Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    14/06/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~~ “Si è trattata di una festa veramente meravigliosa – disse Isabella Este, avvicinandosi ad Anna Maria Sforza, che sedeva nel palco d'onore – solo mi spiace non aver potuto parlare di persona con il maestro Leonardo...”
 Anna Maria, che aspettava con ansia di vedere arrivare i primi due uomini che sarebbero stato impegnati nella giostra fissata per quel 27 gennaio, sorrise alla cognata e disse: “Il maestro Leonardo raramente concede colloquio a chi non conosce...”
 Isabella Este sospirò e, dopo aver fatto un cenno di saluto alla nuova cognata, capendo che non avrebbe concluso nulla, parlando con lei, si andò a sedere al suo posto, non lontana dalla cugina Isabella d'Aragona.
 Quest'ultima era gonfia e sembrava anche un po' sofferente. Aveva voluto presenziare a quella giostra, perché, aveva detto, tutti dovevano ricordarsi che era lei la Duchessa di Milano e non Beatrice.
 “Dovreste riguardavi di più, cara cugina...” sussurrò l'Este, guardando il pancione dell'Aragona.
 Questa, scostandosi una ciocca di capelli rossi sfuggiti alla reticella, soffiò, sollevando una nuvoletta di vapore: “Mio marito accompagnerà il vostro sulla lizza, non potevo mancare.”
 Al che Isabella Este non oppose più resistenze e si mise come tutti in attesa dell'inizio della gara.
 Il primo a scendere in campo fu il signora di Mantova, come annunciato, che si fece precedere da diciannove cavalieri vestiti in velluto verde. I primi dodici, poi, portavano catene d'oro e lance dorate, a dimostrazione di tutta la magnificenza del loro signore.
 Dopo questo breve corteo, comparve il Marchese Francesco Gonzaga, accompagnato dal Duca di Milano, Gian Galeazzo, dal reggente Ludovico, e dal giovane Alfonso d'Aragona.
 Anche il signore di Mantova vestiva di verde e davanti alla sua prestanza e al suo sorriso che grondava sicurezza, Isabella Este, suo moglie, non riuscì a reprimere un moto di soddisfazione.
 Anche lo sfidante ebbe una scorta di tutto rispetto, anche se non paragonabile a quella del Gonzaga.
 Annibale Bentivoglio, signore di Bologna, vestiva di verde esattamente come il suo sfidante, ma i suoi ornamenti preferivano il color argento a quello dell'oro.
 Sfilarono poi tutti gli altri partecipanti, in tono sempre minore, e la cerimonia di apertura si chiuse con Ludovico che recitò una lode in favore di Beatrice.
 Con quell'astuta mossa, il Moro stava trasformando una giostra in onore della nipote Anna Maria in una giostra in onore della moglie Beatrice.
 
 Caterina fece ripetere una volta di più al cancelliere Giovanni Cardella quello che avrebbe dovuto dire in consiglio.
 L'uomo cantilenò tutta la pappardella imparata a memoria e, benché la Contessa ancora non fosse sicura dell'eloquio del cancelliere, la donna decise che era tempo di lasciarlo andare al palazzo.
 Il Consiglio era stato riunito al gran completo, quel giorno. A presiederlo c'era Giovanni delle Selle, che presenziava per Santa Croce assieme ad Alberigo Denti e Maestro Diaterco.
 Per San Mercuriale erano accorsi Giorgio d'Aste, Francesco Aspini e Francesco Pontiroli. Per San Pietro c'erano Francesco Numai, Bartolomeo Codiferro e Bonamente Torelli. E infine, per San Biagio, erano presenti Ettore Ercolani, Giorgio Castellini e Bernardino Maldenti.
 Tutti loro, il segretario Palmeggiani compreso, si aspettavano di vedere entrare nel salone la Contessa, come sempre, perciò rimasero un po' perplessi nel trovarsi davanti il cancelliere Cardella.
 L'uomo, sentendosi gli sguardi interrogativi di tutti addosso, raggiunse lo scranno che di solito era occupato dalla loro signora e prese a sbrigare le formule di rito della riunione. Molti sbuffarono, mentre altri cominciarono a porsi domande sul perché la Contessa avesse mandato il suo cancelliere.
 Inoltre, la Tigre non adempiva mai a tutte quelle formalità, dunque le lungaggini di quell'uomo risultarono indigeste alla stragrande maggioranza dei presenti.
 “Ma la Contessa è forse malata?” chiese alla fine Francesco Numai, preoccupato.
 Cardella alzò gli occhi su di lui, bloccandosi a mezza frase e, sbattendo le ciglia, disse: “No, no... Ha solo... Voleva solo...”
 “Come mai siete venuto qui voi al suo posto?” intervenne Giovanni delle Selle, con più veemenza.
 Cardella, quasi spaventato da tanta irruenza, decise di non rispondere a tutte quelle domande e di passare alla sua recita imparata a memoria.
 Quando il cancelliere ebbe finito di parlare, le reazioni del Consiglio non si fecero attendere.
 “Che intendete dire, quando affermate che questi terreni andrebbero comprati coi soldi pubblici?!” fece Giovanni delle Selle, alzandosi di scatto.
 “Da che mondo è mondo, dell'esercito della città si occupa il signore della città!” ribatté Ettore Ercolani, cercando supporto tra i vicini.
 “Forlì non può sobbarcarsi una simile spesa!” concluse a nome di tutti Francesco Numai: “Riferite alla Contessa che il Consiglio non darà mai la sua approvazione!”
 Il cancelliere, che ricordava come la sua signora gli avesse detto di controbattere in caso di simili rimostranze, provò a dire le sue ragioni, ma ogni volta che provava a parlare, qualcuno gridava più forte di lui e così la riunione si chiuse con un nulla di fatto.
 
 I festeggiamenti, a Milano, erano proseguiti senza intoppi anche se, volendo essere oggettivi, quello sfoggio di potere e ricchezza da parte degli Sforza sembrava tutto in favore di Beatrice Este, che non tanto del fratello Alfonso.
 Isabella Este era ripartita con il marito alla volta di Mantova prima di poter incontrare di persona il domine magister Leonardo e aveva appena fatto in tempo a parlare qualche momento con Cecilia Gallerani, la donna che tanto aveva ispirato il genio di Vinci.
 Si erano subito capite e le due donne si erano ripromesse di tenersi in contatto via lettera anche in futuro, nella speranza, un giorno, di potersi incontrare di nuovo e intessere un'amicizia più profonda.
 A Isabella non era sfuggito il fatto che la Gallerani fosse in stato interessante e comprendeva le inquietudini di sua sorella Beatrice, che paragonava quella donna a un diavolo. Non doveva essere per nulla bello, veder girare per la corte l'amante incinta del proprio marito.
 Tuttavia Beatrice non aveva ancora dato un ultimatum ufficiale al Moro e così Ludovico tergiversava, sfruttando, non senza una bella dose di faccia tosta, proprio la gravidanza della Gallerani come scusante.
 “Porta in grembo un figlio mio – aveva detto a Beatrice, per convincerla a lasciare Cecilia a corte ancora qualche mese – quando sarà nato, ti prometto che la manderemo via. Ma quello che porta in sé è sangue del mio sangue, come Maddalena, Bianca Giovanna e Leone.”
 In altre donne, il sentir citare con tanta disinvoltura il nome degli altri figli avuti dal marito prima del matrimonio da amanti di vario tipo avrebbe scatenato una reazione quanto meno violenta. Beatrice, invece, dimostrandosi molto più pratica di quanto il suo aspetto infantile non lasciasse immaginare, aveva apprezzato l'attaccamento di Ludovico verso i suoi figli, seppur illegittimi.
 Il fatto che quell'uomo amasse e tenesse in considerazione quei figli – la più vecchia dei quali aveva già più o meno tredici anni – inteneriva Beatrice e la faceva ben sperare. Se il Moro aveva tanto a cuore loro, chissà quanto avrebbe amato i figli avuti con lei!
 Isabella d'Aragona, invece, disprezzava il Moro per la girandola di amanti e figli illegittimi che sfoggiava senza troppi problemi perfino con la giovane moglie.
 Sosteneva che fosse inammissibile per il reggente del Duca avere una simile condotta. Che poi, non smetteva di ricordare a tutti – Gian Galeazzo compreso – a pensarci bene, Ludovico si ostinava a farsi chiamare 'reggente', ma ormai il Duca era maggiorenne, sposato e addirittura quasi padre. Che bisogno c'era, a Milano, di un 'reggente'?
 Il 30 gennaio, sorprendendo la comitiva ferrarese ancora a Milano, Isabella d'Aragona rese finalmente padre Gian Galeazzo Sforza.
 “Un maschietto, sì, sì...” andava raccontando Ludovico, che aveva cercato subito di minimizzare la cosa, quando invece l'aver scoperto che Isabella aveva partorito un maschio lo aveva innervosito tanto da rovinargli la digestione: “Lo vogliono chiamare Francesco, come mio padre...”
 Pure la scelta del nome lo aveva fatto infuriare. Chiamare quel neonato Francesco era come indicare in lui l'erede al Ducato. Un novello Francesco Sforza a Milano poteva mettere a tacere tutte le ambizioni del Moro in un sol colpo.
 Gli Este, ormai, dovevano per forza appoggiare Ludovico a scapito della parente e così anche i ferraresi gioirono per la nascita del piccolo, ma, similmente al Moro, finsero che non si trattasse, in fondo, di una grande notizia.
 Prima di partire alla volta di Ferrara, gli Este – che si sarebbero portati dietro pure Anna Maria Sforza, che ora faceva parte della loro famiglia – salutarono con tutto il trasporto possibile Beatrice.
 Eleonora d'Aragona, in particolare, la strinse a sé e, nel tentativo maldestro di rassicurarla circa la sua posizione fattasi precaria alla nascita del piccolo Francesco, le sussurrò: “Vedrai che anche tu avrai un figlio maschio e allora tuo marito saprà cosa fare.”
 
 La signora di Forlì, dopo aver sentito quello che Cardella aveva da dire, decise di non dare risposta al Consiglio per qualche giorno.
 Forse il cancelliere aveva un pochino ingigantito le invettive dei membri del Consiglio, forse non era stato in grado di perorare abbastanza la causa della sua signora, fatto restava che il no dato dai rappresentanti della città bruciava enormemente a Caterina.
 Quei boriosi politicanti o sedicenti tali non avevano nemmeno provato a capire le potenzialità di un quartiere per i soldati. Costruendolo, le famiglie e i quartieri più poveri di Forlì sarebbero stati alleggeriti come non mai. I soldati avrebbero avuto alloggi decenti, anche se provenienti dai ceti più disagiati e il loro sostentamento sarebbe stato garantito dal vitto fornito al quartiere.
 Si trattava di un'innovazione epocale, che avrebbe portato alla formazione di un esercito stabile e permanente, stipendiato in modo regolare e più facile non solo da comandare in tempo di guerra, ma anche da organizzare in tempo di pace. Solo che una simile struttura non poteva gravare sui fondi privati della Contessa. Le tasse avrebbero alimentato le casse dedicate agli stipendi dei soldati e al loro mantenimento nelle nuove strutture. Era la soluzione più economica e più efficace. Perché non l'avevano capito?
 Il mutismo in cui si chiuse Caterina per giorni fece preoccupare molto il Consiglio. Anche nei momenti più difficili, la signora di Forlì non si era mai negata così a lungo né si era nascosta nella sua rocca senza uscirne mai.
 Nemmeno il Conte Ottaviano era facile da raggiungere e quando, per puro caso, uno dei Consiglieri era riuscito ad avere un breve abboccamento con lui, era stato chiaro che il ragazzino non fosse per nulla al corrente della proposta della madre di far costruire un nuovo quartiere militare in città.
 In realtà nel silenzio protratto di Caterina non c'era solo una motivazione politica. Aveva capito che stando lontana dagli affari di Stato, il suo umore si faceva più disteso e incline alla pace domestica.
 Si sentiva profondamente egoista, nel preferire la compagnia del marito e dei figli a quella dei Consiglieri di Forlì, ma una volta assaggiato il sapore di una vita quasi normale, una strana indolenza l'aveva portata a indulgere in quel pigro fatalismo che la teneva lontana dai palazzi del potere.

 Beatrice Este, che prima di partire per Milano, si era prefissa come obiettivo quello di far capitolare un uomo potente e attraente come Ludovico Sforza ai suoi piedi, aveva imparato in fretta a muoversi nella corte più importante della Lombardia.
 Per quanto il marito, ogni tanto, cercasse di avvicinarla in modo più intimo, Beatrice non riusciva a vincere la sua timidezza e faceva intendere al Moro che non era ancora tempo di abbandonarsi a certi passatempi e Ludovico, di buona grazia, assecondava la ragazzina.
 Bianca Giovanna, di nove anni, era una delle figlie illegittime del reggente del Duca e aveva fin da subito dimostrato una grande simpatia per la consorte del padre. Le due, più o meno della stessa altezza, malgrado la differenza d'età, venivano viste passeggiare a braccetto per il palazzo di Porta Giovia a ogni ora del giorno, ridendo e scherzando come vecchie amiche.
 Il Moro era felice di quella situazione perché, sopra ogni cosa, gli aveva permesso di ritardare la cacciata di Cecilia da palazzo. Con un abile giro di parole e ragionamenti, Ludovico era anche riuscito a strappare a Beatrice il permesso di accompagnarsi alla Gallerani 'almeno finché voi non mi concederete la vostra compagnia'.
 Beatrice, che all'inizio aveva accettato di malavoglia, si era poi trovata entusiasta di questo compromesso. Ludovico con lei restava dolcissimo e accomodante in ogni cosa, e non cercava più di metterle fretta, perché aveva qualcuno con cui distrarsi senza doversi nascondere.
 La giovane Este, cominciando a mostrare il suo vero carattere, aveva preso a scandagliare ogni angolo del palazzo, cacciandosi in mille guai, come la più pestifera delle bambine e aveva iniziato a conoscere tutti gli abitanti di quella corte, apprezzando ogni giorno di più le mille possibilità che Milano le offriva.
 Inoltre Beatrice stava dimostrando di amare alla follia anche la campagna e tutto ciò che concerneva la vita all'aria aperta. Questa passione – benché fosse nell'uno più orientata al giardinaggio e all'agricoltura, nell'altra alla caccia e alla pesca – era per marito e moglie un ennesimo punto di ritrovo che li avvicinava ulteriormente.
 Ludovico, intanto, simulando con lei una tranquillità notevole, stava brigando per affondare un colpo ferale al nipote Gian Galeazzo.
 Tanto per cominciare, il Moro aveva lasciato che Isabella e Gian Galeazzo vivessero a corte con lui, ma aveva affibbiato loro gli alloggi più scomodi, più freddi e mal illuminati di tutto il palazzo.
 Se il Duca non dava molto peso a quello stile di vita oltremodo spartano per un uomo del suo rango, Isabella d'Aragona stava per impazzire. Voleva accudire il suo piccolo Francesco e passare del tempo con suo marito, ma ogni cosa in quell'ala del palazzo le risultava sgradevole.
 “Inoltre – aveva detto con franchezza al Moro, una sera – Gian Galeazzo soffre molto di più per la sua malattia, da quando siamo qui!”
 Ludovico aveva alzato le spalle con un semplice: “Allora tornatevene a Pavia.”
 Lo sbuffo indispettito della Duchessa aveva lasciato ben sperare al Moro, che già pensava al secondo punto del suo diabolico piano.

 Finalmente, passato quasi un mese, spinta soprattutto dall'Oliva, Caterina si decise a rimandare il cancelliere a parlare con il Consiglio.
 Cardella non se la cavò meglio della prima volta, tuttavia il prolungato silenzio della Contessa aveva avuto un certo effetto sui rappresentanti dei forlivesi.
 La riunione si chiuse in una vera e propria rissa, tra chi voleva il quartiere e chi non lo voleva e, dopo la fuga a gambe levate del cancelliere, Giovanni delle Selle prese il comando del Consiglio e decise di far chiamare otto esperti in materia, affinché li aiutassero a decidere senza pregiudizi, pensando solo al bene della città.
 Il 27 febbraio, alla presenza del Consiglio arricchito dagli otto saggi, il cancelliere Cardella lesse l'ultima missiva di Caterina, in cui si ribadiva la necessità di quella miglioria e si minacciava, non troppo velatamente, di sciogliere il Consiglio, in caso di un nuovo nulla di fatto.
 “Solo a una condizione.” aveva concluso Giovanni delle Selle, quando il cancelliere aveva chiesto una risposta definitiva al Consiglio: “Che la Contessa si impegni a incontrare di persona i quattro progettisti che abbiamo scelto e ne elegga uno come responsabile.”
 Il cancelliere si affrettò a dire che la Contessa avrebbe incontrato volentieri quegli uomini, ma il Consigliere aggiunse anche: “E che prende una decisione su quello che sta accadendo a causa dei pedaggi imposti agli stranieri!”
 Cardella si accigliò, senza capire, ma asserì che la signora di Forlì avrebbe provveduto a tutto.
 “Che poi perché non si presenta al Consiglio da gennaio?” chiese a mezza bocca Francesco Numai al suo vicino di sedia, Ettore Ercolani, quando il Consiglio si stava dileguando, una volta finita la riunione.
 “Evidentemente ha di meglio da fare.” insinuò Ercolani, con una risatina e un gestaccio volgare che Numai accolse con un'espressione un po' scandalizzata.
 In realtà, però, anche lui la pensava esattamente allo stesso modo.

 “Perché glielo hai lasciato fare?” chiese Isabella, tamponandosi gli occhi con la manica, mentre le lacrime ancora scendevano roventi sulle sue guance.
 “Nostro figlio merita di crescere a corte, servito e riverito come un gran signore.” ribatté Gian Galeazzo, che però era avvilito quanto la moglie, se non di più: “Non possiamo certo lasciare che cresca a Pavia, in quella specie di carcere.”
 “Ma è nostro figlio...!” fece Isabella, con una specie di rantolo, mentre i singhiozzi riprendevano.
 La carrozza su cui viaggiavano ebbe uno scossone, probabilmente per un cumulo di neve ghiacciata, e Gian Galeazzo fece una smorfia di dolore, quando la sua schiena sbatté contro il legno bitorzoluto dello schienale.
 Sapevano entrambi che non potevano più restare a Milano.
 Gian Galeazzo non faceva che peggiorare, negli alloggi che suo zio gli aveva rifilato, e non aveva la forza di imporsi e prendere per sé le stanze migliori, occupate nell'ordine dal Moro, da sua moglie Beatrice e dalla sua amante Cecilia.
 Isabella, invece, era stata isolata da tutte le donne della corte, e perfino il servidorame la trattava con sufficienza, rendendola impossibile la vita di tutti i giorni e penosa ogni cosa. Il suo opporsi, poi, alla cugina Beatrice, che invece era benvoluta da tutti, l'aveva resa indicibilmente invisa a tutti i cortigiani, finanche a quelli che non la conoscevano di persona.
 Quando avevano espresso il desiderio di tornare al castello di Pavia, Ludovico ne era stato entusiasta e si era sbrigato a proporsi come protettore del loro piccolo Francesco, impegnandosi davanti a tutti a prendersene cura e crescerlo 'alla guisa d'un principe'.
 Gian Galeazzo aveva tentato debolmente di opporsi e così aveva fatto anche Isabella, ma il Moro li aveva messi in una posizione molto scomoda, davanti alla corte e così i due giovani genitori non avevano potuto fare altro, se non separarsi dal loro amato Francesco.
 “Troveremo il modo di riprendercelo.” promise Gian Galeazzo, che si sentiva terribilmente stanco e desideroso di perdersi nei fumi del vino e nell'ebrezza della caccia tra i boschi pavesi: “Appena starò meglio...”
 Isabella, a quelle parole, non si trattenne più e and avanti a piangere disperata per tutto il tragitto.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas