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Autore: Black Swallowtail    12/06/2016    0 recensioni
"Ogni giorno, ogni singola volta, la scatola attorno a me diveniva così densa ed impenetrabile da deformare il mondo esterno un po' di più, come attraverso un opaco strato di vetro che mi rimandava una distorta immagine di quel che mi circondava.
Non sono mai riuscita ad essere qualcuno, per qualcuno – come se il mio viso, il mio nome, la mia esistenza, non potessero rimanere impresse nelle loro menti."
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Azure Kuri è una studentessa incapace di formare legami con gli altri, incapace di rimanere impressa nelle loro menti. Condannata alla solitudine e ad essere una figura pallida e dimenticata, desidera ardentemente di non dover più provare nulla - nemmeno questo dolore.
L'incontro con uno strano gatto che sembra distorcere la realtà la condannerà per due anni a vivere una vita incolore e priva di emozioni, finché, un giorno, qualcuno non la chiama presso un'aula in disuso della scuola.
Questa persona che la attende le rivelerà una via d'uscita dal mondo incolore che la circonda e le mostrerà cosa c'è al di sotto della realtà, dove solo chi crede può vedere — un mondo sovrannaturale invisibile agli occhi del mondo.
Ma non a quelli di chi sceglie di credere.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Scary Monsters and Nice Spirits'
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II

So please remember me, as vivid as I was.

Quando il mio telefono ha vibrato nella mia tasca, probabilmente sarei sobbalzata, se avessi avuto ancora emozioni. Non ricevo mai chiamate, figuriamoci messaggi, visto che non ho nessuno con cui comunicare davvero, se non qualche sporadica richiesta necessaria dei compagni di classe. Essendo tuttavia a scuola, difficilmente qualcuno di loro mi può aver scritto, quando potrebbe semplicemente venire da me per parlarne faccia a faccia. Per questo motivo, è stata con trepidante attesa che ho estratto il cellulare, le mani tremanti e la gola secca – o quanto meno, immagino questa dovrebbe essere una reazione appropriata. In realtà, non sentendo nulla, ho semplicemente, meccanicamente sbloccato lo schermo, osservando per un lungo istante l'icona della notifica sul lato alto del display, senza toccarla. Per un istante, sono stata tentata di non aprirla, ma è una cosa immensamente stupida da fare; dopotutto, qualcosa di così insolito presuppone che vi sia dietro quanto meno una ragione importante ed altrettanto fuori dal comune.

Tutto quel che c'è scritto è una semplice frase, una unica riga di testo dai caratteri neri sullo sfondo bianco ed asettico della schermata: “Il Gatto Nero ed Altri Racconti, A18”. Il numero da cui è arrivato il messaggio è sconosciuto; non che conti, visto che nella mia rubrica non ho salvato alcun numero. Non avrei nemmeno un motivo, dopotutto, di utilizzarlo visto che non ho comunque nessuno da chiamare. L'unico motivo per cui lo possiedo è per le situazioni di emergenza. E questa situazione, forse, è una di queste emergenze, seppur non il tipo per il quale possa chiamare la polizia. Chiunque lo abbia inviato, è chiaro che sia a conoscenza della mia situazione, quel che è accaduto un anno fa, quando ho incontrato il gatto nero senza volto, e il messaggio in apparenza senza senso, solo il titolo di un libro per qualcun altro, letto da me acquista totalmente un altro significato. Eppure, sono sicura che in quel momento, quando l'incontro si è verificato, non vi fosse nessuno se non me stessa: era come se fossimo in un altro mondo, lontano da questa realtà, in uno spazio ritagliato solo per me e per quella anormale creatura silenziosa ed inquietante.

Il mio primo sospetto è stato Aidan; da un anno a questa parte, proprio dai giorni seguenti l'incidente, l'ho notato osservarmi intensamente per alcuni attimi; o meglio, guardare qualcosa attorno a me, come catturato da un evento insolito ed incredibile. I suoi occhi socchiusi hanno seguito i movimenti invisibili che, tuttavia, non si sono mai allontanati da me, rimanendo sempre in prossimità della mia figura. Ma quando ho chiesto ad altri compagni che hanno già conversato con lui, ho ricevuto sempre la stessa risposta: non è il suo numero di telefono. Ho scartato l'opzione che si possa trattare di lui, tenendolo in un angolo della mia mente,e sono passata all'azione: A18 è, presumibilmente, uno scaffale della nostra biblioteca. Fortunatamente è sempre aperta, anche ora che l'orario scolastico è vicino alla chiusura, e quindi posso entrare senza alcun problema con la scusa di prendere in prestito proprio quel libro e dargli una rapida occhiata, per scoprire il significato del messaggio. È chiaro che chiunque lo abbia inviato voglia che io trovi quel libro – al punto da inviarmi questo messaggio che funziona come un'esca per i pesci. Un'esca a cui sto abboccando, ogni istante di più, ogni passo che mi avvicina alla biblioteca.

La targhetta in plastica trasparente sopra la doppia porta recita “Biblioteca scolastica”, ed appena sotto una nota avvisa che il bibliotecario in questo momento è fuori; sono le tre di pomeriggio, quindi non è così insolito che sia da qualche altra parte, forse è già tornato a casa, o semplicemente si stanno dando il cambio di turno con qualche altro studente. Comunque stiano le cose, ora come ora non c'è nessuno all'interno, ma la porta è ancora aperta. Mi basta spingerla appena, perché si apra docilmente senza un rumore, restituendomi attraverso uno spiraglio l'immagine dei tavoli disposti accanto agli innumerevoli scaffali ricolmi di libri. Ho sentito più di una volta il professore di letteratura vantarsi della gran quantità di libri posseduti dalla scuola, ma non vi ho mai prestato troppa attenzione, almeno fino a questo momento; alle mie spalle, la porta si chiude con un tonfo appena percettibile, e davanti ai miei occhi si aprono file e file di tomi uno accanto all'alto, tenuti rigorosamente in ordine dal lavoro costante degli studenti addetti, tutti membri del club del libro ed amatori della lettura di ogni tipo; non mi è troppo difficile, quindi, individuare subito lo scaffale A18. Il mio dito inizia a scorrere rapidamente di dorso in dorso, mentre a fior di labbra ripeto silenziosamente il titolo del libro. Quando, infine, l'indice si poggia sul tomo che cerco, pur non potendo provare alcuna emozione, mi blocco per un istante, quasi esitando. I dubbi sull'identità di colui che conosca il mio segreto non sono scomparsi; in me, persiste debolmente la convinzione che si tratti di Reiss, ma non ho alcuna evidenza di questa mia teoria se non quel che riesco a ricordare, indizi che sono pallidi e forse mero prodotto della mia mente, della mia autosuggestione.

Nel momento in cui lo tolgo dallo scaffale, in quel preciso istante, quando la copertina si è rivelata insieme al libro, scivolando fuori dall'alloggiamento, ho ricordato distintamente questo libretto non troppo spesso che Aidan stava leggendo, qualche mese fa. Dal rigido rivestimento del libro, un gatto dal pelo come inchiostro, arruffato, la bocca spalancata a mostrare i denti affilati e gli occhi colmi di rabbia e sdegno, mi getta uno sguardo sprezzante e furioso. Non posso sentire niente, certo, ma è questo il momento adatto per la delusione – non vi è alcuna somiglianza tra il disegno e quell'essere dall'aspetto felino che ho incontrato. In lui, non c'era crudeltà, né ira, ma solo il nulla, un vuoto perfetto perfino nel taglio orizzonte della sua bocca; al massimo, ora che lo riesco a ricordare, posso rivedere un sorriso beffardo piegarsi appena, distruggendone la completa neutralità, ma comunque qualcosa di totalmente diverso dall'aspetto infastidito dell'animale rappresentato in copertina. Da quell'essere ho sentito provenire comprensione, una sorta di consolazione, che non ho mai privato prima d'ora, e che non troverò mai in questo fatidico Gatto Nero del libriccino stretto tra le mie mani.

Mossa dalla curiosità, inizio meccanicamente a sfogliare le pagine senza soffermarmi su una in particolare, semplicemente lasciando che la carta scorra tra le mie dita, con la marea di simboli e parole disposti uno dopo l'altro, senza riuscire a trovarvi nulla di eccezionale o particolare. Dopotutto, da quando ho perso le emozioni, per me leggere è divenuto qualcosa di inutile, nulla più che un mero fluire di lettere e parole una dopo l'altra, incapaci di intrattenermi perché impossibilitata a sentire cosa voglia trasmettere quel che ho tra le mani. A volte, in momenti come questo, mi chiedo se non si sia trattata più di una condanna, che di una benedizione. Non riesco più a vivere così, priva di ogni sfumatura, in un mondo che va gradualmente perdendo le sue tinte perché nulla mi risulta davvero appieno godibile – e come potrebbe esserlo, se l'emozioni stessa dell'appagamento della gioia, sono scomparse? Ho voluto così tanto, per così tanto tempo, poter smettere di soffrire in quel modo, ignorata da tutti e perennemente malinconica, rassegnata ad una vita in un limbo di nullità, che ho voluto davvero poter smettere di sentire qualunque cosa e così vivere priva di ogni preoccupazione e di ogni dolore. Ero talmente presa dalla situazione, da non riuscire a vedere che avrei perso ben più dei pochi momenti in cui credevo di essere sollevata. Solo ora, che non ho più nulla, mi rendo conto di quanto vaste siano le emozioni e le sensazioni, e di quanti momenti ho avuto diversi da quella tristezza e malinconica che ritenevo assolute.

Ora, ho la sicurezza di non poter più essere ferita, di non provare più dolore. Ed allo stesso tempo, l'ho pagata con tutto il resto.

Vorrei poter tornare indietro—se potessi.

Un foglietto cade dall'ultima pagina del libro, atterrando ai miei piedi, con il lato sul quale è stato scritto qualcosa rivolto verso l'alto. Una semplice indicazione, in una elegante calligrafia estremamente precisa – una lettera di colui che mi ha fatto venire fin qui, di colui che sembra conoscere la mia situazione.

Aula 16B, 15:15.”

 

Aidan Reiss è uno di quegli individui che, ai miei occhi, è sempre apparsa come una persona talmente diversa da stare sempre un gradino al di sopra degli altri, perfino nel suo insolito modo di essere. Non è un genio, né uno dei migliori per media scolastica; raramente risponde ai quesiti che gli vengono posti dai professori, limitandosi ad un secco ed indifferente “non lo so”, con un'aria annoiata e quasi sonnolenta. In classe, sembra avere un'aria di perenne stanchezza, accentuata dalle occhiaie che stazionano al di sotto dei suoi occhi, di una scolorita sfumatura nerastra, a suggerire che la notte non è il suo momento preferito per dormire. Nonostante tutto ciò, i suoi voti sono un continuo salire e scendere, che contrappongono risultati eccellenti, degni delle più alte graduatorie, ad alcuni disastrosi, talmente bassi da chiedersi se effettivamente siano stati ottenuti dalla stessa persona. Superficialmente, la sua passione non sembra indirizzata verso qualcuno in particolare e all'apparenza indossa sempre un'espressione annoiata, che muta solamente quando l'argomento di cui si sta parlando tocca in qualche modo la mitologia o il sovrannaturale. In quei momenti, nonostante resti lo stesso, la sua indifferenza sembra scalfirsi, come una crepa che si allunghi su una corazza dopo un colpo troppo pesante – la sua voce, pur mantenendo il distacco che la caratterizza, aumenta leggermente in velocità, come se tentasse di tenere a freno un torrente di parole limitandone il flusso prorompente.

Ho imparato che le sue nozioni riguardanti l'epica, la conoscenza dei bestiari medievali o di qualunque cosa che sia collegata a creature insolite e fuori di questo mondo, sfiorano l'assoluto. È come se, stanco degli esseri umani, abbia rivolto se stesso verso i mostri, verso il sovrannaturale, assorbendo il fantastico e l'invisibile, per allontanarsi dalla realtà che sembra ripugnarlo in tutto e per tutto.

Come me, sta seduto al suo posto senza parlare con nessuno, preferendo dormire o leggere libri di ogni genere, molto spesso tomi voluminosi e dalle pagine fitte di caratteri gotici ed insoliti, da cima a fondo, opere che tra le sue mani scorrono velocemente, al punto che mi sono chiesta se effettivamente li legga oppure se semplicemente ne scorre le pagine senza soffermarsi per più di un secondo su qualche illustrazione.

Non abbiamo mai parlato né abbiamo mai interagito davvero, così come con la maggior parte degli altri, dopotutto; ma se con il resto dei compagni ho scambiato almeno qualche frase di circostanza, non posso dire lo stesso di lui: in tutto questo tempo, non l'ho mai visto discorrere con qualcuno per più di qualche istante, in un rapido scambio di battute che si conclude con l'interlocutore che si allontana frettolosamente, tenendo lo sguardo basso o torcendosi le mani in preda a quello che sembra nervosismo o preoccupazione. Molto spesso, non si tratta nemmeno di nostri compagni di classe, a volte sono perfino di altre scuole, che lo attendono ai cancelli dell'istituto, per ripetere quella scena che ho visto tante volte; tuttavia, in alcune occasioni, li vedo allontanarsi insieme, senza che poi i due si vedano più l'uno accanto all'altro, dando segno di conoscersi o di essersi parlati, come se il loro rapporto si limiti a quello scambio di battute o a quella banale passeggiata verso un luogo indefinito; quando ho provato a chiedere ad alcuni interessati riguardo all'incontro, nessuno di loro ha risposto propriamente, dando solo risposte vaghe o generali, come se non ricordassero nei particolari quel che è accaduto, come se volessero nascondere qualcosa. Perfino i più ostinai cedono, quando gli interrogatori diventano infruttuosi.

Nel complesso, Aidan Reiss è un ragazzo che suscita domande e curiosità, oltre a spiccare tra le altre persone, quesiti che nascono e rimangono insoluti. Più lo guardo, più mi chiedo cosa possa esserci in lui. Fino ad ora, non ha mai mostrato interesse per una persona di sua spontanea volontà, come se semplicemente non gli interessasse intrattenere un rapporto con qualcuno al di fuori di se stesso.

Per tale ragione, quando apro la porta dell'aula 15B, una parte di me si sarebbe sorpresa, se ne fosse stata capace; seduto accanto alla finestra, con un enorme libro dall'aria antica, di un inquietante nero e dal titolo stampato in grosse lettere gotiche, aperto davanti agli occhi, sta proprio Aidan Reiss. La sua espressione non tradisce alcuna emozione, assorto com'è nella lettura di quel tomo che, ad una veloce occhiata, sembra essere un qualche testo medievale, una delle tante copie per la consultazione reperibili nella biblioteca del museo locale, anche se normalmente non sarebbe permesso portarne fuori; eppure, sembra che nel suo caso sia stata fatta un'eccezione. Non mostra la minima reazione, quando entro nella stanza semibuia. Il sole filtra appena tra le imposte tirate, che lasciano passare a malapena una fievole lama di luce che si fa strada a fatica nel buio, sufficiente per non far sprofondare totalmente nell'oscurità l'aula. La 15B è in disuso da un anno, ormai, e non viene pulita da molto tempo. I banchi sono ancora disposti in perfetto ordine, così come le sedie, tuttavia lo strato di polvere che vi si è accumulato sopra e la puzza di chiuso che riempie l'aria sono elementi più che sufficienti per capire che siamo i primi ad entrare qui da molto tempo. Normalmente, la porta sarebbe chiusa, ma in qualche modo è riuscito ad aprirla; poggiata davanti a lui, come a confermare i miei pensieri, c'è la chiave della classe, poggiata su quell'unico banco da dove è stata rimossa la polvere e che ospita non una ma due sedie, una di fronte all'altra in un implicito invito a sedermi.

“Azure Kuri. Diciotto anni. Ultimo anno. Vivi da sola da tre anni, dal quattordici Maggio, ad essere precisi, vero?” ovviamente si tratta di una domanda retorica perché il suo tono di voce non tradisce alcuna esitazione, perfettamente sicuro delle informazioni personali che sta snocciolando, una dopo l'altra, senza degnarsi di alzare lo sguardo dal libro, continuando imperterrito la sua lettura, “Tutti fatti vuoti, privi di significato, che possono essere scoperti senza alcuna fatica. Vuoti, esattamente come lo sei tu ora. Tra tutte queste, l'unica informazione davvero cruciale, è quella sul tuo attuale stato psicologico – o forse sarebbe meglio dire spirituale?” Finalmente, pronunciate queste parole, chiude il pesante volume e lo poggia delicatamente sul banco, rivelandone il titolo in latino. Notando la mia curiosità, o meglio, essendo incapace di provarne sarebbe meglio dire la mia attenzione per quel dettaglio, Aidan passa la mano sul dorso dell'opera, come a volerla accarezzare, “Questo è un bestiario. Contiene molte informazioni utili, seppur spesso erronee, sui fenomeni sovrannaturali ed occulti di questo mondo. Ma è una cosa di cui parleremo dopo,” mi fa cenno si sedermi, un invito accompagnato dal suo sguardo gelido che sembra volermi trapassare come una miriade di schegge gelate, “Vorrei discutere del tuo problema.”

In un'altra situazione, non avrei di certo lasciato che tutto questo potesse accadere. Non avrei nemmeno dato ascolto ad un biglietto simile che mi invitava in una classe abbandonata. Tuttavia, priva di ogni paura come sono ora, non posso che chiedermi come faccia a conoscere l'origine del mio problema. Gli indizi che mi ha dato fino ad ora sono sufficienti a farmi capire che sa tutto del gatto e della perdita delle mie emozioni. Non si tratta di curiosità, perché come ho detto non posso provarne, ma di una sorta di attrazione magnetica che mi spinge ad ascoltare quello che questo misterioso ragazzo vuole dirmi. Quando mi sono seduta di fronte a lui, spinge lateralmente il libro, in modo da avere spazio sufficiente tra di noi, e, appoggiati i gomiti al tavolo, unisce la punta delle dita, “Mi spiace per l'aria lugubre, il buio e la polvere, ma è l'unico modo per tenerlo fuori.”

“A chi ti riferisci?”

“Mh? Al gatto, a cos'altro? O meglio, immagino che abbia quell'aspetto, ma sicuramente non è che una forma come un'altra per lui. Probabilmente gli piacciono i felini,” indica la porta socchiusa, dove uno spiraglio mi restituisce appena un frammento del corridoio, dove la pallida luce pomeridiana entra strisciante attraverso le finestre e faticosamente illumina di più l'aula abbandonata, “Forse non riesci a vederlo.”

“—è qui?”

“Lui è sempre vicino a te,” spiega tranquillamente, come se stesse parlando non di una entità sovrannaturale, ma di un argomento qualsiasi e terribilmente normale, come il tempo o la verifica di matematica della scorsa settimana, “Ed allo stesso tempo ti è lontano. Non è questo, comunque, quello che importa. Iniziamo dal principio, che ne dici? Sono sicura che l'avrai capito, Kuri, ma quello che noi chiamiamo occulto, in realtà esiste.”

Se potessi provare emozioni, questa affermazione suonerebbe terribilmente ridicola alle mie orecchie; se non avessi sperimentato in prima persona qualcosa di simile, che pure trovo inspiegabile, forse avrei riso. Ma il solo fatto che non ne sia in grado è una conferma a quello che ha detto ora Aidan. “Vuoi dirmi che esistono cose come spiriti e mostri?” chiedo, la voce neutra, proprio come è da un anno a questa parte. Priva di emozione.

“Il fatto che tu non possa vederli, non significa che non ci siano. Man a mano che l'uomo è progredito, si è appoggiato alla scienza e alla razionalità, andando gradualmente perdendo fiducia in se stesso e nella sua anima; in breve, ha iniziato ad ignorare questi fenomeni e si è perso nella strada della razionalità suprema,” il tono con cui vomita fuori questa sommaria esplicazione è annoiato, quasi l'avesse ripetuta innumerevoli volte, come un attore stanco di ripetere lo stesso copione per l'ennesima volta, e che ricorda ogni singola parte di esso a memoria, costretto a recitarlo nuovamente, ancora ed ancora.

“—Ho capito, stai scherzando.”

L'espressione di rassegnazione che attraversa fugacemente il suo volto vale più di ogni parola. Era un viso di chi se lo aspettava. Di chi sapeva che avrebbe ricevuto questa risposta, “Sono serissimo, mia cara Azure. Guarda i bestiari medievali, ad esempio,” indica il libro che sta abbandonato in un angolo del banco, facendo scorrere il polpastrello sui caratteri gotici impressi nella copertina con lentezza, “Come spieghi che siano pieni di descrizioni così accurate di esseri fantastici da sembrare veri, realmente esistiti? Secoli fa, quando la scienza non aveva accecato del tutto l'uomo, e ancora si riusciva a vedere spiriti e creature sovrannaturali...”

“Si tratta semplicemente della fantasia e degli errori di scrittori antichi, ecco tutto.”

“Questa è la giustificazione delle persone pigre, che non hanno la capacità di andare oltre a quel che vedono.”

Il silenzio che cade tra di noi è pesante come un macigno. Le cose che sta dicendo potrebbero essere facilmente classificate come i deliri di un pazzo o luna fantasia talmente sfrenata da sconfinare nella realtà, ma la sua voce è talmente seria, la sua espressione immobile, senza nessun cambiamento che indichi il minimo dubbio nel parlare di un tale argomento, che non posso far altro se non prestargli un po' di fiducia, “Cosa puoi dirmi del mio problema? Cosa vuoi fare con il… Gatto? Hai intenzione di ucciderlo?”

Riflette per un lungo istante, senza staccare gli occhi dallo spiraglio della porta che si affaccia sul corridoio, come se stesse osservando qualcuno. O qualcosa. Il Gatto dev'essere lì che aspetta, come trattenuto da qualcosa o qualcuno. Proprio come ha detto lui prima. “Vorrei evitarlo, se possibile,” risponde di colpo, tornando a posare la sua attenzione su di me, “Dopotutto ha ancora addosso le tue emozioni, e la violenza è un'opzione che si prende in considerazione solo contro esseri ostili e pericolosi, come i vampiri. Solitamente, quando i mostri predano gli umani come fonte di sostentamento, non c'è niente che si possa fare, se non ucciderli; ma in questo caso—”

“Il Gatto non è ostile?”

“Non lo è. Si tratta semplicemente di uno spirito errante che ti ha preso in simpatia – e deve aver udito la tua richiesta. Per questo, ha deciso di esaudire il tuo desiderio, e ti ha risucchiato le emozioni.”

Ha semplicemente esaudito un mio desiderio.

Inconsciamente, quante volte ho voluto non dover più provare nulla? Quante volte, di fronte allo specchio, incrociando il mio sguardo riflesso, ho stretto i pugni e mi sono morsa il labbro, imprecando silenziosamente contro il mondo, chiedendomi, senza nemmeno accorgermene, perché ancora non avessi perso ogni traccia dei miei sentimenti? La cosa mi dispiace davvero, poi? Anche se è così, non posso dirlo, perché anche il dispiacere scomparso in un battito di ciglia, insieme a tutto il resto. Ora come ora, non posso che ricambiare l'occhiata criptica, indecifrabile che Aidan mi sta lanciando, come se stesse tentando di scrutare i miei pensieri senza alcun successo, perché nulla traspare sul mio volto e nei miei occhi; non c'è nulla da mostrare, dopotutto, perché il filo dei miei pensieri è atipico e distaccato esattamente come ogni altra cosa in me. Pensare non suscita alcuna reazione diversa dalla semplice constatazione dell'immagine o della riflessione.

Dopo un lungo istante di silenzio, il ragazzo di fronte a me si poggia allo schienale della sua sedia, unendo la punta delle dita di fronte agli occhi, e socchiudendo appena le palpebre come se stesse pensando intensamente a qualcosa, prima di schiarirsi la voce e tornare a trapassarmi da parte a parte con uno sguardo indagatore, simile a coltelli che vogliano trafiggermi da parte a parte. Il suo viso è completamente neutro, mentre mi pone la fatidica domanda che sembra avere in serbo da un po'. È un quesito semplice, poco più di qualche parola, ma allo stesso tempo terribilmente importante nella sua banalità, perché in esso il cuore del nostro discorso – “A te sta bene così?”

È una domanda a cui è difficile dare una risposta adeguata, ed ho passato davvero molto tempo nel tentativo di scioglierne il nodo. Nonostante la catarsi delle mie emozioni, non riesco a dare una risposta definitiva. Non riesco a dire con sicurezza di stare meglio senza le mie emozioni perché, paradossalmente, non possiedo più un metro di giudizio; non provo più dolore, non mi sento più sola, non sono più una macchietta pallida lontana dal mondo, trasparente e dimenticata da tutti, questo è vero.

Ma è sufficiente questo a definire la mia situazione come migliore?

La verità è che…

“Da quando il Gatto ha rubato le mie emozioni, non posso di certo dire che la mia vita sia peggiorata. Dopotutto, l'essenza stessa di questo pensiero è un paradosso: senza la presenza di emozioni, non posso davvero dire se mi senta meglio o no. Tutto è divenuto di colpo… grigio. Un colore indefinito e stinto che sfuma i contorni degli oggetti, confondendo la realtà in un unico, grande mare monocromatico.

Le emozioni sono qualcosa di terribilmente importante. Non ci soffermiamo spesso su di esse, e quando lo facciamo, non è altro che una analisi superficiale: ci concentriamo sull'amore o sull'odio, sulla felicità o sulla tristezza, che sono solo mere forme elementari di uno spettro infinitamente più complesso. Ad esempio, banalmente, il cibo ed il gusto. Senza emozioni, esistono solo sapori che percepiamo come gradevoli o sgradevoli a livello fisico, non c'è qualcosa che ci piaccia o ci disgusti. Dolce e salato, al di fuori della sensazione che danno alla lingua, dello stimolo che inviano al cervello, sono esattamente la stessa cosa: non c'è modo di dire che uno sia migliore o più apprezzabile dell'altro.

A seconda della situazione, può essere considerato come un vantaggio – privi di golosità e dell'appagamento che deriva dal cibo, non si ha l'urgenza di mangiare più dello stretto necessario. Allo stesso modo si possono ignorare pietanze considerate dannose perché poco salutari o ipercaloriche, dato che scompare il fattore di soddisfazione legato al loro ingerimento.

Similmente, non esistono pulsioni sessuali. Privi di eccitamento, rimosse tutte le barriere emozionali, quello che rimane è un meccanico e sterile atto riproduttivo.

Leggere libri diviene inutile, al di fuori del mero scopo didattico, e la differenza tra generi, temi e stile sfuma: non si avverte noia o pesantezza nel leggere un tomo che altrimenti sarebbe potuto essere noioso, né divertimento o sospensione quando si tratta di un'opera di grande letteratura. Si può leggere qualunque cosa, senza alcun limite, al prezzo tuttavia di non notare differenze, senza avvertire alcun coinvolgimento per le vicende, al punto che un qualunque testo che non abbia scopo informativo, come un saggio o un trattato, perde del tutto la sua ragione d'essere.

È una cosa triste. O meglio, lo sarebbe se potessi effettivamente provare qualcosa, ma ciò estirperebbe il problema alla radice. È solo quando ho perso le emozioni che ho davvero realizzato come esse distinguano un essere vivente ed intelligente come l'umano dagli altri. Nell'ambito scientifico, molti si chiedono quale sia la differenza tra un uomo ed un sasso poiché gli elementi basilari che li compongono sono, di base, gli stessi se si scava sufficientemente in profondità. Le risposte più vaghe fornite sono quelle come “le strutture biologiche”, quelle più filosofiche tendono ad individuare il discrimine nella “coscienza”; io, invece, sono profondamente convinta che si tratti delle emozioni.

Dopo averle perse, tutto è divenuto uguale.

Il Gatto ha esaudito il desiderio inespresso che albergava in me, che si nutriva della mia disperazione e del mio dolore, aggrappandosi alle mie ferite e vivendo della mia sofferenza. Ha guardato attraverso di me, attraverso il mio animo lacerato, ed ha risucchiato ogni cosa.

Quindi, secondo te…

Lo ha fatto per aiutarmi?”

Aidan rimane in un profondo silenzio, dopo aver udito le mie parole, per un lungo, infinito istante, prima di rispondere. Si avvicina alla cattedra, le mani in tasca e le spalle leggermente curve, come schiacciate dal peso della sua riflessione, mentre vi si siede sopra cautamente, lasciando una gamba a penzolare qualche centimetro dal terreno, raccogliendo l'altra sotto al ginocchio; i suoi occhi gelidi guardano un punto indefinito di fronte a se, prima di spostarsi per l'ennesima volta su di me, affondando nell'infinito grigiore dei miei. Come se sperasse di trovare, nel mio sguardo vuoto, una risposta.

“Come ti ho detto, fondamentalmente, il Gatto non è malvagio. Le conseguenze delle sue azioni sono certamente imprevedibili ma ha agito in buona fede. Le mie ipotesi sono due;” si volta verso la lavagna, dopo aver preso un gessetto abbandonato nel cassetto della cattedra, e traccia su di essa un singolo numero – un uno, con due secchi movimenti della mano, dopodiché picchietta le nocche contro di esso, “Numero uno, probabilmente ha preso a cuore la tua situazione. Devi aver ispirato in questo spirito errante una certa tenerezza, abbastanza da spingerlo a rivelarsi ed accogliere in sé le tue emozioni.”

“Non era questa la tua prima teoria? Vuoi dire che ne hai un'altra?” chiedo, incrociando le gambe e spostando leggermente la sedia verso di lui, in modo da poterlo guardare direttamente mentre se ne sta in piedi nella semioscurità, con il pezzo di gesso stretto tra le dita, “Qual è la seconda?”

Sembra pensarci per un altro momento, prima di rispondere. Si sistema meglio gli occhiali sul naso spingendone al centro la montatura, prima di tracciare un grande numero due, e sottolineandolo appena con due righe, come a volerne evidenziare l'importanza. Poi, le sue labbra si incurvano appena, come sogghignando, rivelando un sorriso affilato e compiaciuto, quasi speranzoso, “La seconda ipotesi sarebbe ben più problematica per te, ma molto più vantaggiosa ed interessante per me. Ci sono numerosi tipi di spiriti, in questo mondo, ma alcuni devono nutrirsi per continuare a rimanere ancorati alla nostra realtà ed evitare di svanire. Tra questi, una speciale tipologia si occupa di esaudire desideri degli esseri umani per poter esistere – la stessa tipologia che molti riconoscono nell'essere che Faust definisce come Mefistofele.”

“Questo Gatto quindi sarebbe uno di quei demoni che, per continuare a vivere, esaudiscono i desideri dell'uomo, non importa se dannosi?”

“Sei molto perspicace,” cerchia con un ampio gesto l'opzione numero due, “Ed in questo caso, sarebbe estremamente difficile riuscire a recuperare te stessa. Sempre ammesso che tu trovi questa situazione fastidiosa.”

Sorrido. Ma non è un vero sorriso, solo un'espressione vuota, con l'unico scopo di fare scena, di rafforzare le parole prive di espressione che escono dalla mia bocca.

“Ma io non posso sentire nulla.”

“Ah, perdonami. Colpa mia.”

L'intera situazione è ovviamente assurda e nessuno potrebbe crederci. Se trapelasse la voce che Aidan Reiss è una specie di cacciatore dell'occulto, che insegue spiriti e creature sovrannaturali che sono universalmente e razionalmente riconosciute come inesistenti, probabilmente sarebbe considerato un folle. Razionalmente parlando, tutto quello che ha detto fino ad ora non è altro che una grossa fantasia messa in piedi dalla sua mente.

Nessuno potrebbe crederci, se non fosse direttamente coinvolto. Solo dopo averlo provato sulla propria pelle, ci si può convincere che tutto quello raccontato da lui sia vero, e per quanto tutto questo potrebbe suonare assurdo alle orecchie di chiunque altro non si trovi nella mia posizione, io non posso che ammetterlo: Aidan ha ragione. Ogni cosa che mi ha detto corrisponde, a modo suo, a verità. Altrimenti, come avrebbe potuto accorgersi del mio problema, come avrebbe potuto collegare tutto e dare un significato tanto preciso, quasi scientifico, ad una stranezza come questa che va contro ogni logica?

Non so se voglio ottenere di nuovo le mie emozioni. Questo significherebbe tornare indietro a quel che ero prima. Significherebbe dover tornare a sentire il dolore del rifiuto del mondo intero, la sofferenza di essere poco più che una sfocata sagoma senza nome, dimenticata da tutti.

Razionalmente parlando, in questo stato di sospensione incolore, non potendo provare emozioni, non sto male per la mancanza di esse. Ma so benissimo che si tratta solamente di un effetto collaterale, come il non provare dolore ad un braccio che è stato reciso.

Mi trovo davanti ad un bivio dal quale, una volta imboccato, non potrò tornare indietro. Il prezzo da pagare in entrambi i casi è sufficientemente alto da poter divenire un rimpianto a cui guarderò indietro per la mia intera esistenza – con una differenza fondamentale: lo farò provando dolore e malinconia, o semplicemente senza poter sentire nulla, svuotata come sono ora di qualunque emozione?

—Voglio davvero tornare a soffrire perché inadatta a stringere un qualsiasi rapporto?

—Voglio davvero di nuovo provare dolore, dimenticata da tutto, da tutti?

—Voglio davvero ancora una volta sentirmi soffocare dal mio stesso vuoto?

Il mio silenzio dev'essere durato più a lungo di quanto pensassi, e deve aver fatto trasparire in qualche modo il mio dubbio, il mio conflitto, dato che Aidan, poggiato il gesso e venutomi vicino, piega leggermente la testa in avanti in modo da potermi guardare in viso, nonostante io tenga la testa leggermente abbassata a guardare il pavimento grigio sotto di me – grigio come ogni altra cosa. Incolore proprio come me.

“Ero partito con l'idea che tu volessi riprendere i tuoi sentimenti, e questo mi avrebbe dato l'opportunità di cacciare il Gatto. Ma se non è così, allora eviterò di metterti i bastoni tra le ruote, e lascerò le cose come stanno. Dopotutto, è un tuo diritto, quello di alienarti dal mondo...” sorride amaramente, “Nessuno meglio di me sa quanto questa realtà faccia schifo.”

Senza un'altra parola, prende il libro abbandonato sul banco, sfiorandone la copertina con i polpastrelli, lentamente, quasi stia pensando a qualcosa, prima di sospirare profondamente e scuotere la testa. Non incrociamo ancora gli sguardi. Mi passa semplicemente al fianco, senza nemmeno voltarsi verso di me, ed arriva alla porta della classe, aprendone del tutto lo spiraglio lasciato aperto e facendo entrare finalmente più luce, un rettangolo che trapassa il buio dell'aula e investe la sua figura, sfiorando appena la mia, toccandomi appena la spalla.

“Mi dispiace di averti disturbato, Kuri,” piega appena le spalle, “Spero che tu non te ne penta. Ammesso che tu possa, nel tuo stato.”

Apro la bocca.

Solo ora mi rendo conto – solo ora realizzo.

Fin dall'inizio, dal primo momento in cui mi ha vista. La prima cosa che mi ha detto, è stata il mio nome. Ed ha continuato a farlo, ancora ed ancora.

Mi ha visto, e si è ricordato di me. Mi ha osservato e si è interessato a me, a quella macchietta grigia che sta in un angolo della classe e che nessuno ricorda. Ha fatto tutto questo per se stesso, eppure lui sembra capirmi, sembra sapere come mi sono sentita – sembra conoscere il mio abbandono.

E mi ha continuato a chiamare per nome, fino alla fine.

“Quindi… è così che suona il mio nome.”

Non credo abbia sentito quel che ho detto. È stato un sussurro talmente fievole che sono riuscita io stessa a sentirlo a malapena.

Stringo i pugni.

“Aidan.”

Si blocca.

“Sì?”

“Tu sai perché è successo tutto questo, vero?” la mia voce è poco più di un respiro, appena percettibile, che vibra nell'aria polverosa della classe, che arriva fino a lui mano a mano che mi avvicino, ogni volta un nuovo passo nella luce proiettata dall'esterno attraverso la porta, “Sai qual era il mio desiderio. Lo sai, perché mi hai osservata. E per questo...” esito, “Ricordi il mio nome.”

Sbarra gli occhi e, dopo un istante di sorpresa, abbassa la testa di colpo, come preso dalle mie parole. Si porta una mano alle labbra, poggiando appena le dita su di esse, prima di schioccare la lingua, “Si trattava solo di informazioni necessarie al mio scopo nulla di più.”

“Oh, è così, quindi.”

“...Ma una volta che ho imparato qualcosa, non riesco a dimenticarla. Ho la memoria troppo buona.”

“Se è così, allora,” alzo gli occhi, incontro i suoi, e mi sembra che voglia risucchiare me, quanto lui cada nel nulla dei miei, in un turbinio di forze che si attirano e si respingono, “Voglio chiederti un patto.”

“Un patto?”

“Ti permetterò di cacciare il Gatto. Ti aiuterò per quanto mi sarà possibile.”

“Così riacquisterai le tue emozioni e sarà di nuovo tutto come prima,” stringe il libro, “Ne sei sicura?”

“Non sarà come prima. Perché tu promettimi che mi chiamerai per nome. Promettimi che ti ricorderai di me, vivida come ero.

Come dovrei ancora essere.”

L'intera realtà sembra essersi congelata, divenuta viscosa. Perfino l'aria che respiro sembra tanto appiccicosa da rimanere incastrata nei polmoni. È tutto sospeso, mentre il silenzio passa tra di noi, scorre tra le mie parole. Tutto immobile.

Ci siamo solo io e lui, di fronte ad un rettangolo di luce che ci investe e lacera le tenebre in cui eravamo.

Riesco a vederlo chiaramente in viso, ora.

Riesco a vedere come incurva le labbra.

Si volta immediatamente, nascondendosi al mio sguardo riparandosi dietro alle sue stesse spalle.

“Lo avrei fatto comunque,” risponde seccamente, “Una volta che ho imparato qualcosa, non riesco a dimenticarla. Ti avrei ricordato comunque…”

Aggiunge qualcosa sottovoce,

“Vivida com'eri.”

“Il patto è stretto,” dico, annuendo, “Ti ricordo che non potrai tirarti indietro, una volta siglato. Ma ormai è già troppo tardi, quindi non ti resta che ottemperare. Facciamo del nostro meglio per riuscire a catturare quel Gatto, Aidan.” Gli tendo la mano, e lui, gettando prima uno sguardo di sottecchi al di sopra della sua spalla, si volta a metà per stringerla, rivolgendomi un sogghigno di soddisfazione, “Cattureremo quello spirito e riavrai le tue emozioni, Kuri Azure,” dà un colpetto alla copertina del libro, “Sappi che non ho mai fallito, nemmeno una volta.”

Sinceramente, non so in cosa mi sto imbarcando. Sembra un'impresa folle e, se la raccontassi a qualcuno, probabilmente non riceverei che occhiatacce e sussurri derisori alle spalle. Tuttavia, una cosa è certa – ho dimenticato come come ci si sente, ad essere chiamati per nome.

Ma è qualcosa che voglio provare di nuovo.

 

 

 

 

 

   
 
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