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Autore: Adeia Di Elferas    16/06/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Perché, che problemi hanno dato, i pedaggi imposti agli stranieri?” domandò Caterina al Cardella,  questi fece spallucce e mostrò i palmi delle mani.
 La Contessa, infastidita, gli disse che poteva andare e fece chiamare alla rocca Luffo Numai.
 Aveva appena incontrato i quattro uomini proposti dal Consiglio per la costruzione del quartiere militare e aveva scelto chi di loro se ne dovesse occupare, quindi non avrebbe avuto voglia di altri impegni di quel genere, almeno per quel giorno. Tuttavia non poteva nemmeno ignorare una precisa richiesta del Consiglio.
 Dalla parole di Cardella aveva intuito una scomoda verità, ovvero che i Consiglieri si stavano indisponendo, per la sua mancanza di attenzione degli ultimi tempi. La sua vita le aveva insegnato fin troppo bene cosa capitava quando il signore di una città diventava inviso a chi avrebbe dovuto sostenerne il governo, perciò doveva arginare il danno finché poteva.
 Luffo Numai arrivò a Ravaldino quasi subito dopo essere stato chiamato e così Caterina poté subito farsi spiegare da lui cosa stesse accadendo di così drammatico da portare alla richiesta fatta dal Consiglio.
 Numai spiegò che in seguito all'istituzione del pedaggio, molti stranieri delle terre immediatamente vicine avevano cominciato a perpetrare aggressioni anche gravi nei confronti dei forlivesi che dovevano passare per i loro paesi.
 “I pesaresi, poi – aveva detto Luffo, scuotendo il capo contrariato – hanno cominciato a pesare i forlivesi che passano dalla loro città come 'libbre di pere', dicono e li fanno pagare in base al loro peso. Così i nostri tagliano per i monti, ma si mettono in pericolo, con le gelate che ancora ci sono in questi giorni...”
 Caterina rimase molto colpita da una simile rivelazione. Da troppo tempo, si rese conto, non faceva i suoi soliti giri a cavallo nelle campagne e in città.
 “Va bene... Allora farò in modo che resti solo il posto di blocco sulla via Emilia e leviamo l'altro.” decretò la Contessa: “Non possiamo toglierli entrambi, ma almeno ammorbidiremo la situazione...”
 Numai annuì, lasciando intendere di essere d'accordo e così Caterina ritenne conclusa anche quella faccenda.

 'Ha di fatto incontrato i quattro mandati dal Consiglio, e ne ha scelto uno infine, tuttavia, non mi pare intenzionata a seguire a fondo i lavori e temo che questo disinteresse sia da imputare a chi sappiamo. Il quartiere è una buona cosa, per la città, ma non il fatto che lei se ne disinteressi e che non mi lasci il potere di seguire di persona le cose. Non fa altro che stare con lo stalliere e non hanno nemmeno stanze separate. Il figlio che è nato dalla loro relazione è protetto giorno e notte e dunque non posso nemmeno sfogare il mio rancore con lui. Attendo una vostra risposta, ma vi posso già dire che nella zona in cui ha messo i suoi posti di pagamento del pedaggio e in quella di Tossignano ci sono persone che la pensano come noi.'
 Raffaele si passò lentamente un dito sulle labbra, perplesso. Dopo aver tanto invogliato il cugino alla calma, ecco che Ottaviano partiva con piani mirabolanti e vendette senza senso ai danni di un neonato.
 Con un vago tremore nelle mani, il Cardinale Sansoni Riario prese il necessario per scrivere e, improvvisamente mosso dallo spirito cristiano che di tanto in tanto riaffiorava in lui, cominciò la sua lettera con parole di rammarico per l'astio del giovane Conte: 'Non odiate vostro fratello, perché  è appena un neonato e non ha colpa alcuna.'
 Si perse in esempi biblici e grandi paroloni che aveva sentito in molte omelie di Innocenzo VIII e poi passò a ciò che gli premeva di più: 'Tenete d'occhio vostra madre e riferitemi ogni problema, ma non prendete iniziative, per il momento. Il quartiere militare di cui mi parlate è una cosa molto bella, per la città e sono certo che la Contessa se ne prenderà cura com'è suo costume. Tenetemi informato, ripeto, ma per ora non agite in modo impulsivo.'
 Raffaele appoggiò entrambe le mani sulla scrivania e si chiese se stesse facendo la cosa giusta, con i suoi nipoti.
 Proprio accanto al boccettino d'inchiostro, occhieggiava un'altra lettera, sempre giunta da Forlì, scritta da una madre preoccupata, le cui parole mettevano in croce Cardinale.
 Sapeva che anche Ascanio Sforza ne aveva ricevuta una simile e che in entrambe la richiesta d'aiuto era la medesima.
 Caterina Sforza, la Tigre di Forlì, la donna che non aveva temuto la morte nemmeno quando l'aveva guardata negli occhi, chiedeva il soccorso del cugino acquisito e dello zio e lo faceva per suo figlio Cesare.
 'Prima che il mio primogenito Ottaviano, sempre più simile al defunto padre, con i suoi ragionamenti contorti e le sue ossessioni, rovini del tutto suo fratello Cesare – aveva scritto a Raffaele – vi prego di aiutarmi ad avviare il mio secondogenito alla carriera ecclesiastica, sottraendolo alla vicinanza del fratello maggiore'.
 Il Cardinale si prese un momento, in cui cercò con tutto se stesso una risposta al suo dubbio. A chi doveva dare ascolto? Chi gli stava dicendo la verità? Ottaviano, che accusava la madre di essere una donna ormai ottenebrata dall'uomo che l'aveva conquistata tramite la pura attrazione carnale, tanto da essere disposta a oscurare il figlio in favore dell'amante, o a Caterina, che accusava il figlio di aver ereditato il carattere fragile e sospettoso del padre, al punto dall'essere in grado di rovinare il fratello con la sua semplice vicinanza?
 Raffaele scosse con forza il capo e chiuse la lettera per Ottaviano con l'ennesima raccomandazione e poi fece colare la ceralacca.
 Si sarebbe per il momento tenuto in disparte, equidistante dalle parti. Col tempo, Dio gli avrebbe fatto capire chi diceva la verità.

 La corte di Ludovico Sforza si era riunita a Vigevano, sia per controllare i lavori messi a punto dal maestro Leonardo, sia per sfuggire dal clima inclemente di Milano.
 “La neve la si sopporta meglio in campagna.” così aveva detto laconicamente il Moro, quando aveva detto a Cecilia che sarebbe andato a Vigevano: “Ma il vostro stato vi impone di evitare i viaggi.” e così l'aveva lasciata a Milano, senza che lei trovasse modo di ribattere.
 In effetti Cecilia non aveva voglia di andare a Vigevano per due motivi, il primo era che non aveva alcuna intenzione di stare in un palazzo più piccolo di quello di Porta Giovia assieme a Beatrice Este, il secondo era che le piaceva stare insieme al piccolo Francesco, figlio del nipote di Ludovico.
 Saputo dello spostamento massivo della corte, Isabella d'Aragona spinse il marito Gian Galeazzo a fare un tentativo. Lo aveva convinto che se fossero riusciti ad andare a Milano con il benestare di Ludovico mentre lui era a Vigevano, avrebbero potuto riprendersi il loro bambino e portarlo a Pavia, e a quel punto il Moro non avrebbe più potuto avanzare pretese sul piccolo Francesco.
 Con una certa riluttanza, alla fine Gian Galeazzo aveva assecondato la moglie e così, rinunciando addirittura a una battuta di caccia che prometteva come minimo un paio di cinghiali come preda, il Duca partì alla volta di Vigevano assieme alla moglie e a una piccolissima scorta.
 “Torneremo in giornata – fece Gian Galeazzo, evitando lo sguardo dello zio – vogliamo solo vederlo per un paio d'ore, poi torneremo qui a dimostrazione della nostra buona fede.”
 Ludovico guardò il nipote e poi Isabella. Se Gian Galeazzo fosse stato solo, con il suo sguardo basso e il suo viso reso scarno dalla spossatezza fisica, forse gli avrebbe detto di sì.
 Tuttavia, gli occhi accesi di Isabella e il suo innegabile fascino, che trapelava anche mentre se ne stava lì in un angolo del salone in attesa, convinsero il Moro a opporre un rifiuto: “Il bambino sta bene – disse sbrigativamente – quindi mi pare un appetito da giovani sconsiderati e leggeri, quindi rinunciate ad andare.”
 Ovviamente non fece cenno al suo timore, quello più inconfessabile, ovvero che sarebbe bastata la presenza della Duchessa Isabella, ai milanesi, per preferire Gian Galeazzo al Moro. Era tassativo che i due ragazzi non stessero a Milano in assenza di Ludovico nemmeno cinque secondi. Il popolo era talmente imprevedibile che ci sarebbe voluto un attimo, per trovarsi estromessi per sempre dal Ducato!
 Isabella, rimasta zitta fino a quel momento, si fece improvvisamente avanti e, con voce sicura e tonante si oppose: “Sarà anche un appetito da giovani sconsiderati, ma resta un appetito ragionevole e naturale e non vedo perché mai io e mio marito dovremmo essere biasimati per questo nostro desiderio!”
 Giacomo Trotti, l'ambasciatore ferrarese, che era lì presente, provò istantanea pietà per i due giovani Duchi e così, a voce bassa, disse parole cariche di umana pietà al Moro, pregandolo di assecondare quella richiesta.
 “Il Duca è un giovane onesto e dalla condotta encomiabile...” disse il Trotti, con le braccia appena allargate e un sorriso bonario: “Non vedo perché non dovrebbe poter andare a Milano a vedere suo figlio...”
 Il Moro prese in disparte l'ambasciatore e, ben attento a non farsi sentire da nessuno, soprattutto dai due Duchi, gli rispose in un sibilo: “Non conoscete mio nipote, se parlate così, tantomeno conoscete sua moglie. Fino a oggi sono stato attento per sua Signoria – e fece un rapido cenno con la testa verso Gian Galeazzo – ma da oggi in poi devo esserlo per me.” e scoccò uno sguardo penetrante a Trotti, che, deglutendo a fatica, si affrettò ad accennare un inchino, ripromettendosi di non immischiarsi mai più in certi affari.
 “Mi spiace, ma la mia decisione non cambia. Tornate pure a Pavia, o, se preferite, restate con noi qualche giorno a Vigevano, ma a Milano no.” concluse Ludovico, guardando il nipote con aria perentoria.

 Ottaviano si guardava attorno spaesato. Era la prima volta che sua madre gli lasciava il posto in una cerimonia ufficiale e quell'accesso di fiducia lo aveva messo in difficoltà.
 Il Cardinale suo cugino lo aveva in effetti pregato di essere paziente e di ponderare bene le proprie azioni, ma il giovanissimo Conte credeva che il religioso stesse solo prendendo tempo per non dover scegliere una posizione chiara.
 Così, quando sua madre gli aveva detto che lui avrebbe rappresentato la famiglia alla processione del Giovedì Santo, Ottaviano si era sentito ingrato nei confronti della madre.
 Forse aveva ragione sua sorella Bianca, che gli aveva detto che sua madre stava prendendo tutte le decisioni da sola solo per lasciargli passare in pace ancora qualche anno.
 “Mio signore, quando siete pronto...” sussurrò uno dei membri della Confraternita del Santissimo Sacramento, che veniva fondata proprio in quell'occasione.
 Ottaviano annuì e la sua torcia venne accesa e così tutte quelle del corteo che lo seguiva.
 Il Conte sapeva di non dover temere nulla, perchè sua madre aveva fatto in modo che al suo fianco vi fossero i soldati più abili della rocca di Ravaldino, tuttavia quella folla gli ricordava dei momenti orribili che ancora lo tormentavano in ogni suo incubo.
 La sera stava scendendo e il fuoco delle torce spandeva nell'aria il fumo e la luce tipici dei momenti di grande misticismo. Le voci cadenzate dei religiosi faceva eco ai passi dei fedeli, che, guidati da Ottaviano stavano raggiungendo il Duomo.
 Quasi per caso, tra le chiacchiere dei forlivesi presenti, Ottaviano riuscì a comprendere uno stralcio di un discorso: “Aveva giurato che al Duomo lei non ci sarebbe andata più e così manda il figlio...”
 Istintivamente, cercò con lo sguardo chi avesse detto quelle parole, ma ormai il corteo lo stava spingendo oltre e così il Conte quasi dodicenne non poté far altro che assecondare il flusso verso il Duomo, che sarebbe stata la sede permanente della nuova Confraternita.
 Improvvisamente il motivo che aveva spinto sua madre a mandarlo al suo posto a rappresentare la famiglia gli era chiaro. Non l'aveva fatto per dargli finalmente un momento di gloria, ma solo perché lei non aveva voluto disattendere a un suo giuramento.
 Quando mise il primo piede oltre al portone del Duomo, Ottaviano faticava a tenere ferma la fiaccola, per quando le mani gli tremavano dalla rabbia.

 Vincendo le titubanze del marito, Isabella d'Aragona convinse il Duca a restare a Vigevano e a seguire poi la corte a Milano.
 Se il Moro non li voleva nella città da soli, non poteva certo impedire loro di andarvi in sua compagnia.
 “Non potremo portare via nostro figlio – aveva detto Isabella – ma almeno potremo rivederlo.”
 Per tutto il soggiorno a Vigevano, la Duchessa cercò di riavvicinarsi alla vituperata cugina Beatrice, che ormai faceva il bello e il cattivo tempo tanto con Ludovico quanto con il resto della corte.
 Con i suoi modi schietti e diretti, Beatrice stava conquistando tutti quanti e, malgrado i suoi atteggiamenti a volte fossero anche troppi irruenti, alla fine le veniva perdonato tutto con un sorriso.
 Isabella sapeva di avere molto da farsi perdonare dalla cugina, perciò le si accostò con molta umiltà, dicendosi pentita del comportamento che aveva avuto nei suoi confronti durante la loro infanzia a Napoli. Imputò tutta la sua antipatia e acidità al fatto che si sentisse in realtà inferiore a Beatrice e che solo ora, che il fato le aveva unite a due uomini imparentati tra loro così strettamente, si rendeva conto di quanto fosse fortunata ad averla come cugina.
 Accompagnava Beatrice ovunque, in giro per Vigevano e a cavallo nelle campagne, assecondandola in ogni cosa, perfino nei passatempi più scatenati.
 Aveva anche cominciato a remare contro Cecilia Gallerani, credendo di mostrarsi, così, completamente dalla parte della cugina. La invogliava a chiedere al Moro di cacciare la sua amante dalla corte e le chiedeva come mai permettesse che una donna simile venisse riverita e apprezzata quanto, se non più, di lei. A tutte quelle invettive, però, Beatrice rispondeva con un'alzata di spalle, sostenendo che la presenza della Gallerani le faceva comodo e che in fondo quella donna non era nemmeno sgradevole come aveva creduto.
 Isabella sperava, riconquistando l'affetto della cugina, di poterla convincere a manipolare il Moro in favore suo e di suo marito il Duca.
 Tuttavia, pur quando tornarono a Milano, Isabella sapeva di essere ancora molto lontana dal suo obiettivo.
 Beatrice accettava la sua compagnia e faceva in modo che la cugina potesse vedere spesso il piccolo Francesco, però in realtà non l'aveva ancora perdonata.
 
 Il frate domenicano si rivoltò nel suo giaciglio spoglio e, tirando a sé la coperta, si mise a sedere di scatto, mentre una voce sconosciuta gli diceva: “Stolto, non vedi che la volontà di Dio è che tu predichi in questo modo?”
 Savonarola voltò di scatto il capo a destra e a sinistra, in cerca della fonte di quelle parole, ma quando fu certo di essere del tutto solo, quasi scoppiò in lacrime dalla gioia. Dio gli aveva parlato e lo aveva fatto per mettere a tacere l'insano dubbio che Lorenzo Medici gli aveva messo addosso.
 Come aveva potuto dar retta a quel banchiere ossessionato dal paganesimo, che gli aveva chiesto se non fosse il caso di moderare le proprie prediche?
 Asciugandosi la fronte imperlata di sudore, il frate si mise in piedi e, fremendo di fervor religioso, cominciò a pensare a come avrebbe veicolato quel messaggio a tutta Firenze. Non bastava una riforma della Chiesa, per sanare una città tanto corrotta dalle arti impure e peccaminose che il Magnifico stava così impunemente divulgando. I fiorentini dovevano capire che seguendo il Medici, sarebbero stati risucchiati dall'avello infuocato, senza possibilità di redenzione e pentimento.
 Che rinnegassero ogni cosa, in favore della salvezza dell'anima!
 Arrivato sul pulpito, quella mattina, il domenicano si schiarì la voce e, facendo vibrare il naso adunco, cominciò la sua sfuriata nei confronti dei poteri corrotti e del signore della città di Firenze.
 Dichiarandosi del tutto insensibile alle minacce di metterlo in confino, Savonarola osò quello che nessuno aveva osato fare prima di lui.
 Colto da un'improvvisa ispirazione, decise che il popolo fiorentino, ancora così legato al corpo mortale e al mondo dei vivi, avrebbe capito una sola cosa: una predizione di morte imminente.
 “Io sono forestiero e lui – disse, riferendosi chiaramente al Magnifico – cittadino e il primo della città. Io ho a stare, lui se ne ha ad andare! Io a stare e non lui!”
 Quell'esclamazione infiammò gli animi dei presenti che, in parte sconvolti dall'ineluttabilità di quella predizione, in parte catturati dalla sicurezza ostentata dal frate, cominciarono a incitare in favore di Savonarola, visto ormai come una sorta di reincarnazione del messia.
 Prima della fine di quella 'terrifica praedicatio', tutti i fiorentini presenti si convinsero che il Magnifico avesse le ore contate.

   
 
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