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Autore: _ A r i a    28/06/2016    4 recensioni
Terza classificata e vincitrice del premio per l'impaginazione al contest “Take a picture and never forget” indetto da Sethmentecontorta sul forum di EFP
C’era qualcosa di diverso, però, Tōka se ne accorse quasi subito; era lo scricchiolio leggero sotto la suola delle sue scarpe, quella presenza acuminata che non passava inosservata.
La ragazza abbassò subito lo sguardo, ritrovandosi a fissare delle trasparenti schegge di vetro, che sotto i raggi morenti del sole risplendevano di una luce intensa e cristallina.
Tōka le osservò confusa, come se continuasse a non tornarle un dettaglio. Alzando lo sguardo, la vista che si rivelò davanti ai suoi occhi fu piuttosto deludente: le vecchie boccette d’inchiostro, che lei e suo fratello avevano svuotato e lavato per i loro fiori, adesso erano in frantumi.
Solo alcuni dei vasetti erano ancora in piedi, principalmente vuoti o contenenti fiori pressoché secchi; era strano, dopo così tanti anni non si aspettava di trovare tracce di piante.
Puntò di nuovo lo sguardo verso il basso, e solo allora sembrò notare un altro particolare. A terra, accanto alle schegge di vetro, c’erano alcuni piccoli sassi.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kaneki Ken, Kirishima Ayato, Kirishima Tōka
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Autore: _ A r i a
Titolo: — glass, broken as your soul
Fandom: Tokyo ghoul
Genere: angst, introspettivo, malinconico
Personaggi: Kaneki Ken, Kirishima Ayato, Kirishima Tōka
Rating: Verde
Introduzione: Fanfiction partecipante al contest “Take a picture and never forget” indetto da Sethmentecontorta sul forum di EFP
C’era qualcosa di diverso, però, Tōka se ne accorse quasi subito; era lo scricchiolio leggero sotto la suola delle sue scarpe, quella presenza acuminata che non passava inosservata.
La ragazza abbassò subito lo sguardo, ritrovandosi a fissare delle trasparenti schegge di vetro, che sotto i raggi morenti del sole risplendevano di una luce intensa e cristallina.
Tōka le osservò confusa, come se continuasse a non tornarle un dettaglio. Alzando lo sguardo, la vista che si rivelò davanti ai suoi occhi fu piuttosto deludente: le vecchie boccette d’inchiostro, che lei e suo fratello avevano svuotato e lavato per i loro fiori, adesso erano in frantumi.
Solo alcuni dei vasetti erano ancora in piedi, principalmente vuoti o contenenti fiori pressoché secchi; era strano, dopo così tanti anni non si aspettava di trovare tracce di piante.
Puntò di nuovo lo sguardo verso il basso, e solo allora sembrò notare un altro particolare. A terra, accanto alle schegge di vetro, c’erano alcuni piccoli sassi.
Note dell’autore: in fondo alla storia

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Cirri rosati aleggiavano miti nell’atmosfera mentre un tramonto primaverile infiammava lo skyline di Tokyo e donava tinte purpuree al cielo vespertino e alle pareti dell’Anteiku.
Tōka si passò il dorso della mano sulla fronte, catturando alcune perle di sudore e i primi segni di stanchezza.
Aveva momentaneamente abbandonato sul ripiano della caffetteria il cencio con il quale stava spolverando: la giornata lavorativa si era ormai conclusa da un’ora buona, tuttavia come ogni giorno lei e Kaneki avevano finito per intrattenersi oltre l’orario di chiusura del locale, pur di far risplendere ogni cosa da cima a fondo.
Si voltò per un momento ad osservare il suo collega, dalla parte opposta del bancone. Kaneki reggeva tra le mani una spazzola per pavimenti, con la quale stava lucidando attentamente il parquet a terra.
Tōka valutò tra sé che quella era stata una giornata particolarmente faticosa: il capo si era assentato per tutto il giorno, comunicandole che sarebbe stato impegnato in delle commissioni importanti. Così lei e Kaneki erano dovuti rimanere da soli ad occuparsi del locale.
Quel giorno, stranamente, l’Anteiku le era sembrato più affollato del solito; come se tutto ciò non bastasse, alla fin fine aveva dovuto occuparsi di quasi tutto lei: Kaneki era nuovo, ancora giovane e inesperto, pertanto con lui incidenti come una dose eccessiva di acqua nel caffè erano all’ordine del giorno. Tutti imprevisti che, tuttavia, non potevano permettersi, con una tale folla ad occupare il locale, pertanto Tōka aveva cercato di sobbarcarsi una quantità di ordini maggiore, al fine di scongiurare l’eventualità di qualche danno da parte di Kaneki.
Ora che era finalmente riuscita ad arrivare a fine giornata, con il locale ancora tutto in piedi, quasi stentava a crederci.
Sembrò accorgersi solo in quel momento che Kaneki aveva smesso di spolverare e la stava fissando intensamente; Tōka gli rivolse un’occhiata torva e lui sobbalzò sul posto, aprendo e chiudendo la bocca un paio di volte, come per dire qualcosa, poi però sembrò ripensarci, sigillò per un’ultima volta le labbra, mentre arrossendo tornò ad abbassare lo sguardo, in imbarazzo, riprendendo subito a pulire.
Tōka quasi sogghignò, soddisfatta, mentre si voltava verso il ripiano di legno alle sue spalle, sul quale erano accuratamente riposti diversi barattoli di vetro, contenenti miriadi di chicchi di caffè.
Non sapeva perché, Tōka era assolutamente certa di aver visto quei barattoli milioni di volte, eppure quella sera le parvero diversi: forse per l’angolazione, oppure per la luce intensa del tramonto, solo che adesso non riusciva a distogliere lo sguardo da questi ultimi, le sembrava di non essere capace di fare qualcosa che non fosse fissare quei recipienti vitrei.
E ben presto non seppe più quale fosse la realtà e quale l’immaginazione.


I ricordi si succedevano nella sua mente con una velocità che aveva del surreale, ecco perché non sapeva più distinguere il vero dal falso.
La prima immagine, seppur sfocata, che i suoi occhi riuscirono a inquadrare fu quella di un fiume dalle acque limpide, che scorreva placidamente davanti a lei.
Scorse poi un braccio, che dalle dimensioni e le fattezze piuttosto esigue doveva essere quello di un bambino, impresso nella memoria del tempo nell’attimo in cui stava lanciando dei sassolini attraverso lo specchio della superficie del fiume, e dopo delle risate cristalline, infantili, mentre due bambini –un maschio e una femmina– si rincorrevano lungo le sponde del ruscello, felici e spensierati, le carpe che, indifferenti, continuavano a nuotare tranquille, mentre gli occhi apprensivi di un uomo seguivano ogni minimo movimento dei ragazzini.
Man mano che rimaneva a immergersi in quella che aveva ormai intuito essere una visione, la vedeva arricchirsi ancora di nuovi dettagli: la verdeggiante vegetazione che cresceva tutt’attorno a quella scena, costituita da ciuffi d’erba smeraldini in prossimità del fiumiciattolo e alcuni alberi, principalmente pioppi e cipressi, più in lontananza, oppure le panchine in legno poco distanti e i ciottoli incastonati nel vialetto.
Tōka arrivò alla conclusione che quello che vedeva davanti ai suoi occhi non era che un piccolo parco, nella periferia di Tokyo.
Le voci, i suoni e i rumori cominciarono d’un tratto a farsi più nitidi e familiari. La bambina, che mentre correva era davanti, rise divertita ed esclamò:«Tanto non mi prendi!». L’altro non ribatté, era così affaticato che non riusciva nemmeno a parlare; aveva il fiato grosso, il respiro accelerato.
L’unico altro rumore, oltre allo scalpiccio dei loro piedi sulla strada piena di sassi, era il frinire dei grilli, che annunciava la venuta imminente della sera.
L’uomo si alzò dalla panchina su cui era seduto, un sorriso gioviale stampato sul volto: fece un cenno con la mano, richiamando l’attenzione dei due pargoli.
«Bambini, è tardi» fece infatti notare loro «la sera sta scendendo, sarà bene tornare a casa prima che faccia buio del tutto».
La bambina sospirò, con in volto un’espressione implorante.
«Dai, papà, ancora altri cinque minuti! Ti prego…» lo scongiurò infatti, con voce lievemente lamentosa.
«E va bene» cedette alla fine il padre, permissivo «però vedete di sbrigarvi».
«Evviva!» esultarono all’istante i due bambini, entusiasti «Grazie, papà, ti vogliamo bene!».
Subito i due ripresero a correre, questa volta però sembravano farlo con maggiore convinzione che in precedenza.
Mentre i loro passi svelti producevano sul selciato un ticchettio simile a quello delle gocce di pioggia, un uccellino spiccò il volo non appena i due ragazzini si avvicinarono troppo a lui.
La prima a giungere alla meta fu la bambina, che subito s’inginocchiò ai piedi della roccia che adesso vedeva davanti a sé; di lì a poco la raggiunse anche l’altro bimbo, che la imitò nell’atto di sistemarsi a terra.
Sulla roccia erano disposti alcuni piccoli vasetti di vetro, tutti ordinatamente sistemati; al loro interno si trovavano dei fiori, alcuni più freschi, mentre la maggior parte di essi si era già un po’ avvizzita.
I due bambini fissarono con reverenza quei fiori, quasi come se avessero paura che toccandoli si potessero infrangere sotto le loro dita minute.
La prima a farsi coraggio fu la bambina, che sfiorò con le manine appena paffute la corolla biancastra di una margherita colta recentemente: a contatto con il suo tocco gentile i petali non caddero, il che la fece sorridere di malcelato entusiasmo.
Alla vista di quel segno così beneaugurante il bambino decise di fare la stessa cosa, così accarezzò timidamente i petali rossi di un papavero. Anche questi ultimi non si distaccarono dallo stelo, e ciò portò il bambino a esibirsi in un ampio sorriso a trentadue denti. Si sarebbe messo perfino a saltellare, se non fosse stato troppo intimorito dall’idea di fare del male così a quei piccoli fiori tanto preziosi.
Dopo un tempo che gli parve eterno, alla fine si decise a mormorare:«Sorellona?».
Dall’altra parte non giunse risposta, tuttavia era abbastanza certo che lei l’avesse sentito, quindi si convinse a continuare:«Mi prometti una cosa?».
Passò un tempo indefinibile, un istante che gli parve eterno, durante il quale non sentì che il vento che soffiava tra gli alberi leggero.
Quando era ormai certo che non avrebbe parlato, la sentì sussurrare al suo fianco:«Che cosa?».
La sua sorellona non smetteva mai di sorprenderlo, e così ci era riuscita anche quella volta, inoltre non lo deludeva mai.
Il bimbo sorrise pieno d’entusiasmo e spiegò:«Che non ci separeremo mai e che rimarremo sempre uniti, come i petali di questi fiori».
La più grande gli scompigliò affettuosamente i capelli, mentre rispondeva:«Certo che rimarremo sempre uniti! Me lo prometti anche tu, vero?».
Il bambino non perse nemmeno un istante per annuire con vigore, così i due si sorrisero reciprocamente, sentendosi coinvolti da quella promessa.
Non ci volle molto prima che sentissero di nuovo il padre cercarli.
«Tōka! Ayato! È ora di andare» si sentirono richiamare infatti, e quella volta sapevano che era proprio arrivato il momento di tornare a casa.
«Arriviamo, papà!» esclamarono insieme, rimettendosi in piedi e correndo lungo la via del ritorno.


Con la stessa rapidità con la quale era apparso, in un lampo di luce chiara, il ricordo si dissolse e Tōka si ritrovò di nuovo nella caffetteria, intenta a fissare quei barattoli vitrei.
In un primo momento non riuscì nemmeno a comprendere che cosa fosse successo, troppo confusa per poter mettere insieme qualcosa di concreto.
Scosse la testa un paio di volte, sbattendo le palpebre: si trovava all’Anteiku, stando all’orologio appeso alla parete non erano passati neanche cinque minuti e lei non si era mossa dalla posizione in cui ricordava di essersi messa.
Tutto ciò era piuttosto strano: possibile che si fosse trattato di una visione?
Tōka agitò nuovamente il capo, incredula; si voltò di lato, e si accorse che Kaneki la stava fissando, immobile come una statua di gesso.
«T–Tōka-chan…» balbettò, senza tuttavia riuscire ad aggiungere null’altro.
Quel tono candido, come al solito, non fece che innervosirla, così si slacciò il cravattino con un rumoroso sospiro, mentre cominciava ad avviarsi verso il retrobottega.
«Io esco» annunciò caustica, sciogliendosi il fiocco del grembiule «vedi di finire di pulire tu».
«A–Aspetta, Tōka-chan, il capo aveva detto che dovevamo farlo insieme…» cercò di ricordarle Kaneki mentre cercava di avvicinarsi a lei, tuttavia a quanto pareva le sue parole furono spese invano.
Poco dopo infatti Tōka si voltò a guardarlo, incenerendolo con un’ennesima occhiataccia; subito Kaneki si arrestò sul posto, smettendo all’istante di seguire la collega.
Il ragazzo dai capelli corvini si limitò a borbottare un “Okay, Tōka-chan…” o qualcosa del genere, mentre imbarazzato arrossiva.
Tōka si voltò, sorridendo, per poi lanciare il grembiule alle proprie spalle. Quando, pochi secondi dopo, ruotò sui talloni per poter vedere dove fosse andato a finire, dovette impegnarsi per non scoppiare a ridere: il grembiule era caduto esattamente sopra al mezzo ghoul, e adesso gli copriva tutta la faccia e metà del busto. Lui non si muoveva, era rimasto immobile sotto a quella stoffa.
Tōka decise di lasciarlo lì in quel modo, mentre scivolava finalmente nel retrobottega.

I suoi passi si perdevano, silenziosi e quasi anonimi, tra le migliaia di persone che affollavano i marciapiedi di Tokyo.
Aveva il cappuccio della felpa tirato su, a coprire i corti capelli bluastri, mentre procedeva decisa verso la sua meta.
Non riusciva a sopportare l’idea di essere circondata da tutti quegli umani, era una situazione che la infastidiva tremendamente: la possibilità di incontrare le Colombe era sempre alta.
Temeva quasi di vederle spuntare da un momento all’altro, da dietro l’angolo di un qualsiasi palazzo, impermeabili grigi e valigette alla mano.
Non che avesse paura di essere uccisa, solo che incappare negli investigatori del comando anti-ghoul in quel momento sarebbe stata una vera e propria seccatura.
Sbuffò sonoramente, alzando il volume della musica nelle sue cuffie mentre procedeva spedita verso la periferia, evitando di proposito le strade più affollate e scegliendo un percorso tortuoso pur di evitare di essere seguita.
Quando finalmente cominciò a vedere delinearsi davanti ai suoi occhi quelle stradine che tanto bene conosceva si sentì sollevata, al punto di tirare un piccolo sospiro di sollievo.
Sotto ai suoi piedi si trovava il ponte di metallo, arrugginito e un po’ ammaccato, sotto il quale scorreva placidamente quel piccolo tratto di fiume che ricordava. E lì sotto, in lontananza… sì, era proprio un piccolo parco quello che vedeva.
Riusciva quasi perfino a sentire l’odore tanto familiare della resina dei pini…
I gradini di cemento scendevano lungo un fianco scosceso del terreno, riconducendo all’esiguo spiazzo del parco.
L’erba doveva essere stata falciata di recente, poiché anche il profumo degli steli freschi di rugiada recisi era pienamente presente nell’aria della sera.
Tōka scese lentamente, fino a che non si ritrovò più in basso, sotto il livello del ponte.
Quel posto era esattamente come se lo ricordava, con le panchine di legno, i ciuffi d’erba radi, i pioppi e i cipressi distanti. Sembrava quasi una beffa: per quanto Tokyo crescesse e si evolvesse, divenendo sempre più tecnologica, quello che da piccola era stato il suo angolo di paradiso era rimasto invariato nel tempo.
Il ruscello gorgogliava lieve, mentre di tanto in tanto qualche carpa saltellava di flutto in flutto, producendo dei piccoli zampilli d’acqua.
Era davvero uno scenario idilliaco, soprattutto con la luce tenue del tramonto. Tōka inspirò profondamente, appagata da quei profumi delicati e da quella sensazione di pace che regnava tutt’intorno.
Si sfilò le cuffie, spegnendo la riproduzione musicale e sedendosi a terra; adesso c’era un altro tipo di musica da ascoltare, quella del cinguettio pacato degli uccelli e del frinire gracchiante delle cicale.
Provava rammarico per non essere venuta più in quel posto da molti anni, in fondo era così pacifico e incantevole, solo che non aveva potuto proprio farlo.
Non che la scuola e il lavoro all’Anteiku fossero per lei degli impegni così impedienti da non permetterle in alcun modo di spostarsi e di tornare lì; piuttosto, era stato un fattore di circostanze avverse: l’ultima volta che vi era stata si trovava con suo padre e suo fratello Ayato. Di lì a pochi giorni dopo le Colombe avevano ucciso l’uomo, così lei, che era la sorella maggiore, si era dovuta prendere sulle spalle il peso del fratellino e fuggire dalla circoscrizione, pur di mettersi in salvo.
Da allora non aveva più materialmente avvertito il bisogno di recarsi lì, poiché le sue necessità erano cambiate: adesso era lei che doveva occuparsi di quel che era rimasto della loro famiglia, procurandosi da mangiare per se stessa e per Ayato. Era stata dura all’inizio, dopotutto era ancora molto piccola, tuttavia Tōka se ne era occupata ben volentieri, il pensiero di star facendo qualcosa di buono per il suo fratellino la incoraggiava pienamente.
Però poi Ayato se n’era andato, lasciandola da sola a combattere contro i demoni del loro passato. Ne aveva sofferto, tuttavia come al solito era stata brava a nasconderlo sotto la sua maschera di cinica indifferenza, tirando ad andare avanti secondo quella routine che era ormai divenuta la sua quotidianità, muovendosi come una trottola tra la scuola e il lavoro.
Sapeva che adesso Ayato era entrato a far parte di un gruppo di ghoul piuttosto spietati; per quanto poteva cercava comunque di informarsi sulla sua sorte. Era pur sempre suo fratello, dopotutto.
Tōka si sedette a terra, lasciandosi sfuggire un sospiro esausto. A quanto pareva, la giornata di lavoro l’aveva stancata ben più di quanto avesse immaginato.
Stese le braccia all’indietro, poggiando i palmi tra l’erba fresca, mentre alzava lo sguardo verso il cielo infuocato dal tramonto.
I ricordi dell’infanzia continuarono ad invaderla, in quell’incessante déjà-vu, e Tōka cominciò a credere che non era poi così male, stare lì.
Volse lo sguardo alla sua sinistra, quasi inconsciamente. Quando si rese conto di quello che i suoi occhi attoniti stavano osservando, le ci volle qualche secondo per convincersi di non aver visto male.
Sbatté le palpebre un paio di volte, come se si trovasse di fronte a qualcosa di troppo assurdo per potervi credere. Eppure la vista acuta dei ghoul non l’aveva affatto tradita: stava osservando proprio quella roccia.
Prima che potesse rendersene conto i suoi piedi si stavano già muovendo, fino a che non si ritrovò davanti a quel masso.
Era proprio come se lo ricordava, perfino nei dettagli come il grigio perlaceo della superficie o l’acutezza degli spigoli.
C’era qualcosa di diverso, però, Tōka se ne accorse quasi subito; era lo scricchiolio leggero sotto la suola delle sue scarpe, quella presenza acuminata che non passava inosservata.
La ragazza abbassò subito lo sguardo, ritrovandosi a fissare delle trasparenti schegge di vetro, che sotto i raggi morenti del sole risplendevano di una luce intensa e cristallina.
Tōka le osservò confusa, come se continuasse a non tornarle un dettaglio. Alzando lo sguardo, la vista che si rivelò davanti ai suoi occhi fu piuttosto deludente: le vecchie boccette d’inchiostro, che lei e suo fratello avevano svuotato e lavato per i loro fiori, adesso erano in frantumi.
Solo alcuni dei vasetti erano ancora in piedi, principalmente vuoti o contenenti fiori pressoché secchi; era strano, dopo così tanti anni non si aspettava di trovare tracce di piante.
Puntò di nuovo lo sguardo verso il basso, e solo allora sembrò notare un altro particolare. A terra, accanto alle schegge di vetro, c’erano alcuni piccoli sassi.
Forse… forse qualcuno li aveva lanciati, da un punto non troppo lontano da quel luogo. Tōka spostò subito lo sguardo ancora verso l’alto, calcolando in fretta la traiettoria.
Per lanciare quei sassi in quella direzione, con un’intensità tale da infrangere le ampolle vitree, un individuo di altezza media e regolare corporatura si sarebbe dovuto trovare… lì.
Tōka si voltò di scatto, cogliendo un movimento al limite del suo campo visivo. Una sciarpa violacea che si agitava nel vento, un lampo nero, poi un fruscio di foglie.
Troppo tardi.
Sapeva che ormai il fuggiasco era scomparso tra gli alberi, e non sarebbe stata così incosciente da inseguirlo nel fitto della vegetazione, rischiando uno scontro diretto nel quale difficilmente sarebbe riuscita a spuntarla.
Sospirò mestamente, voltandosi nuovamente verso le ampolle infrante.
Ayato.
Aveva visto –anche se, forse, sarebbe più corretto dire intravisto– suo fratello, dopo un tempo che le era sembrato immenso. Si erano guardati negli occhi, in un istante breve e lungo al tempo stesso, anni di rancori mai sopiti e silenzi forzati che tornavano a pesare.
Tōka era assolutamente certa che fosse stato il fratello a infrangere le boccette, con ogni probabilità per un moto di repulsione verso il loro passato.
Eppure vederlo lì, dopo così tanto tempo, sembrava alla ragazza quasi un buon segno.
In fondo, allora, non aveva cancellato dalla memoria il loro passato.
Tōka si chinò un’ultima volta, raccogliendo tra le dita una delle schegge di vetro abbandonate a terra; sollevandosi, spostò lo sguardo verso il cielo, rosso come sangue fresco. Il sole era ormai tramontato, i suoi tiepidi raggi del tutto spariti.
Nello sprazzo finale della luce del giorno, Tōka sorrise al vento fresco della sera, che adesso accarezzava con gentilezza la sua pelle, quasi una carezza vellutata.
Suo fratello non aveva dimenticato.
Quella promessa, anni prima…
Non ci separeremo mai e rimarremo sempre uniti, come i petali di questi fiori.
Tōka chiuse gli occhi un’ultima volta, lasciandosi avvolgere dalla sera come se fosse seta per il suo abito più elegante.

La speranza poteva continuare a brillare.



*Note dell’autrice*

Sono giorni che penso a cosa dire in queste note, solo che l’illuminazione divina non è ancora arrivata.
Ho pensato che dovrei anzitutto presentarmi, perché è la prima volta che scrivo su questo fandom.
Potrei dire che questo pubblicare la mia prima fanfiction qui per un contest sia abbastanza da kamikaze, considerando che avrei potuto lanciarmi in circostanze molto più “tranquille”, diciamo così.
Potrei dire che questo periodo è piuttosto nero, perché ho litigato con una persona che per me era molto importante e che ora si rifiuta perfino di rivolgermi la parola. Mi sono ampiamente depressa, tanto che per giorni non ho fatto altro che piangere.
Questa fanfiction, fino a una settimana e mezza fa, non esisteva. Mi ero ripromessa di non scrivere tutto subito come al mio primo contest (sono solo al secondo, già) solo che, facendo così, mi sono ridotta a scrivere tutto all’ultimo. E io odio scrivere tutto gli ultimi giorni. Già.
Alla fine, però, mi sono messa sotto e l’ho buttata giù. L’idea l’avevo sin da quando mi erano stati consegnati i pacchetti, solo che ho preferito aspettare, lasciare che l’idea decantasse prima di mettere tutto nero su bianco. Spero che sia andata meglio dell’altra volta, visto che avevo scritto tutto subito e non ci ero più ritornata per mesi, senza controllarla o ampliarla. E, considerando l’esito finale di quell’esperienza, mi auguro che stavolta cambiando la formula qualche miglioramento ci sia stato.
Tokyo ghoul è un anime che ho conosciuto relativamente da poco e, nonostante questo, devo ammettere di apprezzarlo moltissimo. Tōka non è esattamente in cima alla top ten dei miei personaggi preferiti (Jūzō tutta la vita) eppure, per quanto possa sembrare strano, ho scritto comunque su di lei. Perché? beh, è difficile da spiegare… volendo farla breve, diciamo che il contest era incentrato principalmente su un prompt e un’immagine che i concorrenti sceglievano, per così dire, ‘al buio’. Non appena ho visto la mia immagine, ho pensato subito a Tōka, esattamente non so nemmeno io perché.
Il prompt, invece, mi ha fatto subito pensare a Tōka e Ayato, che sinceramente adoro come coppia di fratelli (oltre al fatto che, ovviamente, apprezzo molto Ayato come personaggio).
Kaneki, poi, è stato d’obbligo… per quanto possa essere diventato forte in Root A (ha fatto l’upgrade, ahahah) devo ammettere di avere sempre avuto un debole per il timido nerd imbranato dei primi episodi. Mi piacciono gli uomini colti, che devo dire – anche se a tratti mi sembrava davvero tonto, okay, lo ammetto.
Dunque, ci tenevo a ringraziare anzitutto la giudice del contest, Seth, per avermi dato l’occasione di partecipare. Ha organizzato tutto meravigliosamente, inoltre i prompt e le immagini erano tutti splendidi. E lei è sempre stata gentilissima e disponibile con tutti i partecipanti, cosa non sempre scontata (dipende dal giudice che trovi dall’altra parte, immagino).
Inoltre ci tenevo a ringraziare tantissimo la mia adorata ange, per essermi stata vicino durante un periodo che, per me, non è stato affatto facile. Ora, però, si torna in carreggiata – o almeno lo spero.
Sicuramente non sarà la migliore fanfiction del mondo, tuttavia diciamo che nel complesso sono piuttosto soddisfatta del risultato ottenuto.
Ringrazio chiunque leggerà e le eventuali persone che recensiranno o inseriranno la storia tra le preferite/ricordate, oltre ad augurare un sincero in bocca al lupo a tutte le altre partecipanti al contest.

Aria~
   
 
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