Finché correrò resterò vivo.
Corriamo.
Da
quanto tempo lo stiamo facendo?
Non
ha importanza. Ciò che conta, ora, è solo correre.
Il
petto mi fa male, ma so che non c'entra la fatica. Sono ancora forte,
riesco ancora a correre e finché correrò
resterò vivo.
È
la paura che mi attanaglia, mi comprime, che mi uccide.
Rimbomba
nelle mie orecchie l'incessante battito selvaggio del mio cuore, come
un macabro battere di un orologio adibito a scandire lo scorrere del
tempo che ci resta.
Tum.
Un
passo in avanti.
Tum.
Un
minuto indietro.
Tum.
Non
smettere.
Non
ora.
Corri.
«Sheila!
Corri!» grido e stringo ancora più forte la sua
mano. È scivolosa,
temo di perderla, temo che mi sfugga, perciò stringo
più che posso.
«Marcos
non ce la faccio» piagnucola lei tra gli ansimi, ormai allo
stremo.
«Non
ora. Non smettere. Non ora!» La trascino per quelle strade
ormai
deserte, tra spazzatura e odore di morte, ma riesco a sentirli i loro
versi gutturali alle nostre spalle, l'alito fetido, le loro marce
mani che ci sfiorano.
Le
sento sulla nuca, mi provocano un brivido, e un battito più
forte
degli altri mi spinge ad accellelare.
La
mano di Sheila, impregnata di sudore, mi sfugge e lei cade in
ginocchio sul bollente asfalto. Mi blocco e mi volto a guardarla.
China
a terra, respira a fatica mentre gocce di sudore le scivolano
giù
lungo il profilo del naso. Corro da lei e cerco di sollevarla.
«Non
fermarti. Non ora.»
«Arrivano»
piagnucola.
Ha
ragione.
Ha
fottutamente ragione.
Siamo
circodati! Quei bastardi sono ovunque, sembrano non finire mai.
Stringo
tra le dita la mia mazza da baseball e in un solo gesto divarico le
gambe, dandomi lo slancio, e colpisco alle mie spalle. La testa dello
zombie salta via, lasciandosi dietro una scia di putrido sangue nero,
poi cade a terra e rotola. Il bastardo muove ancora gli occhi e cerca
di mordere l'aria, ma il corpo esanime crolla a terra.
Mi
guardo attorno, cercando una via di fuga. Sheila è stremata,
deve
riposare, non potrà correre ancora, ma loro non si fermano.
Mi chino
e mi porto un suo braccio intorno al collo, sollevandola di peso.
«Di
qua!» E la guido a un cassonetto, pochi passi da noi.
«Presto,
sali!» la incito, abbassandomi per aiutarla, facendo uno
scalino con
le mani su cui lei avrebbe potuto poggiare il piede e darsi lo
slancio. Segue il mio consiglio e con un balzo salta sul cassonetto,
arrampicandosi con fatica.
Resto
a guardarla e aiutarla da giù, fintanto che lei non si
volta,
urlando con gli occhi colmi di panico: «Marcos! Dietro di
te!»
Mi
volto appena in tempo per vederlo arrivare a fauci spalancate dritto
sul mio collo. Lascio cadere a terra la mazza da baseball per poter
usare entrambe le mani e portargliele al volto, bloccandolo e
impedendogli di raggiungermi. È morto, eppure ha ancora una
grande
forza. Mi sbatte contro il cassonetto alle mie spalle e nell'impatto,
accidentalmente, calcio la mia mazza, facendola finire sotto l'enorme
contenitore di metallo.
«Merda!»
impreco.
«Marcos!»
urla intanto Sheila, sopra di me.
Con
uno sforzo immane -che sia questa la famigerata forza della
disperazione?- spingo via lo zombie, che cade a terra. Non resta
però
fermo a lungo e si dimena, cercando di rialzarsi, per tornare alla
carica. Mi lascio cadere a terra, seduto con la schiena contro il
cassonetto, e infilo al di sotto di esso la mano per cercare la mia
mazza.
"Maledizione,
dov'è?" mi chiedo, mentre allungo un piede davanti a me e
con
un calcio allontano ancora una volta quell'essere schifoso.
«Marcos!»
urla ancora Sheila, in preda al panico. Mi volto, troppo tardi, per
vederne un altro calarsi su di me alla mia sinistra. Allungo le mani
su di lui, per bloccarlo.
«Cazzo!»
mi sfugge, mentre mi schiaccio a terra sotto al peso del mio
aggressore. Lancio uno sguardo al primo che ci aveva attaccato:
è di
nuovo in piedi e si sta per scagliare su di me. Uno riesco a
gestirlo, due sono già più complicati,
soprattutto se sono
disarmato.
Ma
Sheila salta giù dal cassonetto e si lancia su di lui,
facendolo
ancora cadere a terra, insieme a lei.
«No,
Sheila!» grido, cominciando a dimenarmi mai come prima di
allora.
Sheila rotola via per lo sbalzo, ma alza subito la testa, cercando di
rimettere ordine ai pensieri. Si volta e vede lo zombie contro cui si
è buttata caricare su di lei. Stesa a terra, arretra
rapidamente,
fino a schiacciarsi contro il muro di una casa. Allunga una mano nel
vuoto e afferra la prima cosa che trova: un mattone.
Con
forza lo usa per colpire il suo aggressore, tramortendolo.
Io
intanto riesco a poggiare un ginocchio sul ventre dello zombie che ho
addosso, ancora impegnato nel tentativo di mordermi, e con uno
slancio lo scaravento via. Volto istintivamente gli occhi a sinistra,
sotto il cassonetto e la vedo: la mia mazza.
Mi
allungo rapidamente e l'afferro. Lo zombie si rilancia su di me e sta
per cadermi addosso, ma con un calcio lo allontano di nuovo. Riesco
finalmente a far uscire la mazza da sotto il cassonetto e facendola
roteare sopra la mia testa colpisco pesantemente il mio aguzzino,
spezzandogli l'osso del collo.
Il
crack mi fa venire i brividi, ma non ho tempo di
nausearmi.
Mi
alzo rapidamente e raggiungo Sheila.
Un
altro colpo e faccio saltare la testa al suo aggressore, che
già si
trovava su di lei. Il sangue nero zampilla dal suo collo, ora aperto,
colpendo Sheila e insudiciandola. La vedo impallidire e tremando come
una foglia allontana via disgustata quel corpo senza testa.
«Stai
bene?» le chiedo con gli occhi colmi di terrore. Se
è ferita, non
riesco a vederla e la cosa mi manda fuori di testa.
Lei
continua a guardarsi attorno impanicata, sembra non vedermi. Mi
abbasso e l'afferro per le spalle: devo sapere o potrei impazzire!
«Sheila!»
la chiamò e la mia voce si incrina appena. «Stai
bene?» ripeto,
scandendo bene le parole.
Lei
mi guarda negli occhi e io ancora una volta affogo in quello sguardo
così immenso, così suo.
Annuisce
e io riesco a tornare a respirare.
«Andiamo!»
la invito ad alzarsi, prendendole le sottili mani tremanti.
«Sono
tutta sporca» piagnucola, ma so che non le interessa
veramente del
vestito. È disperata e ha solo bisogno di piangere.
«Guardami»
continua mentre una lacrima le scende dal viso, lungo la guancia nera
di polvere e terra. «Era il mio vestito migliore»
singhiozza.
«Lo
faremo pulire una volta arrivati alla U-Nasa.» Cerco di
consolarla,
anche se mi rendo conto della stupidità della mia frase. Era
ovvio
che non le interessasse veramente del vestito, lei aveva solo bisogno
di un abbraccio, un profondo e intenso abbraccio. Un abbraccio che io
non sono mai riuscito a darle e che chissà se un giorno ce
l'avrei
mai fatta.
Stranamente,
però, la mia sciocca frase pare fare lo stesso il suo
effetto.
«Sì,
lo puliremo» ripete, annuendo. Ha gli occhi vitrei, persi in
un
incubo, ma la visione della U-Nasa è come una luce in
quell'oblio in
cui si sente persa.
«Adesso
togliamoci dalla strada. Saliamo sul tetto, così ci
riposiamo un po'
e domani riprendiamo, ok?» le dico, cercando di assumere un
tono
calmo e pacato.
Lei
annuisce e insieme torniamo su quel cassonetto, poi sul tetto.
Il
cielo sopra di noi ormai è rosso e tende al nero, nel suo
imbrunirsi. In lontananza si può già distinguere
Venere, la prima
stella del tramonto, colei che annuncia il calar delle tenebre.
Ci
sistemiamo, sicuri della nostra altezza, e Sheila si stende al mio
fianco.
Ha
gli occhi puntati sopra di lei, ora meno terrorizzati, ma non per
questo migliori. Quando il panico scema, lascia spazio solo a un
profondo dolore che non tutti sono in grado di sopportare.
"Ti
prego, sii forte Sheila" penso, terrorizzato dall'idea di
vederla cadere proprio mentre è tra le mie braccia.
«Alex...»
comincia lei mormorando, senza distogliere lo sguardo dal cielo che
ora va riempiendosi di stelle. «Alex sta bene?» mi
chiede, come se
io potessi saperlo in qualche modo. Ci eravamo separati il giorno
prima, costretti a causa di un crollo e di un'orda che ci era venuta
incontro, e l'unica cosa che eravamo riusciti a dirci, prima di
fuggire via, era stata: «Corri alla U-Nasa.»
Lo
ha perso lei, così come l'ho perso io.
«Sì»
rispondo lo stesso, alzando gli occhi alle sue stesse stelle.
«Ci
aspetta alla U-Nasa.»
«Lì
è sicuro» dice lei e non è una domanda.
Ha bisogno che sia così,
deve esserlo.
«Sì»
rispondo ancora, incapace di dire altro. Sembra quasi che le parole
mi siano morte dentro, proprio come quegli zombie, lasciandomi solo
con qualche rimasuglio.
«Non
ho paura di lasciare la Terra» ammette lei improvvisamente,
sorridendo, e io mi meraviglio. Mi prendo qualche secondo per
guardarla in ogni suo perfetto lineamento. Quegli occhi così
grandi,
in cui mi sento morire soffocato tutte le volte che li incrocio, il
profilo del naso, piccolo e delicato, le labbra leggermente carnose,
ora tirate a formare due stupende fossette sulle guance.
Quando
è diventata così bella?
«E
tu?» mi riporta alla realtà, ma non riesco a
riprendermi subito.
Sospiro, cercando di tornare in me e punto gli occhi alla mazza, al
mio fianco: l'unica cosa che fino a quel momento ci ha tenuti in
vita.
«No,
qui faceva schifo» ammetto. «E adesso è
solo spazzatura.»
«Su
Marte le cose andranno meglio, ne sono certa. Dobbiamo
solo...» ma
non riesce a terminare la frase, forse ignorando cosa davvero dovesse
fare.
«Correre»
le vengo in soccorso io.
Lei
annuisce. «Dobbiamo correre.»
Il
sole sorge ancora, sembra essere l'unica cosa che non è
morta in
quel lurido mondo, e io l'osservo con invidia.
Sheila,
al mio fianco, apre lentamente gli occhi, infastidita dall'accecante
luce, e li punta subito su di me. Mi guarda dapprima confusa, poi
contrariata. «Non hai dormito?» mi chiede.
Abbasso
lo sguardo, sentendomi lievemente in colpa, ma ammetto, negando con
la testa.
«Quei
bastardi sono qui sotto» le dico, indicando con un gesto del
capo.
Nella notte il nostro odore li aveva attirati e io ero stato troppo
impaurito dall'idea di cadere giù per chiudere occhio.
Troppo
impaurito di lasciar cadere Sheila giù.
«Non
manca molto. Riposerò quando saremo arrivati»
cerco di
tranquillizzarla.
«Come
scendiamo da qui?» chiede lei, guardando i mostri intenti a
dimenarsi e allungare le mani verso l'alto nello sciocco desiderio di
raggiungerci. Mi alzo in piedi e mi guardo attorno: i tetti delle
case sono tutti comunicanti, almeno per i primi metri, sarebbe
bastato proseguire lì sopra e poi scendere poco
più avanti.
«Giochiamo
a fare i Ninja» sorrido gioviale, sperando di alleviare un
po' quel
peso che si porta dentro e allungo una mano verso di lei. Sheila
resta qualche istante a guardarmi e questo mi fa arrossire appena, ma
non demordo e continuo a sorridere, illuminandomi come il sole che si
andava alzando a est. Infine lei afferra la mia mano e sorride.
Il
cuore mi esplode per un istante nel vedere il suo viso radioso e
accarezzato dai raggi dell'alba.
E
improvvisamente mi ricordo per che cosa sto correndo.
«Andiamo!»
dico, cominciando a saltare sopra i tetti, tenendo ben stretta la
mano di Sheila.
Riusciamo
ad arrivare con facilità all'ultimo, prima di un incrocio, e
comincio a guardare sotto di me, alla ricerca di qualsiasi cosa che
ci avesse potuto aiutare a scendere.
«Marcos!»
mi scuote lei, prima di indicare davanti a sè. L'enorme
edificio
primeggiava sopra gli altri, nella sua moderna costruzione, sopra
ogni cosa come un Dio pronto ad accogliere chiunque. «La
U-Nasa!»
continua lei.
«Siamo
vicini! Lo vedi? Non è lontano.»
Lei
sorride ancora e gli occhi le cominciano a brillare di fronte alla
sua speranza.
«Di
qua!» dico e mi siedo sul bordo, sporgendomi fuori. Lancio
prima la
mazza a terra, sapendo che mi avrebbe solo impedito un buon
atterraggio, e mi appresto a raggiungerla. Con uno slancio mi butto
sopra il tettuccio di un auto, pregando che mi regga. L'auto sobbalza
un po' e io resto immobile qualche secondo, aspettando di
stabilizzarmi. Poi mi alzo in piedi e allungo le mani verso Sheila,
ora seduta nel mio stesso punto.
«Vieni,
ti prendo io!» le dico e lei si lancia sicura, atterrando tra
le mie
braccia. Si aggrappa alle mie spalle, cercando sicurezza,
irrigidendosi appena, ma io la tengo salda a me.
Ancora
un piccolo dolore al petto, ma non è fatica e nemmeno paura.
Non
so cos'è, ma vorrei solo che il tempo si fermasse qui, ora.
Un
eterno istante in cui riesco a cingere accidentalmente le sue spalle.
«Grazie»
sorride lei, prima di separarsi, lasciandomi solo nel mio -ormai non
più- eterno istante.
Sheila
si siede sul tettuccio, a gambe penzoloni giù, e con un
piccolo
slancio si lascia cadere sull'asfalto.
La
guardo, ancora perso nel movimento dei suoi capelli.
Ma
all'improvviso cala il buio.
Urla
il mio nome e riesco distintamente a vedere delle mani violacee
uscire dal finestrino dell'auto sotto di me e avvolgerle il collo.
Il
sole. Non riesco più a vedere dov'è il sole.
Tutto
è così confuso, così terrificante.
Quell'urlo
riempie le mie orecchie e pare non volersene andare.
Mi
muovo, credo, ma non ne sono sicuro.
So
solo che ora riesco a vederlo: i suoi putridi e marci denti infilati
in quel delicato collo su cui io ho fantasticato tutta la notte. E
quegli occhi, quei meravigliosi occhi pieni di ogni cosa, ora
improvvisamente svuotati. Puntati su di me, come fossi la sua
colpevolezza.
Le
labbra incurvate verso il basso, spalancate in un urlo, terrorizzate,
sembrano già così rovinate e screpolate, non
più piene di vita e
invitanti.
Sono
morte anche le adorabili fossette sulle sue guance.
I
lineamenti che fino a un attimo prima erano illuminati dal sole, ora
cadevano avvolti nelle tenebre, mischiandosi a esse, diventando loro
stessi ombra.
E
io... muoio in quella pece.
Il
mio pugno parte senza che me ne renda conto e colpisce in pieno viso
lo zombie che aveva osato intaccare così quello scrigno
prezioso. Lo
scrigno che io ho sempre temuto ad aprire, non credendomi degno di un
tal tesoro, e che ora mai più ne avrei avuto la
possibilità.
Lo
vedo mentre lancia indietro la testa, colpito, ma trascina con
sè
lembi di carne che non gli appartengono, ancora serrati con
ingordigia tra i suoi denti.
E
il viso di Sheila che cade a terra proprio davanti ai miei occhi.
Proprio
tra le mie braccia.
In
quell'abbraccio che mai ero riuscito a darle.
I
lamenti mi strozzano mentre cerco di pronunciare il suo nome. Le
lacrime bagnano il mio viso e appannano i miei occhi. Non riesco
più
a vederla distintamente, avvolta da una nebbia che sembra soffocarmi
sempre più.
«Marcos.»
Un'evanescente voce, delicata come un angelo, mi raggiunge.
«Corri.»
E
urlo con tutto il fiato che ho.
Alzò
lo sguardo e riesco a sfondare la nebbia, guardando il mostro che mi
ha strappato dalle mani l'unico raggio di sole che illuminava ancora
quella terra.
Si
dimena dal finestrino, tra i denti ancora ciò che non gli
apparteneva, bloccato dalla cintura di sicurezza.
Appoggio
delicato a terra quell'esile corpo che ho stretto con tutta la forza
che avevo e mi allungo ad afferrare la mazza.
Spalanco
lo sportello, afferro il figlio di puttana e lo scaravento a terra,
ai miei piedi.
E
infine... colpisco.
E
colpisco.
E
colpisco.
Il
rosso e il nero macchia ogni cosa intorno a me.
Non
sento altro che quel macabro rumore di ossa spappolate e spezzate.
Membra
e cervello volano a ogni colpo, cadendo sul mio viso, sui miei
vestiti, sulla mia mazza.
È
morto.
Ho
fatto giustizia.
Ma
non riesco ancora a vedere niente se non il nero e rosso, e continuo
a urlare e colpire.
Fino
alla fine delle mie energie.
Fino
alla fine di ogni cosa.
Le
porte della U-Nasa alle mie spalle si chiudono e lascio cadere la
mazza a terra, macchiando quel pulito tappetto di sangue e cervello.
Una macchia che per sempre mi sarei portato dentro io stesso e che
non avrebbe pulito una semplice spugna.
"Dovevo
saltare per primo"
La
fisso, ai miei piedi, quella macchia.
È
tonda, incredibilmente circolare, e rossa... proprio come Marte.
"Dovevo
saltare per primo"
Gli
occhi mi bruciano, i muscoli mi fanno male, desidero solo
accasciarmi, lasciarmi cadere proprio come quella mazza.
Due
piedi entrano nel mio campo visivo, schiacciando la macchia a forma
di Marte.
Alzo
lo sguardo, cercando di identificare la persona ferma davanti a me.
E
mi lascio cadere in ginocchio, in lacrime.
La
gola torna a bruciare e non riesco a respirare.
"Dovevo
saltare per primo"
Lo
sguardo di Alex dall'alto mi fa lo stesso effetto di quella prima
stella. Una speranza che ora non esiste più e che forse mai
lo era
stata per me.
«Mi
dispiace» riesco a mormorare tra i singhiozzi.
Allungo
le mani verso la sua maglia.
Sono
sporche di sangue, probabilmente di Sheila, e questo mi reca un
dolore dentro così immenso che per poco non mi uccide.
Spalanco la
bocca, cercando aria, ma riesco solo a bruciare.
Schiaccio
il viso contro la maglia di Alex, nascondendomi all'interno,
stringendola tra le dita con quanta più forza ho.
Per
un attimo mi chiedo perché non si muovi, perché
resti così
immobile, ma poi mi ricordo: io l'ho uccisa.
"Dovevo
saltare per primo"
Ancora
lamenti. Ancora singhiozzi.
Ancora
dolore.
«Mi
dispiace»
«Non
ha sofferto, vero?» mi chiede lui, improvvisamente. Le prime
parole
che riesce a dire.
Alzo
lo sguardo, cercandolo, ma la nebbia mi impedisce di vederlo
distintamente.
Come
mi sta guardando?
Mi
sta odiando?
Nego,
ma ammetto: «Non lo so.»
Lo
sento sospirare e rilassarsi, prima di indietreggiare e liberarsi
dalla mia presa.
«So
che saresti morto tu al suo posto se avessi potuto» dice.
«Alzati
da terra, sei patetico. Ci stanno aspettando. Portiamo l'anima di
Sheila su Marte con noi.»