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Autore: Adeia Di Elferas    12/06/2016    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Giacomo Feo stava ritto in piedi di fronte a centinaia di occhi che lo fissavano con curiosità e aspettativa.
 Quel 23 gennaio non nevicava più, ma il cortile della rocca, per quanto abbellito da addobbi e decorazioni posizionati ad arte per l'occasione, era algido e desolato, perfetta immagine di quello sconfinato inverno.
 Dalla folla si alzavano grandi nuvole di vapore e in molti si agitavano sui due piedi nella speranza di scrollarsi di dosso un po' di quel freddo che arrivava fino alle ossa.
 Oltre agli abitanti della rocca – tra cui in primis c'erano Caterina e i suoi figli al completo, eccetto Bernardino – erano presenti tutti i notabili della città e i rappresentati delle famiglie più in vista di Forlì.
 Uno dei gentiluomini diede inizio alla cerimonia, cingendola la spada e calzando gli speroni a Giacomo.
 Dopodiché fu il turno di Luffo Numai, che gli pose sulle spalle la Veste dell'Ordine. Dopo qualche secondo di pausa, per sottolineare la solennità del momento, Numai infilò al collo del castellano anche la collana di rito e poi si prese un istante per guardarlo negli occhi.
 Giacomo non ricambiò lo sguardo, però, perché era troppo intento a fissare il pubblico. Luffo trovò che gli occhi di quel giovane tradissero un'irrequietezza eccessiva, ma poi si ricordò che messer Feo aveva vent'anni scarsi e che quell'esaltazione era legittimata pienamente dalla sua età.
 Infine fu il turno di Sfrondati che, in quanto ambasciatore del Moro, che era il responsabile diretto di quella carica cavalleresca, avrebbe dovuto dare la cosiddetta guanciata al nuovo cavaliere.
 Battista Sfrondati si posizionò proprio davanti al castellano. Era più basso di lui e la differenza d'età lo vedeva sconfitto sotto tutti i punti di vista.
 Giacomo lo guardò con un sottile velo di sfida in volto e Sfrondati si sentì terribilmente messo in ridicolo da quel giovane uomo che era un tripudio di forza e bellezza.
 Con grandissima soddisfazione, l'ambasciatore milanese diede lo schiaffo di rito al nuovo cavaliere e lo fece con molta più forza del necessario, tanto per mettere a frutto quell'irripetibile occasione.
 Giacomo, che in tutta sincerità non aveva idea di quanto forte dovesse essere la guanciata, pensò che Sfrondati avesse seguito le regole e basta e non la prese sul personale.
 Con la guancia ancora dolente per il colpo, Giacomo si mise bello dritto, il mento alto, ad ascoltare le parole che lo facevano rinascere cavaliere.
 Tutti lo guardavano ammirati ed era evidente quanto a lui piacesse farsi guardare. Giovane, bello, ben vestito. Il padrone del mondo.

 In quello stesso giorno, a Milano, alla cappella ducale, stava per celebrarsi il matrimonio tra Anna Maria Sforza e Alfonso Este.
 I due promessi sposi, al loro primo incontro, sembravano subito essersi piaciuti a vicenda, anche se poi, in separata sede, entrambi avevano cominciato a esporre delle preoccupazioni sulla futura convivenza.
 Anna Maria, che sarebbe stata diciottenne in luglio, aveva espresso tutte le sue perplessità circa il suo futuro a Ferrara. Aveva chiesto tanto al fratello, quanto allo zio di permetterle di portare almeno quattro serve e tre o quattro servi con sé, in modo da avere un po' di Milano anche nella sua nuova casa. Aveva paura, diceva, a starsene in una corte sconosciuta, circondata solo da servi fedeli agli Este.
 Lo sposo, che di anni, sempre in luglio, ne avrebbe compiuti solo quindici, era rimasto folgorato dalla pacata bellezza di Anna Maria, ma si era subito contrariato, nel venire a sapere delle paure della moglie. Inoltre si era anche spaurito nel conoscerne la profonda istruzione e la passione smodata per le lettere classiche e moderne. Lui era un abile cacciatore, ma coi libri aveva molto poco a che fare.
 Così Alfonso aveva contrattato, per mezzo del Moro, che Anna Maria portasse pure con sé i suoi servi, a patto che interrompesse subito i suoi studi.
 Il giorno del matrimonio, comunque, i due sposi sembravano già dimentichi delle tribolazioni diplomatiche che avevano preceduto quel lieto evento.
 La cerimonia fu sontuosissima e tra gli invitati spiccava Bona di Savoia, a cui era stato accordato di assistere anche al matrimonio della figlia Anna Maria. Ludovico aveva capito, dopo il matrimonio di Gian Galeazzo, che quella donna non era più un problema, per lui. Non poteva liberarla del tutto, ma aveva cominciato a concederle sempre maggiori favori.
 Francesco Gonzaga, il grande assente, arrivò di nascosto e in incognito a metà del matrimonio. Pur essendo stato chiamato a Venezia per importanti impegni, alla fine aveva dato buca al doge e si era diretto a Milano, per stare accanto alla moglie Isabella Este e alla cognata Beatrice nel giorno del matrimonio di Alfonso.
 Ludovico fu incredibilmente felice di vederlo, nascosto tra la folla, e subito lo chiamò affinché si sedesse accanto a lui. Il fatto che il signore di Mantova avesse preferito un matrimonio milanese a un incarico militare veneziano voleva dire molto, per lui.
 Terminata la cerimonia solenne, ci fu spazio per le risate. Francesco Gonzaga stesso, mosso da uno spirito giocoso che mai era riuscito a sopire, guidò personalmente la messa a letto dei due sposi.
 Mentre Anna Maria, che si sentiva ancora a casa, nella sua Milano, circondata da persone a lei amiche, accettava di buon grado le facezie e i lazzi degli uomini che la stavano portando di pesa nella camera nuziale, Beatrice osservava la scena con un certo raccapriccio.
 Era estremamente lieta a suo marito Ludovico, che aveva vietato una simile dimostrazione di inciviltà il giorno del loro matrimonio.
 Alfonso venne buttato sul letto matrimoniale dalle donne della corte, tra cui spiccava anche la suocera, Bona di Savoia, che rideva e incitava esattamente come tutti gli altri.
 I due novelli sposi vennero lasciati soli mentre Anna Maria ancora rideva e Alfonso cercava di riaversi dal trauma di essere stato quasi denudato da un nugolo di donne di ogni età che non aveva mai visto in vita sua fino a quel giorno.
 
 Nella rocca di Ravaldino la festa per l'investitura del castellano Giacomo Feo stava ancora imperversando, malgrado fosse tarda notte.
 Non si era speso molto per quel banchetto, tuttavia la resa era stata eccezionale. I musici erano andati avanti a suonare anche oltre l'orario specificato al momento dell'ingaggio e gli invitati ballavano senza tregua, come se fossero stati a una festa molto più importante di quella.
 Caterina aveva presieduto il banchetto e Giacomo si era seduto alla sua destra, col pretesto di essere il festeggiato. In realtà a tutti avevano dato l'idea di essere la nuova coppia di Conti di Forlì.
 Ottaviano non aveva quasi toccato cibo, divorato dal livore per tutta quella situazione. Adesso che lo stalliere era diventato cavaliere, tutti si sarebbero aspettati che anche lui, il legittimo Conte, trattasse quel buono a nulla con reverenza e galanteria.
 Tra tutti i figli di Caterina, l'unico che si stava davvero divertendo era il piccolo Sforzino, che era stato ammesso alla tavolata di gala assieme alla balia. Avendo poco più di tre anni, non capiva bene cosa stesse accadendo, ma la musica e la confusione gli piacevano tanto che per tutta la sera non fece che ridere e ingozzarsi.
 Francesco Numai, di San Pietro, uno dei membri del Consiglio che erano stati invitati al banchetto, era seduto a uno dei tavoli che erano stati spinti contro la parete e teneva le gambe larghe e una mano sulla pancia. Aveva bevuto troppo e mangiato ancora peggio.
 Ettore Ercolani, un altro Consigliere, ma del quartiere di San Biagio, lasciò la dama con cui aveva volteggiato fino a un istante prima e si mise sbracato accanto a Numai, afferrando un calice di vino che stava abbandonato sul tavolo.
 “Che si dice?” chiese, dopo aver vuotato il bicchiere orfano.
 Francesco non rispose, limitandosi a indicare la tavolata d'onore con la testa. Vi erano rimasti seduti la Contessa, il castellano, la balia con più piccolo dei Riario e il Conte Ottaviano.
 Ettore guardò bene e pensò che il Numai volesse solo fargli notare come il piccolo stesse divorando ancora del cibo, rischiando, forse, di star male.
 “Guarda come si parlano...” bisbigliò invece Francesco, appena udibile per via della musica che risuonava ancora forte e cadenzata.
 Allora Ettore strinse gli occhi e guardò nel punto esatto in cui stava guardando l'amico. La Contessa e il castellano erano immersi in una fitta conversazione, ma c'era qualcosa, nel modo in cui si guardavano e si sorridevano, che faceva supporre che tra loro ci fosse una certa intimità.
 “Dici che...?” suggerì Ettore, alzando un sopracciglio e facendo un gesto volgare.
 “Quello è sicuro.” biascicò Francesco, prendendo una caraffa quasi vuota e svuotandola senza nemmeno l'ausilio di un calice: “Il punto è che secondo me quelli si sono pure sposati.”
 Ettore guardò l'altro, che mal messo com'era quella sera non dava molto affidamento, e poi fece uno sbuffo: “Ma che dici... Sei ubriaco e basta.”
 “Pensaci...” continuò ostinato Francesco Numai: “Di punto in bianco lo fa castellano, ora lo Sforza di Milano si sogna di farlo cavaliere... Un po' troppo, per un misero amante, no?”
 Ettore si corrucciò: “Ma in quel caso...” i suoi occhi corsero a Ottaviano e al piccolo Sforzino e poi andarono a cercare gli altri figli del defunto Conte Riario.
 “In tal caso le leggi imperiali le toglierebbero la tutela dei figli...” concluse Francesco, con un primo colpo di singhiozzo: “Ah – proseguì, cambiando argomento con la facilità classica degli avvinazzati – sai che ho provato le pasticche per l'alito che ha inventato la Contessa? Dovresti provarle...”
 Ettore non lo ascoltava e guardava con occhi nuovi la signora della città e il ragazzo che le stava seduto accanto sul palchetto d'onore.

 “Avanti, abbiamo ancora un po' di tempo, prima del cambio dell'abito per la festa...” disse Isabella Este, trattenendosi all'ultimo dal tirare per la manica il Moro al fine di costringerlo a darle retta: “Ho sentito così tanto parlare del maestro Leonardo... Non potete negarmi il piacere di vedere almeno una sua opera!”
 Ludovico Sforza, che pur apprezzava moltissimo la compagna della signora di Mantova, sapeva che per indossare l'abito alla spagnola che aveva scelto per la festa alla sala della Balla, pieno di ricami e pietre preziose, con maniche troppo larghe e brache troppo attillate, ci sarebbe voluta un'eternità. Inoltre, la suddetta festa si preannunciava sfibrante. Leonardo gli aveva detto che ci sarebbero stati chiari richiami alla Festa del Paradiso, ma che sarebbe stata ancora più esagerata e variopinta, il che bastava al Moro per sentirsi montare un perfetto cerchio alla testa. Insomma, non era il caso di perdere tempo a vedere dei quadri...
 “Vi prego. Ama molto l'arte e sapete bene che qui a Milano avete molte più opere che non noi a Mantova...” insistette Isabella, senza traccia di civetteria.
 Nella sua voce c'era solo l'insistenza di chi, avendo davvero una smodata passione per qualcosa, desidera a tutti i costi poterne avere un assaggio.
 Il Moro aveva sentito dire che Isabella Este era molto ferrata in materia artistica, ma credeva si trattasse di una posa, come nella maggior parte dei casi, quando si parlava di giovani dame. Invece, da quando l'aveva conosciuta un po' meglio, aveva capito che il fuoco sacro era assolutamente vero e che bruciava con tutta la sua forza.
 “E va bene. Ma in fretta, eh?” cedette alla fine il Moro, cominciando a camminare in fretta verso la stanza in cui tenevano il ritratto di Cecilia.
 Isabella quasi volava per i corridoi del palazzo di Porta Giovia e, quando si trovò dinnanzi alla tela, restò talmente impressionata che per poco non si sentì mancare.
 “Ma è semplicemente meraviglioso...” ebbe appena la forza di sussurrare: “Guardate le pennellate, i colori, le ombre...”
 Ludovico guardava come lei il ritratto, ma gli unici apprezzamenti sinceri che gli venivano in mente erano in favore della modella, la sua Cecilia, più che delle capacità dell'esecutore del dipinto.
 Pensare che a breve a Cecilia sarebbe stato negato ogni accesso alla corte gli riempiva il cuore di spine. Quel ritratto sarebbe stato l'unico segno tangibile del passaggio del suo grande amore al palazzo di Porta Giovia. Il figlio che sarebbe nato avrebbe potuto contare sul potere di suo padre e su un appannaggio considerevole, ma non sarebbe mai stato il suo vero erede...
 “Chi è questa donna?” domandò poi l'Este, accigliandosi.
 Ludovico si mise le mani dietro la schiena e, con voce piatta, rispose: “Una dama della nostra corte...”
 “Ha uno sguardo molto intelligente.” valutò la signora di Mantova, sporgendosi per guardare meglio prima gli occhi e poi le mani della donna ritratta, passando poi all'animale che teneva in braccio: “Quello cos'è? Un ermellino o un furetto?”
 Il Moro si mordicchiò l'interno della guancia: “Dovrebbe essere un ermellino, ma avevamo a disposizione solo un furetto, quindi il maestro ha cercato di...” e agitò le mani come a dire che Leonardo si era dovuto arrangiare con quello che aveva.
 Il ricordo di come Cecilia avesse combattuto quasi a ogni posa con quell'animaletto gli metteva addosso una grande malinconica allegria. Rivedeva le espressioni che contorcevano il viso della donna e si rimembrava di quanto erano in fondo felici in quei giorni. Ora avrebbe rinunciato a lei, perché Beatrice era un'Este, e perché Beatrice era sua moglie.
 Isabella sfiorò con estrema delicatezza la tela, apprezzando la ruvidità del colore e quasi figurandosi il maestro che dipingeva.
 “Potrò incontrarlo?” chiese, sulle spine, la giovane.
 Ludovico assicurò: “Se tornerà da Vigevano in tempo, molto volentieri.”
 “Ho sentito, è vero, che sta lavorando anche ai vostri sistemi di irrigazione...” prese a dire Isabella, dopo essersi congedata idealmente dal quadro della dama con l'ermellino: “Me ne parlereste?”
 Sorpreso dall'avere un'interlocutrice tanto acuta, Ludovico cominciò a parlarle delle migliorie idrauliche portate avanti dal domine magister, e intanto, con discrezione, ma con sicurezza, la portò verso l'ala degli alloggi, in modo tale da potersi andare a cambiare per la festa.

 Lorenzo Medici guardava la tela come se la vedesse per la prima volta. Quel capolavoro del suo amico Botticelli, quello stesso amico che ora si negava e sempre più spesso nemmeno rispondeva alle lettere, era l'esatta essenza di quello che il Magnifico aveva voluto per sé e per la sua città fin da quando aveva memoria.
 Aveva plasmato Firenze e – non si sentiva immodesto a pensarlo – l'Italia tutta a sua immagine e somiglianza. Senza di lui, cosa sarebbe stata, quella penisola, se non solo una fucina, una polveriera, una fonte di carne da cannone?
 E ora quel cane randagio di Girolamo Savonarola stava per essere eletto priore di San Marco e, in barba alle sue prediche, più guadagnava terreno, più si inorgogliva e si faceva tronfio. Le sue parole diventavano di predica in predica sempre più dure e arroganti e il popolo lo seguiva con maggior trasporto man mano che le sue invettive si facevano violente e insensate.
 Per il frate domenicano, tutto era eresia, tutto era paganesimo, tutto era vanità e peccato. Il Magnifico era arrivato anche a pensare che Savonarola, prima o poi, sarebbe arrivato a commettere qualche atto davvero scellerato. Da come parlava, sembrava uno pronto a mettere a ferro e fuoco la città, a fare un falò con tutti i quadri, le statue e i libri di Firenze. Come poteva condanare così un dono divino, quale era l'arte?
 Vinto dai dolori alle gambe, Lorenzo afferrò quasi con rabbia uno degli sgabelli e si mise a sedere, gli occhi sempre fissi su quella meraviglia che Sandro aveva dipinto proprio davanti ai suoi occhi tanti anni prima.
 'La Primavera', così la chiamava.
 Lorenzo si grattò il mento sporgente e cercò ancora una volta l'immagine che gli riportava alla mente suo fratello Giuliano. Botticelli lo aveva dipinto così, giovane e bello, eterno.
 L'impero fatto di arte e lettere che avevano sognato, lui e suo fratello, Lorenzo l'aveva dovuto creare da solo. I responsabili della morte di Giuliano l'avevano pagata, ma tanto Giuliano non c'era più comunque...
 Lorenzo si prese la testa tra le mani. Ah, se i fiorentini lo avessero visto così! Cosa avrebbero detto di lui? Che era solo un povero vecchio, reso storpio dalla gotta e curvo per i dispiaceri...
 Con un profondo sospiro, Lorenzo alzò lo sguardo di nuovo verso il quadro e si soffermò su una delle Grazie.
 “Simonetta Vespucci.” disse a voce bassa, tra sé, come se pronunciare quel nome potesse ridare la vita anche a quella giovane che era stata tanto importante per il povero Giuliano.
 Botticelli l'aveva ritratta in modo eccellente. Era così viva, così attenta, così protesa nel guardare il suo Giuliano, che quasi sembrava di averla lì in carne e ossa...
 Lorenzo cercò di scuotersi, per non sentirsi più patetico di quanto non fosse, ma pensare a tutta quella giovinezza perduta era qualcosa che lo rendeva malinconico e incline all'autocommiserazione.
 Quasi con casualità, lo sguardo gli cadde su un'altra Grazia, quella che stava più a destra. Botticelli aveva lasciato intendere che quella figura era ispirata al profilo di una donna straordinaria che aveva incrociato di sfuggita mentre era a Roma.
 “Quella sembra un po' la Sforza, sai?” aveva detto una volta al Magnifico, con un sorrisetto: “La Caterina, quella che ha sposato il nipote del papa che tu detesti tanto. Mi piace dipingerla... L'ho vista un paio di volte, ma non credo che lei abbia visto me.”
 Il pensiero prepotente del presente risvegliò Lorenzo. Benché fosse stanco e provato, sapeva che non doveva lasciare il suo posto. Suo figlio Piero non era mai stato alla sua altezza, doveva affrontare la crudele verità.
 Quella donna che Botticelli aveva dipinto come una mezza divinità non faceva altro che mettere loro i bastoni tra le ruote. Prima aveva impedito un governo fiorentino a Forlì, poi aveva rifiutato la proposta di matrimonio tra la figlia e Manfredi e chissà che altro avrebbe fatto in futuro...
 Lorenzo si avvicinò al quadro. I suoi passi risuonavano mesti nel silenzio del palazzo. Puntò gli occhi in quelli dipinti della Grazia che secondo Botticelli ricordava la Sforza.
 Non erano gli occhi di una donna senza scrupoli quale lei si era dimostrata. Non erano gli occhi di una madre pronta a sacrificare i figli per tenersi una città. Non erano gli occhi di una Contessa capace di fare un figlio con un uomo senza arte né parte a costo di essere trascinata nello scandalo...
 E Botticelli l'aveva ritratta più di una volta, basandosi sul ricordo di quell'immagine che tanto l'aveva catturato. Una volta era una Madonna, una volta una Venere, e poi una Grazia...
 Il Magnifico sospirò e, come se il pittore potesse davvero sentirlo, commentò a denti stretti: “Temo che nemmeno tu l'abbia vista davvero, caro Sandro...”

   
 
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