Dedicata ad Hareth, che ha trovato il suo Aeglos
e ne ha fatto suo marito. Mi raccomando, almeno tu non scappare di casa a
intervalli regolari!
‘Til then I walk alone
Quando
aprì gli occhi non riuscì subito a mettere a fuoco ciò che lo circondava e dovette
sforzarsi, cercando di non pensare alla sensazione che il cervello stesse
tentando di uscirgli dalla testa attraverso gli occhi e le orecchie. Sentiva
dolore in ogni punto del suo corpo, gli facevano male le braccia, le gambe,
persino i capelli sembravano attaccati al suo cranio con i chiodi.
Quando
finalmente la sua vista si schiarì non riconobbe il soffitto, bianco e liscio,
di semplice intonaco. Non era sulla Stella,
questo era certo, e non era nemmeno nella stanza che aveva condiviso con Silevril alla locanda, o in casa di Finrod
Felagund.
Non
riusciva a ricordare esattamente cosa fosse successo, sentiva unicamente la
vaga certezza che Rùth fosse l’ultima cosa che aveva
visto. Il ricordo di quegli occhi, quelle labbra, quel corpo… Non poteva perdercisi,
non quando il solo atto di ricordare acuiva il suo già terribile mal di testa.
Mosse
lentamente un braccio, posato sul copriletto, e fu difficilissimo anche solo
spostarlo di pochissimi centimetri.
Qualcosa
gli impediva di muoverlo, qualcosa di morbido e caldo e pesante.
Una mano.
Abbassò lo
sguardo e il cuore gli si strinse. Laer era
addormentata, seduta su una sedia di legno, piegata in avanti, con la testa sul
letto e la destra che stringeva la sua mano sulla coperta. Respirava piano, con
la bocca leggermente aperta, i capelli che sfuggivano in modo disordinato dalla
treccia e le nascondevano appena il viso.
Le
lentiggini risaltavano come se fossero di fuoco sulla pelle pallida e le davano
un’aria da bambina, così familiare che a Galmoth
veniva da piangere.
Laer era lì, era viva, era con lui.
Rimase a
fissarla, senza parlare, senza svegliarla, esattamente come aveva fatto tante
volte quando era bambina, come faceva ancora sulla Stella, quando lei non lo vedeva. Assomigliava così tanto a suo
padre che, all’inizio, Galmoth l’aveva guardata
perché così riusciva a sentirsi un po’ più vicino a quell’amico perduto, ma man
mano che la guardava, aveva iniziato a farlo solo per lei, per la sensazione di
pace e calore che lo invadeva.
L’aveva
vista cambiare da bambina a donna senza mai staccare gli occhi da quel viso e
aveva rischiato di perderla perché era uno sciocco.
Strinse
appena le dita attorno al suo palmo e quel movimento la scosse, svegliandola.
Appariva
leggermente confusa, come se il sonno l’avesse colta di sorpresa, si mise
seduta e infine vide Galmoth che la guardava
sorridendo, sveglio e stanco.
< Galmoth! > esclamò, il sollievo ben udibile, < sono
così contenta! Per tutti i Valar, credevo di averti
perso! >
Gli si
gettò letteralmente addosso, strappandogli un gemito.
< Mi
dispiace > disse, ritirandosi, < ti ho fatto male? >
< Non
c’è bisogno che sia tu a farmi male, > rispose Galmoth,
la voce ancora impastata, < ho dolore in ogni singolo punto del mio corpo.
>
< Come
ti senti, a parte i dolori? >
< A
parte i dolori sto bene… beh, sono stanco come se avessi camminato per miglia e
miglia per poi essere calpestato da una guarnigione intera a cavallo, ma
immagino che me la caverò. >
Laer gli fece un gran sorriso e il suo
volto si illuminò.
< Credevo
che fossi morto, quando ti ho trovato sul pavimento a casa di Finrod. Tutti quegli uomini accanto a te lo erano e tu… eri
così freddo! > Rabbrividì. < Rùth ti ha risparmiato. >
< Forse
credeva di avermi ucciso. >
< No,
se avesse voluto ucciderti lo avrebbe fatto. >
Rimasero
in silenzio per un po’.
< Dove
sono? > chiese infine Galmoth, < Cosa è
successo? >
< Sei
alle Case di Guarigione. Tre giorni fa Rùth si è
liberata, ti ha quasi ucciso e ha attaccato la sala del trono. Silevril appena l’ha vista… non so che genere di potere
quella donna avesse, Finrod ha tentato di
spiegarmelo, ma io non so nulla dell’Antico Nemico, degli Anni Oscuri e di
queste cose. Quello che so è che Silevril ha usato il
potere del Tesoro di Ulmo per riversare il Mare nell’Anduin e inondare la Città. >
Galmoth sospirò. Lo aveva immaginato,
aveva capito cos’era successo nell’istante in cui aveva aperto gli occhi. Non
era stato in grado di fermarlo, aveva avuto paura dell’elfo, non avrebbe dovuto
nemmeno permettergli di rimanere solo con Rùth.
< Non è
colpa tua, > lo rimproverò la ragazza, come se gli avesse letto nel
pensiero, < non è colpa di nessuno, se non di Rùth.
Ed ora il Re è morto e decine e decine di persone sono morte nell’inondazione…
e la Stella… >
Galmoth si sentì attorcigliare lo stomaco.
< La Stella cosa, Laer?
>
< Tutte
le navi che erano al porto sono state distrutte. >
La voce
della ragazza tremava.
Riusciva
ancora a ricordare di quando, subito dopo essere caduto in disgrazia agli occhi
del Principe e aver perduto tutti i suoi averi, era andato al porto, con Laer che lo seguiva anche se era già grande abbastanza da
poter avere una vita sua. Ricordava della nave, piccola e mal ridotta,
attraccata accanto a quella per cui Laer stava
contrattando. L’aveva vista e l’aveva amata di un amore immediato e viscerale,
ignorando le parole del venditore, le parole di Laer
che gli chiedeva se era pronto a chiudere l’accordo.
Aveva
speso tutti i soldi che gli rimanevano per la Stella Marina, nonostante le proteste della ragazza, senza mai
pentirsene.
Ed ora non
esisteva più.
<
L’equipaggio? > Aveva paura della risposta.
< Sono
riusciti a salvarsi, > disse Laer e lui tirò un
sospiro di sollievo, < anche se Conn si è rotto
una gamba e probabilmente dovrà camminare con un bastone per il resto della sua
vita. Forlond ha qualche graffio e Barry sta benone,
lo hanno preso a lavorare qui, alle Case di Guarigione. >
Laer lo guardò, in attesa che lui
facesse la domanda che sapeva di dover porre, prima o poi.
< Silvril? >
Aveva
quasi paura a chiedere di lui. Non voleva pensare al viso dell’elfo, al nulla
che aveva visto nei suoi occhi, alla voce tagliente che lo aveva fatto sentire
come un bambino tremante. Aveva guardato dentro di lui e ci aveva scorto
un’ombra che lo aveva terrorizzato nel profondo.
< Sta
bene, > disse Laer, piano, < è tornato quello
di sempre. >
Non
rispose. Non riusciva a dire a Laer ciò che pensava
veramente, cioè che Rùth non aveva rubato l’anima
dell’elfo con un incantesimo, ma aveva semplicemente aperto una porta per
permettere alla sua vera essenza di fuoriuscire.
Non poteva
dire questo a sua figlia, così evidentemente innamorata di Silevril
da non riuscire ad andare oltre l’immagine che ne aveva fatto nella sua mente.
< Sai,
> disse lei, improvvisamente, < sono stata io. Silevril
stava in piedi sulle mura, a distruggere tutto, a delirare di Uinen, di potere e chissà che altro, ed io sapevo che mi
avrebbe ascoltata, sapevo che avrei potuto toccarlo. Gli ho preso la mano e lui
è tornato in sé. >
Lo guardò,
aspettandosi probabilmente che lui dicesse qualcosa, ma Galmoth
rimase in silenzio.
La
stanchezza era ormai parte di lui e faticava a tenere gli occhi aperti, mettere
insieme una risposta per Laer era troppo difficile in
quel momento.
< Ti
lascio riposare, > disse, alzandosi di scatto e lasciando la stanza.
Il suono
della porta che si chiudeva dietro di lei risuonò come un colpo di martello
nella sua testa dolorante.
Non sapeva
perché, ma si era ritrovato seduto al tavolo in casa di Finrod,
con una tazza fumante di un qualcosa che non aveva mai assaggiato prima. “Tè”,
lo aveva chiamato l’elfo che se ne stava di fronte a lui, in silenzio e senza
guardarlo, gli occhi persi nella stessa bevanda calda.
Silevril ne prese un altro sorso: era amaro
e intenso, gli provocava una strana sensazione nelle vene, come se piccole
scosse lo attraversassero velocemente.
<
Contiene al suo interno una sostanza eccitante, > disse Finrod,
quasi casualmente, < ma per qualche strano motivo, io lo trovo estremamente
rilassante. >
Non
rispose e il silenzio si allargò tra loro fino a divenire quasi fisico.
Erano tre
giorni che non vedeva l’altro e li aveva passati rimuginando, inquieto, finché
non aveva preso il coraggio a due mani ed era andato a casa sua. Si maledisse
mentalmente, perché ora era lì e non sapeva cosa dire, l’unica cosa certa era
che staccare gli occhi da lui era impossibile.
<
Voglio rimanere qui, con te. >
Finrod alzò di scatto la testa,
piantandogli addosso uno sguardo severo. Silevril si
mosse a disagio sulla sedia, ma il Noldo era
implacabile, lo faceva sentire nudo.
< No.
>
<
Perché no? > la voce gli uscì come un lamento.
Finrod sospirò e posò la tazza sul
tavolo, alzandosi e andandogli davanti. Prese una sedia e si sedette di fronte
a lui.
Il suo
volto era liscio e senza età, ma la fronte era aggrottata e tra i capelli si
intravedevano sottili fili d’argento, quasi che la vecchiaia mortale lo stesse ormai raggiungendo. Il potere che emanava era pari
solo alla fragilità che stava dimostrando.
<
Odieresti rimanere qui, > disse e quando Silevril
fece per controbattere lo zittì, < No, anche se adesso pensi che mi sbaglio,
so che è così. C’è il mare in te, Silevril, ne hai un
bisogno disperato e tenerti qui sarebbe orribile da parte mia. >
Si bloccò
un attimo e gli mise una mano dietro la nuca, avvicinando le loro fronti. Con
l’altra mano prese la sua tazza e l’appoggiò sul tavolo.
Silevril era come ipnotizzato da quegli
occhi, dalla sensazione del suo respiro così vicino.
< Non
riuscirei mai a lasciarti andare, se ora rimanessi qui. >
< Non
puoi decidere per me. >
< Sì
che posso, > sorrise appena, < sei giovane ed arrogante ed hai ereditato
la mancanza di buon senso da entrambi i tuoi genitori. Deciderò io per te. >
Si sporse
leggermente e gli posò un bacio sulle labbra.
Fu appena
uno sfiorarsi, prima che Finrod interrompesse il
contatto.
< Ho
sempre amato chi non avrebbe mai potuto ricambiare > disse, alzandosi in
piedi.
Qualcosa
scattò in lui, come una voce che gli gridava di fare qualcosa, di non lasciare
che quella sensazione svanisse. Avrebbe potuto dirgli che non era vero, che lo
amava, che non lo avrebbe mai lasciato, ma sarebbe stata una menzogna.
Eppure
aveva bisogno di Finrod, di saziare quel desiderio,
di zittire quella voce, di cancellare una volta per tutte l’immagine dell’elfo
che aveva avuto in testa fin dal loro primo incontro.
Non sapeva
cosa provasse, né se provasse effettivamente qualcosa, sapeva soltanto che Finrod era lì e che non c’era altro da fare se non quello.
Gli
afferrò il polso, tirandolo a sé con forza, poi quando fu vicino gli prese la
casacca, attirandolo ancora.
Lo baciò,
ma non fu come il precedente, non fu un tocco né leggero né breve.
Si spinse
verso di lui, immobilizzandogli il volto, forzando le sue labbra ad aprirsi e,
sorprendentemente, non trovò resistenza. Finrod
sapeva di tè e miele e le loro lingue si accarezzavano. Silevril gli mise
una mano nei capelli e li tirò leggermente, l’altro gli afferrò gentilmente le
guance per tenerlo fermo.
Avrebbe
voluto rimanere così per sempre, ma non fu possibile. L’elfo lo allontanò
bruscamente, ansimando come dopo una lunga corsa, lo sguardo un pozzo di
sofferenza.
<
Questo, > disse con voce rotta, < non sarebbe mai dovuto accadere. >
Lo fece
alzare, quasi di peso, soffermandosi un momento di troppo prima di lasciare la
presa.
Silevril avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma,
così come era arrivato, il desiderio si era spento e tutto ciò che rimaneva era
il fascino che quell’elfo, così antico e così mortale, esercitava su di lui.
Sentiva
solo il vuoto dentro e Finrod sembrò capirlo subito.
< Te
l’avevo detto, no? > gli sorrise, triste.
Cosa
poteva aggiungere?
Si morse
un labbro, mentre lo oltrepassava e si avviava verso la porta, lasciandolo da
solo, le tazze di tè ancora calde sul tavolo, come una promessa.
Si chiuse
la porta alle spalle, gli occhi che gli bruciavano per la fatica di trattenere
le lacrime. Perché piangere? Era forse un bambino?
Non riuscì
a farne a meno e si asciugò le guance con rabbia, avviandosi lungo la strada,
verso la locanda in cui alloggiava.
Aveva
davvero creduto… cosa? Che cosa aveva provato per Finrod?
Una parte di lui voleva tornare indietro e costringerlo a tenerlo con lui, ma
era flebile e stava svanendo.
Sentiva
ancora il suo sapore in bocca.
< Se
fossi rimasto, non avrei potuto sopportarlo, > disse una voce alle sue
spalle.
Si voltò
di scatto, sorpreso di trovare suo padre lì, come in agguato nell’ombra.
< Mi
seguivi? >
<
Naturalmente. >
Aeglos sembrava tranquillo, noncurante,
mentre lo raggiungeva e camminava al suo fianco.
< Perché
mi seguivi, Adar? Non lo sai che sono ormai un
bambino grande? > Sorrise di sbieco, mascherando l’amarezza sotto una patina
di ironia.
<
Perché non potevo lasciarti fare ciò che volevi fare, > rispose laconico,
< e non mi fido di Finrod Felagund
su queste cose. Ho visto cosa c’è tra di voi, ho letto il desiderio nei vostri
occhi. >
Gli
afferrò un polso, fermandosi e costringendo Silevril
a guardarlo in faccia.
Aeglos sembrava stanco come non mai,
aveva delle escoriazioni su uno zigomo e le labbra pallide, ma gli occhi erano
quelli di sempre.
< Finrod Felagund è intrappolato in
un riflesso, > disse, < l’ombra di un amore che non potrà mai essere e
tu, Silevril, sei innamorato del potere. >
< Non
devi preoccuparti per me, > si divincolò bruscamente dalla stretta di suo
padre, < era solo un’illusione. Ma non potrete controllarmi per sempre, non
potere continuare così. Tu e Alatariel dovete
lasciarmi andare! Perché siete qui? >
Tutta
l’amarezza, la rabbia, la stanchezza di quei giorni gli si riversarono addosso
in quell’istante. Avrebbe voluto colpire Aeglos,
fargli capire che la sua presenza era come una corda che lo legava.
Ma Aeglos lo bloccò di nuovo, costringendolo in un abbraccio.
Erano passati tre giorni e non si erano ancora toccati, non dopo
quell’abbraccio disperato sulle mura, subito dopo che tutto era finito.
Come ogni
volta, non riuscì ad evitarsi di ricambiare, perdersi nell’abbraccio
rassicurante di suo padre.
< Ho
temuto che fossi morto. >
< Ma
non lo sono,ogni cosa è andata per il meglio. >
< Torna
a casa, con me, con tua madre. >
Lo stava
supplicando, quasi soffocandolo in quell’abbraccio disperato.
< Lo so
che ti ho spinto ad andare via, che ho finto di appoggiarti, ma mentivo. >
< No, adar, non posso tornare nella vostra bolla di ossessioni e
sensi di colpa. >
Aeglos si irrigidì.
< Sì,
padre, non fingere di non capire, > disse Silevril
scostandosi, < non capite che mi avete ucciso con il vostro amore? Cerco di
fuggire e voi mi seguite fin qui, a Minas Tirith, perché credevate che fossi morto? Non vi avevo
forse giurato che sarei tornato? Tu e mia madre vivete in questo vortice di amore
malsano ed io non posso più farne parte. >
Guardò suo
padre e per la prima volta in vita sua non riuscì a decifrarne l’espressione,
sembrava una statua, lui che di solito era un libro aperto. Lo aveva ferito
così profondamente?
Sentiva
come mille lame nel petto. Sofferenza, in ogni parte del suo spirito.
Ma non
poteva fare altro, non aveva nessun altro mezzo per potersi distaccare da tutto
quello, non quando la lontananza fisica non era servita a nulla, non quando la
cosa che desiderava di più era proprio ciò che suo padre gli chiedeva.
Era grato
che sua madre non fosse lì, non sarebbe mai riuscito a dire a lei ciò che stava
dicendo ad Aeglos.
Per un
attimo desiderò rifugiarsi sotto lo sguardo potente di Finrod,
ma poi quel pensiero svanì e sentì sulle labbra il ricordo delle labbra di Laer.
<
Prendi tua moglie e vattene, Aeglos, > asserì
infine, < torna a casa nostra, sulla scogliera. Io vi troverò lì, prima di
attraversare il Mare, lo giuro, ma ora devo poter vivere. >
Gli voltò
le spalle e se ne andò, lasciandolo come impietrito sulla strada, il ricordo
della sua infanzia che sbiadiva al sole.
Le lacrime
che aveva non erano abbastanza.
***
Avete avuto il bacio tra Silevril e Finrod, avete avuto un
momento padre/figlio molto fluff e uno molto angst,
insomma si può dire che ce n’è per tutti i gusti. Ci avviamo alla conclusione,
il prossimo capitolo sarà l’ultimo di questa storia e poi epilogo, spero che
prima o poi voi numeretti silenziosi vi farete sentire. Io comunque continuo a
salutarvi e augurarvi lunga vita e prosperità!
P.S. il titolo è un famosissimo
verso di “Boulevards of broken
dreams” dei Green Day