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Autore: Kary91    11/06/2016    6 recensioni
[Mini-Long di 3 capitoli | Pre-Saga | child!Alec/child!Jace (il loro primo incontro) | Introspettivo]
Si fissarono in silenzio.
L’espressione di Jonathan brillava di arroganza, ma c’era qualcosa nel suo aspetto – nella sua magrezza, in quegli occhi grandi da bambino – che lo rendeva insolitamente vulnerabile agli occhi di Alec.
La solitudine gli sporcava la pelle come un’impronta: come la marmellata sulle mani di Max quando pasticciava con la merenda, come i baffi di mascara sulla faccia di Izzy quando giocava a truccarsi di nascosto.
“Forse hai ragione” ammise Alec con un’onestà che colse Jonathan di sorpresa.
“Forse sei davvero più bravo di me. Ma credi che questo cambi qualcosa? Possiamo batterci e tu potresti vincere ma anche se riuscissi ad andartene ti ritroverò. Ti ritroveremo e ti riporteremo a casa.”
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Max Lightwood, Robert Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A thousand times over;'
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“I remember when I asked if you wanted to be parabatai. [… ] When I asked you why you agreed to do it, you said it was because I needed someone to look after me. You were right. I never thought about it again, because I never had to. I had you, and you’ve always looked after me. Always.”

City of Heavenly Fire. Cassandra Clare

 

 

L’Istituto di notte appariva quasi sinistro, con tutte quelle guglie e le ombre che si allungavano sulle pareti.

Jonathan percorse il corridoio di corsa, cercando di non fare troppo rumore.

Aveva scelto di portarsi dietro solo poche cose: lo stilo, ovviamente. La sua stregaluce. Qualche arma, un po’ di provviste e il soldatino Shadowhunter che suo padre gli aveva regalato quando aveva compiuto cinque anni.

Non sapeva dove fosse diretto. In fondo non era nemmeno certo del perché stesse cercando di scappare: a mente fredda si rendeva conto di non poter andare troppo lontano. Non che gli importasse di venir preso: se scappava era solo per convincere il Conclave che l’Istituto in cui l’avevano messo non faceva per lui.

Continuò a correre, superando l’ascensore per fiondarsi sulle scale. Un movimento improvviso lo fece scattare all’indietro: un paio di occhi gialli luccicarono nel buio, fissandolo con aria di superiorità.

Jonathan riconobbe a stento il gatto dell’Istituto, un persiano dalla faccia schiacciata e l’aria antipatica.

Il felino miagolò nel buio, appostandosi al centro della scalinata.

“Taci” borbottò a denti stretti il ragazzino, dandogli un colpetto con il tallone.

Church sembrò arrabbiarsi parecchio: in pochi istanti passò dal soffiargli contro riottoso all’azzannargli furibondo la caviglia.

Jonathan, che si era tolto le scarpe per fare meno rumore, imprecò a denti stretti. Dolorante, agitò la gamba per allontanare l’animale e riprese a correre, ormai sicuro di aver svegliato buona parte dell’Istituto.

Per questo non si stupì quando un rumore di passi incominciò a tallonarlo.

“Jonathan!”

La voce di Alec era contesa fra i toni acuti dell’infanzia e quelli più gravi dell’adolescenza. Jonathan si sforzò di ignorarlo, accelerando il passo: Alec era l’ultima persona che aveva voglia di vedere in quel momento. Era L’unico che – lo sapeva – avrebbe potuto metterlo in difficoltà se fosse riuscito a raggiungerlo. Lo conosceva da appena un giorno, eppure gli era stato chiaro fin da subito che in lui c’era qualcosa di tremendamente discordante rispetto al modo in cui era stato cresciuto.

 

Alec aveva un cuore puro, una qualità che suo padre aveva sempre disprezzato. Era il genere di persona a cui non potevi fare a meno di affezionarti. E lui non aveva affatto intenzione di perdere tempo a farselo amico, a indebolirsi per colpa sua e dei suoi familiari. Non si sarebbe lasciato abbindolare dalla gentilezza dei Lightwood, dalle premure di Maryse e Robert, dalla vitalità di Izzy o dalla tenerezza di Max.

Ricordava ancora bene il giorno in cui suo padre aveva ucciso il falco di cui si era preso cura da piccolo, trasformandolo nell’unico amico che avesse mai avuto: amare significava distruggere. Ed essere amati significava essere distrutti.

Qualcosa gli rovinò addosso dall’alto, scaraventandolo a terra.

Jonathan gemette mentre il dolore gli immobilizzava un ginocchio.

Riuscì comunque ad alzarsi in piedi e, al suo fianco, qualcuno cercò di fare altrettanto: Alec doveva essersi gettato addosso a lui dalla rampa di scale precedente e adesso ansimava al suo fianco, tastandosi le costole con gli occhi strizzati per il dolore.

“Che stai facendo?” domandò a mezza voce, aggrappandosi alla ringhiera per alzarsi in piedi.

Jonathan gli rivolse un’occhiata impressionata.

“Però…” commentò, massaggiandosi il ginocchio ferito. “… Ti avevo sottovalutato, lo ammetto.”

“Dove stavi andando?” lo interrogò ancora Alec, sistemandosi di fronte a lui per bloccargli il passaggio.

Jonathan lo squadrò per qualche istante, prima di rispondergli.

“A cercare un portale: me ne torno a Idris.”

“Ma sei scemo?”

Alec sembrò sul punto di dargli uno spintone.

Jonathan sostenne deciso il suo sguardo, sforzandosi di ignorare la delusione nei suoi occhi.

Era quello, che aveva voluto evitare.

Era quello il motivo per cui aveva cercato di allontanarsi di notte, senza curarsi di raccontare a qualcuno ciò che gli passava per la testa.

Non aveva voluto rischiare di sentirsi addosso gli sguardi feriti dei Lightwood, il loro dispiacere. Non voleva che si sentissero in colpa, che credessero di aver sbagliato qualcosa nel modo in cui l’avevano accolto.

Non sapeva come spiegare che non era colpa loro se voleva andarsene: era lui a sentirsi dentro qualcosa di sbagliato, come una spada senza l’elsa. Ora che suo padre era morto, nessuno avrebbe potuto più impugnarlo, o maneggiarlo senza ferirsi.

I Lightwood erano una bella famiglia, ma non erano la sua, di famiglia. Non poteva lasciare che lo amassero: l'avrebbero distrutto o lui avrebbe distrutto loro.

Avrebbe fatto del male ad Alec, proprio come, un tempo, era successo con il suo falco.

“Voglio trasferirmi in un altro Istituto” dichiarò secco, lo sguardo fisso in quello dell’altro bambino. “Voglio qualcuno disposto ad allenarmi a ogni ora del giorno, non una famiglia.”

“Non dire stupidaggini” ribatté Alec, scrutandolo come se fosse pazzo.  “Sei solo un ragazzino.”

“So badare a me stesso da quando avevo sei anni” replicò Jonathan, lo sguardo bruciante di sfida. “Non ho bisogno di una famiglia: non ho bisogno di nessuno.” 

“Tutti hanno bisogno di qualcuno” lo contraddisse Alec, azzardando un passo verso di lui. “Specialmente a dieci anni.”

Jonathan agitò una mano, come se stesse scacciando una mosca fastidiosa.

“Spostati, Alec” ordinò, scuotendo la testa. “Lasciami andare o battiti con me: ci siamo allenati tutto il pomeriggio, ti ho osservato, e so che non sei nemmeno lontanamente al mio livello.”

“Forse hai ragione” ammise Alec con un’onestà che colse il coetaneo di sorpresa. “Forse sei davvero più bravo di me. Ma  credi che questo cambi qualcosa? Possiamo batterci e tu potresti vincere ma anche se riuscissi ad andartene  ti ritroverò. Ti ritroveremo  e ti riporteremo a casa.”

 

Le parole di Alec gli rovinarono addosso con la violenza di uno schiaffo.

Jonathan arretrò, colpito dall’ostinazione del suo tono di voce, dalla sicurezza che emanava il suo sguardo.

La voce fredda e decisa di suo padre gli rimbombò nella mente, simile ad un disco rotto.

“Ti avevo detto di insegnarli a obbedire”, disse suo padre gettando a terra il corpo senza vita. “Tu invece gli hai insegnato ad amarti. I falchi non devono essere cuccioli affettuosi: sono animali feroci e selvaggi, aggressivi e crudeli. Questo uccello non è stato addestrato, è stato rovinato.”[1]

Era trascorso un solo giorno, si disse, un insolito tremore a percorrergli gli arti. Un giorno solo. Per addestrare il falco gli ci erano volute delle settimane. Come mai Alec gli parlava come se gl’importasse di lui? Non sapeva che affezionarsi a qualcuno era sintomo di debolezza, che non bisognava lasciarsi addomesticare?

Eppure, Alec un padre ce l’aveva. Possibile che Robert non gli avesse insegnato nulla?

“Perché?” si limitò a domandare, la sicurezza del suo sguardo portata via dallo smarrimento. “Perché t’importa così tanto se resto o meno?”

Alec gli rivolse un’occhiata altrettanto confusa.

“Perché sei solo un bambino” rispose, con lo stesso tono che avrebbe usato  lui se qualcuno gli avesse chiesto come mai le spade pungono. “E perché è questo che fa una famiglia. So che è strano da pensare: nemmeno io mi sono ancora abituato a questa cosa e credo che mi ci vorrà del tempo. Ma da oggi sono tuo fratello maggiore: sono responsabile per te. Se stare con noi non ti piace ne possiamo parlare, ma scappare così non ha senso.”

Jonathan scosse la testa, la mano in tasca che giocherellava di nascosto con il soldatino.

“Qui mi piace” si sorprese ad ammettere, appoggiandosi alla ringhiera. “Voi mi piacete… È solo che non so come si fa a far parte di una famiglia così grande. Prima di venire qui non ho mai avuto così tanta gente intorno …” aggiunse, abbandonandosi su un gradino. “…C’eravamo solo io e mio padre. E con lui stavo bene, però… Era diverso, qui è tutto diverso. Io non sono come voi: come te e Izzy, come Max. Sono cresciuto facendo cose diverse… Mio padre mi ha insegnato cose diverse, io…”

S’interruppe, non sapendo come proseguire. Incrociò lo sguardo di Alec, che ricambiò con fare meditabondo. C’era qualcosa in quegli occhi così azzurri che non aveva mai incontrato in nessun altro sguardo, ma non riusciva a capire cosa fosse.

Il suo non era lo sguardo fiducioso del falco e nemmeno quello colpevole di Robert o l’espressione compassionevole di Maryse. Alec non lo squadrava con aria di sfida come Izzy e nemmeno lo guardava come un tempo aveva fatto suo padre, con gli occhi perennemente contesi fra l’affetto e la delusione.

Alec lo guardava come si guarda qualcosa che va protetto e custodito, ma anche lasciato libero. Lo guardava come se sentisse di doversene prendere cura. Non c’era debolezza nel modo in cui lo fissava, anzi: sembrava più determinato che mai.

“Vieni qui” mormorò Alec, allungando la mano per aiutarlo ad alzarsi.

Jonathan acconsentì, ma ignorò il suo braccio teso.

“Chiudi gli occhi”ordinò ancora il maggiore dei due. “Dimentica quello che vedi. Che cosa senti?”

Il minore dei due eseguì: era un esperimento, quello, che gli era capitato di provare tante volte alla tenuta dei Wayland. Gli piaceva concentrarsi sui rumori, imparare ad affinare l’udito in maniera da non dover fare troppo affidamento sulla vista.

Udì il fruscio della sua maglietta mentre lasciava scivolare il braccio lungo il fianco.

Le lancette di un orologio da qualche parte e i movimenti cauti di Church, che si era acquattato in fondo alle scale.

E più in evidenza, ben marcati rispetto agli altri rumori, avvertiva i propri battiti, rapidi e regolari contro il petto.

“Sento il mio cuore” rivelò, senza aprire gli occhi.

“E adesso?” Lo interrogò ancora Alec, afferrandogli il polso.

Jonathan lottò con l’impulso di reagire, temendo di essere cascato in qualche trappola. Si rilassò, quando capì che Alec gli aveva semplicemente posato la mano sul proprio petto.

“Adesso cosa senti?”

“Il tuo cuore[2]” mormorò ancora Jonathan, riaprendo gli occhi: era vero.

I battiti di Alec erano rapidi quanto i suoi, anche se vagamente più sfasati.

Il ragazzino lo lasciò andare. Un sorriso gli arricciò le labbra e per un attimo a Jonathan sembrò quasi più piccolo di Izzy.

“Visto?” esclamò a quel punto Alec, facendo un passo indietro. “Non siamo poi così diversi, Jace. Non ci hanno insegnato le stesse cose, ma funzioniamo allo stesso modo. Togliti dalla testa l’idea di essere un randagio” aggiunse, scuotendo la testa. “Sei uno di noi, adesso. I Lightwood si prenderanno cura di te, che tu lo voglia o no.”

 

Jonathan distolse lo sguardo, gli occhi ombreggiati da un nugolo di pensieri. Non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine del falco morto -  il suo collo spezzato, il corpo abbandonato ai suoi piedi. Adesso, però, c’era qualcos’altro a echeggiare nella sua mente, talmente vivido da oscurare almeno in parte quei ricordi: il battito del cuore di entrambi, la serietà improvvisa nel tono di voce di Alec. Il modo in cui l’aveva chiamato poco prima.

“Jace?” ripeté, inclinando il capo.

Alec arrossì.

“Prima ho sentito mia madre che ti chiamava così: non volevo spiarvi, ma abbiamo le stanze vicine e si sente tutto. Le hai detto che il tuo nome completo è…”

“… Jonathan Christopher” proseguì per lui il più piccolo, annuendo. “J.C. Jace.

“Credo che suoni bene…” commentò Alec, stringendosi nelle spalle. “… Ma se non ti piace possiamo tornare a chiamarti Jonathan.”

Jace lasciò che il nomignolo gli accarezzasse la mente fino a quando il ricordo del falco non divenne solo più un fastidioso alone sullo sfondo.

“Mi piace, invece”  ammise  con un sorriso compiaciuto. “Fa figo.”

Anche Alec sorrise. Fece per posargli una mano sulla spalla, ma la ritrasse quando sentì qualcosa di liquido e appiccicoso sulle dita.

“Altro sangue?” sbottò, esaminandogli un graffio . “Possibile che tu riesca sempre a farti male?”

“Guarda che sei stato tu a buttarti giù dalle scale per saltarmi addosso” gli ricordò Jace, inarcando un sopracciglio.

Alec lo ignorò.

“Vieni, andiamo a cercare qualcosa per medicarti…” mormorò poi, tirandolo per il polso.

Jace non si mosse: i suoi occhi balenarono nel buio.

“Perché invece non provi a farmi un iratze?”

Alec lo guardò storto, una punta di apprensione a contrargli i lineamenti.

“Sei troppo giovane per i marchi.”

“Ma il tuo non sarebbe il primo” s’impuntò Jace, estraendo lo stilo dalla tasca. “Provaci, che ti costa? Dici che vuoi prenderti cura di me…”

La scintilla di arroganza nello sguardo del ragazzino vacillò, minata da una punta di insicurezza.

“… Dimostramelo.”

Alec sbuffò. Per qualche istante rimase immobile, fissando esitante lo stilo.

“Incosciente” mormorò infine, sfilandoglielo di mano.

Jace sorrise; tirò un lembo della maglietta e scoprì la pelle ferita della spalla.

Alec vi appoggiò contro la punta dello stilo e incominciò a disegnare, lo sguardo concentrato e i denti affondati nel labbro inferiore.

Una volta terminata la runa fece un passo indietro e i due ragazzini fissarono in silenzio la porzione di pelle marchiata, illuminata dalla stregaluce.

Jace avvertì una strana pressione all’altezza della spalla e un calore improvviso sottopelle. Poi più nulla.

“Male?” domandò esitante Alec, non riuscendo a decifrare la sua espressione.

Jace gli sorrise: il suo fu un sorriso genuino, da bambino, privo della sfumatura ironica che lo caratterizzava di solito.

“Neanche un po’” rivelò, dandogli un colpetto complice sulla spalla.

Anche Alec sorrise. Chinò lo sguardo per esaminare la pelle di Jace e l’orgoglio illuminò i suoi occhi chiari: la ferita era completamente guarita.

 

*

 

Erano quasi le quattro del mattino, quando Alec uscì dalla sua stanza per andare a controllare Jace.

I piedi nudi scivolavano morbidi sul pavimento, non più rumorosi delle zampe di Church.

Bussò alla porta della camera a fianco e, quando non ottenne risposta, s’intrufolò dentro.

L’apprensione gli pungolò il petto, ricordandogli le tante volte in cui, quando Max era solo un neonato, si era infilato nella nursery  nel cuore della notte per controllare che stesse bene.

La finestra di Jace era aperta e la luce rischiarava a sprazzi la cameretta.

Il sollievo rilassò i muscoli di Alec, quando il suo sguardo individuò il volto addormentato del giovane Wayland: per un attimo aveva temuto che fosse scappato un’altra volta.

Si avvicinò al letto, evitando gli scatoloni che lo attorniavano. Jace dormiva supino, ancora completamente vestito, una mano sulla pancia e l’altra chiusa a pugno attorno a qualcosa: un soldatino.

Alec rimase a fissarlo per qualche minuto, qualcosa di incredibilmente simile alla tristezza a pervadergli il petto.

Era così diverso, rispetto a quando era sveglio: sembrava più piccolo, più vulnerabile.

E anche incredibilmente solo.

Il suo sguardo passò in rassegna le sue palpebre frementi, la corporatura magra, i lividi che gli macchiavano la pelle.

Ogni dettaglio di quel bambino – di suo fratello, si corresse – sembrava sussurrargli qualcosa, qualcosa di talmente evidente che lo sorprendeva il fatto di essere l’unico a sentirlo: amami, diceva Jonathan – Jace – , con i suoi sorrisi obliqui e l’aria di chi è convinto di non aver bisogno di nessuno.

Amami. Perché nessuno l’ha mai fatto.

Così, da quella sera, Alec lo fece.

 

“But to me everything about him said: «love me, because nobody ever has». It was all over him, like fingerprints.

Alec talking about young Jace. Cassandra Clare;

 

 



[1] Riferimento a un passaggio di “Città di Ossa”, dove Jace racconta a Clary del falco.

[2] Tutto questo passaggio è un  riferimento a una scena del film “Tarzan”: "Chiudi gli occhi, dimentica quello che vedi...che cosa senti?” “Il mio cuore” “Vieni qui” “Il tuo cuore” “Visto? Siamo identici”.

   
 
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