mettersi in carreggiata.
 La tranquillità così acquisita le rese possibile cominciare a pensare più in grande. Voleva cominciare a delegare un po', benché fosse sempre stata contraria ai potenti che si mettevano nelle retrovie. Il motivo era semplice: desiderava più di ogni altra cosa godersi anche il calore familiare che da troppi anni era mancato nella sua vita.
 Per quanto fosse sempre difficile conciliare la presenza simultanea dei suoi vecchi figli e di quello nuovo, Caterina stava raggiungendo un buon equilibrio, dividendosi più o meno equamente tra le due parti, cercando pure, di tanto in tanto, di farle incontrare a metà strada.
 Giacomo, in qualità di castellano, aveva cominciato a condividere con Caterina e coi suoi figli più grandi la tavola e alcuni momenti di svago. A volte Ottaviano lo pungolava con frasi spiacevoli o strane allusioni, ma, con un piccolo aiuto della Contessa, Giacomo riusciva a uscirne sempre con una certa eleganza e senza mai prendere troppo di petto il ragazzino.
 Insomma, delegare era la strada più semplice per trovare un po' più di tempo per lavorare alla sua situazione privata. Dopo tutto, si diceva, moltissimi signori lasciavano le incombenze più pratiche a segretari e cancellieri. Lei aveva un cancelliere, Giovanni Cardella, eppure non lo consultava praticamente mai. Quell'uomo era pagato per un ufficio che non svolgeva.
 Così, come prima prova, Caterina decise di affidare proprio al suo cancelliere l'incarico di andare in Consiglio a proporre ai rappresentanti cittadini un nuovo progetto. Si trattava di un'idea innovativa e potenzialmente geniale: un quartiere per i soldati.

 Come da accordi, Ludovico aveva anticipato di qualche ora il corteo dei ferraresi alla volta di Milano.
 Scortato solo dal seguito degli sforzeschi, il Moro aveva formalmente incontrato i Duchi Gian Galeazzo e Isabella davanti al pubblico e subito dopo aveva cominciato a predisporre per l'arrivo in città della sua sposa.
 Isabella d'Aragona non aveva perso occasione per chiedere: “Vostra moglie, la Duchessa di Bari – che era il titolo acquisito di diritto da Beatrice grazie a quel matrimonio – come ha preso il fatto che madama Gallerani sia ancora a Milano e sia in dolce attesa?”
 Il Moro, ormai avvezzo ai modi sgradevoli della Duchessa di Milano, aveva finto di non sentire e, con buona pace di tutti, si era rituffato nei preparativi.
 Quel 21 gennaio era attanagliato dal gelo più profondo, tanto che ogni cosa attorno alle folla festante era coperta di ghiaccio. Non bastavano le vesti spesse e a più strati indossate dai ricchi milanesi per tenere lontani i brividi e anche il Moro non poteva evitare, di quando in quando, di scuotersi per cercare di scaldarsi un po'.
 Quando Bartolomeo Calco lo intercettò, mentre il Moro era sulla via della basilica di Sant'Eustorgio, dove ci sarebbe stato l'incontro ufficiale tra Alfonso e Anna Maria, per prima cosa gli chiese come fosse Beatrice Este.
 “Una giovane davvero molto interessante.” fece subito Ludovico, davvero, molto, molto interessante.”
 Calco lo guardò un momento, prima di porgli una domanda che lo incuriosiva parecchio, vista la differenza d'età che correva tra i due, ma il reggente del Duca ne intercettò lo sguardo e comprese cosa stesse per chiedergli, così lo anticipò: “Abbiamo condiviso la camera, la notte, ma non abbiamo ancora consumato il matrimonio. È ovvio che le ha ancora paura...” Ludovico assunse un'espressione da professionista nello spiegare: “Con Beatrice voglio fare le cose per bene, Calco. Secondo me i figli nati dall'amore sono diversi da quelli nati dalla violenza o dal mero adempimento di un dovere. Non mi interessa se gli altri non la penseranno così. Beatrice avrà i miei legittimi eredi e dunque dovremo aspettare che lei mi desideri quanto io la desidero, perché io non voglio eredi scarsi.”
 Calco, abbastanza colpito da quell'affermazione, stava per ribattere, dicendo che però così rischiava di mettere a rischio l'alleanza con gli Este, così come mesi prima aveva rischiato di farlo Gian Galeazzo con gli Aragona.
 Anche questa volta il Moro fu abbastanza intuitivo da parlare prima del necessario: “Io e mia moglie siamo già d'accordo su questo punto e abbiamo fatto credere a quel caprone di Trotti che sia già tutto in regola.”
 Bartolomeo Calco alzò le sopracciglia: “Vedo dunque che andate già molto d'accordo.”
 Ludovico annuì, mentre si strofinava le mani guantate per far fronte al freddo: “Potete ben dirlo, Calco. Lei è nata per essere Duchessa di Milano.”
 Il cancelliere avrebbe voluto ricordare al Moro che la Duchessa di Milano era Isabella d'Aragona, ma sapeva che sarebbe stato del tutto inutile, perché per il suo signore quello era solo un insignificante dettaglio.
 
 Dopo un'attesa abbastanza lunga, era infine giunto a Forlì l'incartamento mandato da Ludovico il Moro con cui si dava l'autorità all'ambasciatore Battista Sfrondati di insignire il castellano di Ravaldino, Giacomo Feo, del titolo cavalleresco.
 “Come mai mio zio vorrebbe far diventare cavaliere il castellano di Ravaldino?” chiese circospetta Caterina, che aveva incontrato Sfrondati fuori dalla rocca.
 Il milanese sorrise pacato: “Perché è rimasto molto colpito dalle doti del castellano Feo e crede che sarebbe meglio per tutti, se messer Giacomo avesse un titolo cavalleresco.”
 La Contessa sapeva di non poter rifiutare, tuttavia quell'improvvisa benevolenza di suo zio nei confronti di un uomo che fino a poco prima aveva cercato di allontanare da lei con velate minacce e ordini mascherati da consigli, la insospettiva.
 “La cerimonia, se siete d'accordo, si potrebbe tenere domani nella rocca di Ravaldino.” propose Sfrondati.
 “Come preferite.” accettò Caterina.
 “Penserete voi ad avvisare il castellano?” chiese Sfrondati, mettendosi le scartoffie sotto al braccio, per ripararle dalla neve che scendeva sottile dal cielo.
 La Contessa annuì e concluse: “Se scriverete a mio zio, ditegli pure che lo ringrazio per questo gesto.”
 Sfrondati abbozzò un inchino: “Lo farò di certo.”

   
 
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