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Autore: Mary_la scrivistorie    01/07/2016    1 recensioni
[In revisione - Lavori in corso!]
In un futuro minacciato dagli zombie, Mackenzie Darcy è la flebile eco di un’umanità destinata al massacro. Rampolla di una prestigiosa famiglia appartenente all’Élite, è in fuga dall’imminente apocalisse e dai demoni che infestano i suoi sogni. Destinata a approdare nelle Ebridi, dovrà fronteggiare diverse sfide, tra cui un arduo addestramento al fine di vincere la Guerra, la stessa che l’ha privata di ogni cosa.
E, alla fine, riuscirà a svelare l’identità della misteriosa «ladra di sogni» che sembra perseguitarla durante il giorno e la notte.
Dall’Atto III: «La Guerra. Arriva in un millisecondo e lascia il segno del suo passaggio come se fosse l’ombra del Diavolo che reclama cenere e sangue, dovunque vada.»
{Il capitolo “Atto III • Fiamme del Paradiso” si è classificato al quinto posto al contest “Apocalisse: Vivere o Morire [Multifandom & Originali]” indetto da ManuFury sul forum di EFP.}
Genere: Dark, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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La ladra di sogni
 
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[Atto III]
 

testo
 


Fiamme del Paradiso
 
 
Nick sul forum/Nick su EFP: MaryScrivistorie [forum], Mary_la scrivistorie [EFP];
Titolo della storia: La ladra di sogni {Capitolo: Atto III ‒ Fiamme del Paradiso};
Attrezzo/Arma: Balestra;
Originale/Fandom: Originale;
Personaggi: Mackenzie Darcy, Abraham Taylor, Alexander Hershey, Annette Rockefeller, Catherine Blair, Christopher Rockefeller;
Genere: Soprannaturale, Drammatico, Introspettivo;
Rating: Arancione;
Tipo di Coppia: Het;
Note /Avvertimenti: Tematiche delicate, Lime;
Lunghezza: 6991 parole, 12 pagine;
Breve introduzione: In un futuro minacciato dagli zombie, Mackenzie Darcy è la flebile eco di un’umanità destinata al massacro. Rampolla di una prestigiosa famiglia appartenente all’Élite, è in fuga dall’imminente apocalisse e dai demoni che infestano i suoi sogni. Approderà nelle Ebridi e si addestrerà al fine di vincere la guerra che l’ha privata di ogni cosa.
E, alla fine, scoprirà l’identità della misteriosa «ladra di sogni» che sembra perseguitarla durante il giorno e la notte.
Dall’Atto III: «La Guerra. Arriva in un millisecondo e lascia il segno del suo passaggio come se fosse l’ombra del Diavolo che reclama cenere e sangue, dovunque vada.»
Questa storia partecipa al contest Apocalisse: Vivere o Morire [Multifandom & Originali] indetto da ManuFury sul forum di EFP.
Note: Dopo una terribile assenza sul sito, eccomi, stavolta con unOriginale. La storia è nata inizialmente come autobiografia di Alec Hershey, tuttavia la digressione su Mackenzie Darcy mi ha affascinata e ho iniziato a sviluppare la scaletta su di lei in una trama che mi ha portata, dopo mille revisioni, a questo risultato. Ringrazio lIspirazione che mi ha accompagnata in questo viaggio e che mi ha portata a superare di molto il limite di parole sancito dalla giudiciA. Il nome della storia è basato da quello di “Storia di una ladra di libri” di Zusak, sebbene le trame siano quasi contrapposte. L’Apocalisse, il tema di sottofondo su cui si fonda la fic, ricopre un ruolo portante: è il pilastro della Guerra e dei suoi effetti collaterali.
I nomi dei capitoli – basati sull’immagine ricorrente delle fiamme – indicano un passaggio da Inferno a Paradiso, in stile Divina Commedia. La storia è stata infatti concepita dalla mia mente malata come un racconto di formazione, di “purificazione” intellettiva e spirituale.
[!Spoiler] Mackenzie Darcy, torturata dai suoi incubi, ha bisogno di essere perdonata per gli errori che ha commesso.
La scena finale, ricca di controversie e contraddizioni, è stata in realtà lo sfogo interiore che mi è uscito di getto. Mackenzie, che ha sempre in fondo creduto nelle proprie possibilità, ha bisogno di credere che qualcun altro si impegni per concludere la Guerra: si tratta del Destino, nel quale lei, come Lila, ripone la sua fede.
Le canzoni che mi hanno ispirato sono state Bad Dream di Ruelle, Seven Devils di Florence & The Machine, The Phoenix dei Fall Out Boy e la cover di RAIGN, Knockin’ On Heaven’s Door, che sin dai tempi di The 100 mi ha commosso.
Non vogliatemene, nemmeno io ho fiducia nelle potenzialità di questa storia tuttavia Mackenzie e la sua ladra di sogni mi reclamavano. Io ho scritto. La storia esigeva che io la scrivessi. Non so quale possa apparire l’esito: spero almeno mediocre.
Le recensioni sono sempre gradite. Se passate alla lettura, magari lasciatemela e sarò felice come una Pasqua.
A presto,
Mary

 
 
 
 
La Guerra. Arriva in un millisecondo e lascia il segno del suo passaggio come se fosse l’ombra del Diavolo che reclama cenere e sangue, dovunque vada. Dovunque scelga di rubare i sogni.
 
Non avvertii distintamente il momento in cui cominciò: ero là, a consumare allegramente una dignitosa colazione, in compagnia di Alec che mi stava facendo notare che sembravo più adulta e più serena quella mattina ‒ chissà perché ‒ ; un lampo di luce incandescente e vertiginosa che mi aveva dato alla testa e fatto cadere per terra; e loro erano là. Mentre la mia mente annebbiata era ancora offuscata da frantumi casuali di tenebra, riconobbi in mezzo a quelle creature amorfe una figura umana e femminile di aspetto inequivocabile, che aleggiava sopra i corpi svenuti con un cenno di evidente compiacimento. «Potete ammazzare chi volete, ma questa qui lasciatela a me
Era il mio demone, venuto a prendermi per regalarmi una morte lenta e dolorosa. Annette Rockefeller. A dispetto dell’opinione comune, non me ne stupii più di tanto: me lo aspettavo. Chissà dov’era il suo scagnozzo Chris. Forse a rifornire gli zombie di armi. L’inquietudine che mi sopraffece non fu neanche tanto orribile, in confronto al terrore vero e proprio della Guerra che era sopraggiunta.
Aprii gli occhi, sebbene mi roteassero ripetutamente donandomi frammenti confusionari di luce e incubi, e notai che anche Cate Blair aveva gli occhi spalancati e il fiato corto. Sembrava tuttavia molto più lucida di me, mentre tentava di restare immobile e di nascondere le lacrime di terrore che già le rigavano gli zigomi. Rannicchiata di lato a terra, mi lanciò uno sguardo di implorazione ‒ forse per errore ‒ ed io rammentai che Alec mi aveva raccontato della sua repulsione per la guerra. Devo portarla via da qui.
Con lo sguardo, cercai a tentoni la figura di Abraham tra quelle costrette sul pavimento. Non ce n’era traccia. Era forse già morto? Era fuggito? Un moto di speranza m’invase mentre ero distesa sul pavimento della mensa. Se era mio destino bruciare tra le fiamme dell’Inferno, volevo assicurarmi che il mio amante di una notte vivesse una vita felice, per quanto potesse esserlo.
Ad un certo punto, il volto da bambola di Annette Rockefeller luccicò sopra il mio corpo. La sua espressione mi ghiacciò il sangue nelle vene: famelica, come il leone in procinto di avventarsi sull’agnello. «Ti ho trovato, Darcy. Sei mia, ora.»
Sei mia. Le dita di Abraham che mi perlustravano gentilmente il corpo, oltre i confini del concepibile, e che si appropriavano di ciò che non avevano ancora assaporato.
Sei mia. Gli occhi inchiodati sui miei, mentre i nostri corpi allacciati danzavano di passione sulle lenzuola accartocciate, arresi dinnanzi a ciò che eravamo. Insieme.
Sei mia. Le sue parole sussurrate contro la pelle, contro i capelli, contro le labbra, che risuonavano come un giuramento di duplice suggello e come il richiamo di un sogno.
Annette Rockefeller si chinò accanto al mio corpo inerte a causa della recente esplosione e  proseguì imperterrita: «Piccola Mackenzie, impara: fuggire non è mai una soluzione. È soltanto una dimostrazione di codardia, e tu ne detieni il pieno titolo. I tuoi genitori, almeno, sono morti combattendo.»
Sta farneticando. Mi balenarono in mente i volti di mia madre e mio padre, così vicini e simili al mio. Il sorriso radioso e disarmante di mia madre quando la si elogiava; le rughe di preoccupazione e vecchiaia sulla fronte di mio padre; i loro sguardi complici; le loro risate combinate. No, non potevano essere morti. Mi rifiutai di crederci. Sopravvivi. Fai in modo che lottino per noi.  
Mi concentrai su quelle parole, e d’istinto assestai un calcio in pieno viso ad Annette, che crollò come un sacco di grano. Mi alzai di scatto e porsi la mano a Cate, che l’afferrò senza pensarci.
Mi osservai intorno, ansiosa di trovare Abraham. La stanza si era però svuotata, nel frattempo. Probabilmente gli zombie erano fuori a intrattenere i militari ‒ pardon, a mangiarseli. I corpi distesi per terra erano per la maggior parte squartati o solcati da ferite profonde e gravi, come quello di Henriette Churchill, che era paralizzata in una posa raccapricciante. La guardai con tristezza, rammentando l’aiuto che mi aveva dato con gli incubi. Riposa in pace, Church.
Cate mi spronò: «Muoviamoci, Darcy!».
Ero equipaggiata bene: ognuno si portava sempre dietro le armi, per le emergenze. E questa lo era. Mi sfilai due coltelli dallo zaino e li porsi a Cate, che li sondò con espressione interdetta. Sfoderai anche la balestra e sospirai, cercando di espellere tutto il nervosismo che mi attanagliava le membra: ero pronta. La mensa aveva due finestre, una delle quali dava su un ramo dell’acero di Alec. Afferrai Cate per il polso nonostante le sue proteste e, raggiunto il davanzale, saltai, trascinandola con me. Fu molto più breve del previsto: il ramo distava pochi metri. Cate barcollò leggermente, ma la tenni stretta al mio corpo. Dovevo mantenerla viva, per Alec.
Dalla cima del ramo, sondai il campo di battaglia. Non avevo mai assistito ad una vera battaglia, e rimasi stupefatta dalla vista dei nemici schierati in “legioni”.
Gli zombie erano molto differenti da come me li ero sempre immaginati: erano mutanti bipedi e di fattezze quasi umane, ma con caratteristiche spettrali e amorfe. Piuttosto che avere una carnagione verdognola, avevano una pelle uniforme che consisteva in squame e grinze lattee. I loro toraci erano incredibilmente scheletrici: l’epidermide somigliava ad un sottile tessuto eburneo che doveva appena coprire l’esile ossatura. Avevano corpi pallidi e smilzi ricoperti di quelle che parevano profonde ed intricate rune circolari, che percorrevano le loro braccia e le loro gambe come se fossero bracciali d’oro adornati di ghirigori. La cosa più mostruosa del loro aspetto erano tuttavia i volti: la pelle era talmente tirata da lasciar intravedere ogni singolo capillare e, all’altezza degli zigomi, le ossa sporgevano e fuoriuscivano dalla carne smunta, che si plasmava attorno come se fosse liquida. Gli occhi, consistenti in iridi cangianti che brillavano di rosso e di blu come un caleidoscopio, erano solcati da livide e cineree occhiaie e da lacrime di sangue raggrumato. Le loro labbra, purpuree come se fossero state imbevute nel sangue, erano strette in smorfie severe e fremevano, come se anelassero costantemente il sapore della carne umana.
Si muovevano, attorniati dalle tenebre, mediante scatti disumani e veloci. Era come se, ad ogni loro passo, fossero inghiottiti dalle ombre più fitte che li trasportavano avanti, proiettandoli sul campo di battaglia. Il bianco sulle loro squame si fondeva allora con l’oscurità del Male. Erano demoni infernali senz’anima, fieri eredi del Diavolo, che si cibavano di quelle degli umani, disgiungendole dai corpi terreni.
La maggior parte degli ibridi combatteva a mani nude, servendosi degli artigli d’avorio affilati come lame che laceravano in modo spaventosamente semplice protezioni e pelle dei soldati. Altri ibridi invece utilizzavano delle specie di spade ricurve, costituite di un materiale metallico liquido somigliante al mercurio, che si adattavano ai desideri di chi le impugnava. Probabilmente erano l’ultima innovazione ideata a Washington DC prima che gli zombie la distruggessero e occupassero.
I soldati combattevano strenuamente, menando fendenti con le spade e sparando a più non posso con le armi da fuoco. I più fortunati riuscivano a colpire gli zombie, che si polverizzavano in cenere scura. Tuttavia, erano principalmente gli zombie a prevalere sui soldati: parecchi furono aggrediti mortalmente dai loro artigli affilati; altri dalle zanne appuntite che affondavano nella carne come rasoi; altri ancora colpiti dalle loro bizzarre spade da samurai. Da lontano, la scena era confusa e ininterrotta: potevo distinguere soltanto le polveri ed il sangue che formavano disegni astratti sulle pietre del piazzale. Gli zombie, circondati da aure di oscurità, brancolavano alla disperata ricerca di putrefazione e morte, cogliendola al volo non appena si presentava loro l’occasione. I nostri compagni lottavano attingendo ad ogni traccia di coraggio e forza che possedevano tuttavia i più, colti da moti di panico e di rassegnazione, cedevano alle tenebre, mescolandosi con esse e disintegrandosi fisicamente in brandelli purpurei. Fiumi di sangue scorrevano per terra, collegandosi tra loro e giacendo in dense pozze che riflettevano l’immagine degli incubi incarnati che avevano assillato le nostre notti per anni.
Fissai la scena atterrita. In mezzo a quel caos, c’era Abraham, che stava probabilmente per morire: non riuscivo a scovarlo tra la folla di guerrieri, però. Cate accanto a me emise rantoli soffocati, indicando con le dita tremanti un punto a destra dello scenario. 
Alec. Era braccato da ben due zombie, che utilizzavano i loro artigli per graffiarlo e tentare di affettarlo a metà. Lui rispondeva roteando con una rapidità quasi sovrumana la sua affidabile spada che mirava a scalfire la viscida e smunta carne delle creature.
«Non lasciarlo morire, ti prego.», mi supplicò Cate, tenendo gli occhi piantati su di lui.
L’ambiziosa autrice di libri si era per caso invaghita dello spadaccino che la sognava ad occhi aperti? Se non fossi stata in battaglia, sarei rimasta piuttosto compiaciuta dalla sua reazione. Tutto ciò che però la mia mente riuscì a metabolizzare in quel momento fu che uno dei miei pochi amici era in pericolo. Estrassi una freccia senza indugio e la scoccai. Centro.
Alec si voltò e sorrise con malizia, probabilmente consapevole di avere un angelo custode tra gli alberi. Saltai goffamente dal ramo ed esortai Catherine a seguire il mio esempio. Sebbene l’esitazione iniziale, Cate ce la fece e insieme raggiungemmo Alec, che nel frattempo aveva ucciso l’altro zombie.
Appena ci vide arrivare, Alec ci elargì un ampio sorriso che, se avesse potuto, avrebbe rischiarato i raggi solari. «Siete vive entrambe.»
La sua voce trasudava un tale sollievo che mi fu impossibile non accorrere ad abbracciarlo. Lui mantenne lo sguardo inchiodato su Cate, che cominciò a sentirsi a disagio, credo, data la colorazione rosea sulle sue guance.
«Dov’è Abraham?», chiesi impulsivamente, senza riflettere sulle conseguenze di quella domanda.
Alec mi fissò, perplesso. «Lui ed i più esperti sono andati a prendere la dinamite.»
Chiaro. Chi, se non lui, sarebbe stato idoneo ad un compito del genere? Dinamite. Volevano farli esplodere? Evidentemente. Magari avrebbe persino funzionato.
Gli zombie notarono il nostro gruppetto in disparte, e ci raggiunsero in un istante, con i risi malefici e voraci. Alec si lanciò senza indugio su uno dei tre, prendendolo a stoccate in ogni angolo che riusciva a raggiungere. Rubai uno dei coltelli a Cate in fretta e furia e mi avventai su uno degli altri, menando fendenti mirati al suo cuore di mostro. Lui schivò il colpo e cercò di far leva sugli artigli per tagliarmi a fette, tuttavia fui più rapida e riuscii a ferirlo al ventre mentre s’innalzava per contrattaccare. Si piegò un attimo, tentando di risanare il taglio che non appariva per nulla lieve, e con un colpo ben assestato gli trapassai il petto scarno. Diedi un’occhiata a Cate: sebbene incerta sulle proprie mosse, se la stava cavando ad evitare gli attacchi del suo zombie. Con un paio di coltellate mie e sue, il mostro era andato. Caput.
Gli altri zombie rappresentarono una sfida più ardua. Iniziavo ad essere affaticata, e la mia vista ne risentiva: menavo fendenti casuali di qua e di là, dovunque trovassi squame albine, tuttavia non riuscivo più a mettere a fuoco o avere una visuale dettagliata della situazione. Cate diventava un’eco sempre più soffusa in mezzo agli starnazzi e alle urla della battaglia,  che sbiadiva dei suoi colori sino a tornare grigiastra, mentre mi chiamava a gran voce. Stavo sprofondando sotto le grida dei miei vecchi incubi.
I tuoi genitori, almeno, sono morti combattendo. Odiavo Annette? Oh, sì. Desideravo vederla sulla forca. Erano davvero morti, loro? Sapevo che i miei genitori anteponevano la Causa al resto, e si sarebbero sacrificati volentieri per proteggerLa ad ogni costo. Altroché. Era tipico della mia famiglia, il sacrificio: solamente io sembravo incarnare l’eccezione alla regola. Egoista. Le loro facce rotearono, nella mia mente, e le schermaglie delle ombre mi impedirono di recuperarle dall’oblio. Era ormai impossibile, destreggiarmi fra le fiamme che consumavano la mia carne rendendola il nulla: la cosa bella era che presto sarei svanita anche io nell’oblio. Magari li avrei rivisti nell’aldilà, splendenti del valore che non era mai scemato via dalle loro anime.
Morti. Morti. Morti.
La vista, già velata, mi si appannò completamente ed i miei arti si arresero alla sconfitta conclusiva. E così sarebbe andata a finire così. La giovane e pavida rampolla dei Darcy, Mackenzie, annegata nelle tenebre e rassegnata al destino della catastrofe. Osservai la lama di mercurio scendere verso la mia pelle, letale e inesorabile, portando con sé il buio.
Qualcuno, però, s’interpose fra me ed il colpo di grazia, come accadeva sovente nei film. Un impeto di animo mi suggerì il nome del mio salvatore: Abraham Taylor, a cui poco prima avevo donato tutta me stessa e tutti i miei segreti. Abraham. Volevo urlargli tutto il mio amore e la mia gratitudine per avermi recuperato dalle fiamme tutte le volte che mi ero perduta fra esse. Tuttavia, lì davanti non c’era né Bram, né Alec, né Cate.
C’era Dalilah Evers, piuttosto, che aveva una lama avvelenata conficcata nello stomaco. Un fiotto di sangue le uscì dalle labbra, proprio nell’istante in cui il grido esplose nella mia gola. Caddi in ginocchio ed il suo corpo si afflosciò esanime fra le mie braccia.
«Lila.» fu tutto ciò che riuscii a farfugliare mentre con le mani cercavo di estrarle l’arma dal ventre. Lei mi fissò intensamente come se vedesse di più in me, come se vedesse oltre.
«Puoi salvarci, tu.» replicò debolmente, appena prima che i suoi occhi si abbandonassero alla danza delle nubi.
L’urlo mi morì in gola, mentre Dalilah, ormai pallida come la neve, si librava in altri posti, in altri sogni. Una lacrima di shock mi attraversò velocemente il viso e s’infranse sul cadavere della ragazza.
Mi alzai, ormai senza più tenere a freno le emozioni che provavo, e con scatti iracondi feci fuori gli zombie che zoppicavano verso di me e verso il corpo ancora intatto ai miei piedi. Ero posseduta da un ardore tutto nuovo, implacabile e inarrestabili: attinsi ad ogni briciola di coraggio per proteggere il cadavere di Lila dalle oscure profanazioni dei mostri.
I tuoi genitori, almeno, sono morti combattendo. La lama del mio coltello cadde a terra emettendo un suono metallico e sordo.
“La balestra è larma di chi non teme la morte, figlia mia”. Avevo afferrato una balestra per la prima volta alla tenera età di cinque anni, centrando il mio primo bersaglio. 
“Noi Darcy abbiamo laudacia nelle vene”. Mio padre mi aveva insegnato come maneggiarla e come evitare attacchi alle spalle nemici.
“Sii il simbolo della Rivoluzione, una guerriera con la balestra che protegge gli innocenti e condanna i peccatori”. Ero ancora una bambina e lidea di diventare una guerriera mi allettava anziché spaventarmi. Gioivo a quel punto, sfoderando i sorrisi più caldi della mia vita mentre nuovi sogni dorati e limpidi illanguidivano le mie notti dinfanzia. Mio padre mi augurava la buonanotte con tre baci sulla fronte, perle di un pegno daffetto che non sarebbe mai scomparso; mia madre rimboccando amorevolmente le coperte regalandomi sorrisi veri ‒ ormai so distinguerli ‒ e insieme, con le dita intrecciate, lasciavano la mia stanza. La balestra, sulla scrivania, brillava di luce.
Afferrai l’estremità dell’arma e scoccai le frecce in tre direzioni imprecisate. Centro. Sorrisi vittoriosi, mentre riprovavo e vincevo: la bolla del mio mondo di bambina era ancora intatta. Controllai di eventuali avversari alle mie spalle, poi colpii. Di nuovo, e ancora.
Diedi una mano a Alec e Cate, mentre si lanciavano sui loro nemici e li polverizzavano insieme. Una bella coppietta, non cè che dire. I loro movimenti erano sincronizzati, armoniosi e combinati come in una danza da combattimento. Spesso si guardavano con intesa, senza alcuna parola, e si capivano al volo riguardo le mosse da tentare. Complementari. Cate era la parte aggraziata e strategica; Alec quella aggressiva e intuitiva.
Uno degli zombie placcò Cate e cercò di afferrarla per la vita: io e Alec agimmo contemporaneamente, io con una freccia nel ventre e lui con profondi fendenti.
Forse anche io avevo la capacità di proteggere qualcuno, mi dissi. Forse potevo compiere qualche azione buona prima di andarmene; forse potevo riportare dignità anche sul mio nome infangato di viltà. Altre frecce andarono a segno, distruggendo vari mostri.
Cate e Alec esultarono abbracciandosi come se fossero amici intimi anziché conoscersi ufficialmente da poche ore. La Guerra.
Una sagoma brillò in mezzo all’oscurità e, quando la riconobbi, il mio cuore saltò un paio di battiti. Abraham. Corsi senza esitare verso di lui e mi gettai sul suo corpo pieno di polvere e cicatrici che si offriva al mio abbraccio. I suoi occhi catturarono i miei  ‒ non avrebbe dovuto lasciarli mai più ‒ e recepirono il messaggio che urlavano: sei vivo.
Ci fissammo a lungo, senza parlare, mentre la Guerra infuriava e noi eravamo soltanto residui intatti della sua devastazione apocalittica.
I suoi capelli corvini erano un po’ bruciacchiati, aveva un brutto taglio sullo zigomo e il suo volto era madido di sudore e cenere. Passai le dita sul suo volto, bramosa, e gli tolsi lo strato di fuliggine sulla fronte. Non era mai stato così bello come in quel momento, reduce della Guerra, che l’aveva marchiato con le sue fiamme oscure.
Mi afferrò la mano e la strinse delicatamente, cingendola poi con le dita. Lo sguardo non si spostò dal mio di un centimetro. Le sue intenzioni erano ovvie: quello era potenzialmente un addio. I suoi occhi si fusero con i miei per un attimo interminabile e frastornante, poi mi aiutò a rialzarmi e ci annunciò: «La dinamite è pronta. Quando i traditori dell’Élite saranno tutti dentro la casa, la faremo esplodere. Non entrateci. Chiaro?».
Ci fissò ed esitai solo per percepire i suoi occhi su di me, ancora.
I suoi compagni però lo chiamarono e lui, dopo aver distolto i suoi occhi tempestosi e articolato un saluto spezzato, scomparve nella nebbia della battaglia.
Mi voltai verso Alec e Cate, rifiutandomi di considerarlo un addio, e ci accingemmo a proseguire la nostra impresa. Il numero di zombie ancora in vita, che prima appariva stratosferico, era adesso esiguo ‒ anche se maggiore di quello degli umani. Mucchi di cenere sottile adornavano i cadaveri umani che giacevano per terra, testimoniando uno dei presagi irreversibili della guerra: la morte, che abbracciava indiscriminatamente guerrieri appartenenti ad ognuna delle fazioni.
Non riuscivo più ad identificare il cadavere di Lila in mezzo a quella carneficina. Soffocai di nuovo l’urlo che non avevo liberato prima e che era tornato ad assillare le mie tonsille.
Alec mi prese per mano e mi rassicurò, con un sorriso gracile e triste che però mi destò dal mio tormento. Cate ammutolì e osservò la scena in silenzio, con le braccia incrociate: avrei potuto giurare di aver visto una piccola scintilla di gelosia nei suoi occhi glaciali, prima che li piantasse verso l’orizzonte.
«Forse dovremmo muoverci.» mormorò, accarezzando l’elsa del suo pugnale per stringerla poi con prepotenza.
Scambiai un’occhiata con Alec, che era interdetto e pure smarrito nell’ondeggiare soave dei suoi capelli scuri mentre ci voltava le spalle per fronteggiare i nemici.
Accorta del loro ritorno, rimasi indietro, nascondendomi dietro il tronco di un acero. Attesi che i mostri si facessero avanti e attaccassero Cate e Alec ma non accadde.
Successe in un frammento di secondo. Uno zombie comparve da dietro e raggiunse la schiena di Catherine, alzando gli artigli che luccicarono nel buio che lo accompagnava. Un istante dopo, Cate rotolava sul pavimento, Alec era a terra in preda alle convulsioni e lo zombie, abilmente colpito da una delle mie frecce, si era volatilizzato nel nulla.
Mi fu necessario soltanto un attimo per capire cosa fosse accaduto: Alec Hershey aveva sacrificato se stesso per Cate Blair. Gli artigli, ancora conficcati nella carne di Alec, tremolavano alla luce del sole mentre zampilli di sangue fuoriuscivano dalla ferita e violavano le pietre, impregnandole della loro amarezza.
Catherine, ancora buttata a terra, era in preda ai singhiozzi e alle urla nere, mentre l’ennesima speranza di una vita futura si sbriciolava insieme all’animo di Alec.
Quanto a me, ero ancora nel mio rifugio, indenne fuori ma non dentro. Osservavo la scena attentamente e un’altra scheggia di vetro ferì quella sfera densa di ombre che ormai mi rimpiazzava il cuore. Non un respiro, non una lacrima. Niente.
Ormai eravamo soltanto io e la Guerra, in attesa di altre prove da affrontare. Il sorriso di Alec, che era solito illuminare le mie fioche giornate ed orientarle verso l’onore e la giustizia, era svanito diventando una cupa memoria.
Probabilmente la mia mente aveva cominciato a sostituire il cieco dolore per l’assenza di Marguerite con la gioia per la viva presenza di Alec; probabilmente, priva di ognuno dei miei vecchi valori e ridotta ormai ad un’anima smarrita fra le fiamme nere, mi ero appigliata a quel sorriso redentore; probabilmente era stato Alec a mantenermi in vita, regalandomi quel poco di luce necessaria ad andare avanti e a trovare un po’ di bontà nel mondo crudele che entrambi avevamo assaggiato a nostre spese; probabilmente Alec, che splendeva di candore e innocenza, mi aveva sostenuto durante la mia Conversione ed era per questo motivo che mi ero così affezionata a lui.
Fatto stava che lui non c’era più. Dentro di me, echeggiava il silenzio di un santuario dimenticato.
In quell’istante, la Speranza andò in frantumi e l’ombra ricominciò ad impadronirsi di me, poco a poco. Non raggiunsi il cadavere di Alec e non gli riservai alcun saluto: me ne andai, ormai segnata dall’opaca tenebra con cui mi ero confrontata. Lasciai i superstiti lì ad affrontarsi tra di loro per la contesa finale e rientrai nella casa maledetta, impaziente che la mia maledizione svanisse, anch’essa, tra le fiamme nere.
 
 
Annette Rockefeller non aveva il sorriso di Alec Hershey ma una versione macabra e ripugnante. Mi scatenò repulsione istantanea non appena lo percepii nell’oscurità che le aleggiava intorno. Sembrava una creatura demoniaca, una figlia di Lucifero che brancolava nelle tenebre fiammeggianti. Il fuoco nero, che era una mia pavida illusione, divampava crudelmente intorno a lei, fondendola a sé e separandola perfino dalla più tenue delle luci.
«Chi non muore si rivede, piccola Mackenzie.», sibilò con cattiveria. La sua voce parve una melodia vibrante, sussurrata, di smisurata profondità, come se riecheggiasse dalle più cupe catacombe dell’aldilà.
«È proprio il caso di dirlo.» le risposi, ostentando sicurezza. Una sicurezza che non mi era mai appartenuta e che non lo sarebbe mai stata fino al momento del giudizio.
«Hai combattuto.» mi fece notare, con lo sguardo livido di odio. «Sei stata brava, te lo concedo. Hai adottato una causa e hai continuato a difenderla. Non me lo sarei mai aspettata, da te.»
«Neanche io.»
Furono le parole che elaborai nel cervello e che tuttavia non vennero pronunciate dalle mie labbra. Mi voltai e la vidi, là, una sagoma di oscurità al pari della sorella. Christopher era una proiezione accecata di emozioni avvelenate e di innumerevoli menzogne che aveva abilmente taciuto per buona parte della sua esistenza. Se prima somigliava ad un angelo, adesso si era ridotto all’esatto contrario: non aveva la potenza adeguata per rifulgere di aura demoniaca ed era soltanto un suddito dell’oscurità, seguace di una causa che non gli apparteneva e a cui aveva aderito soltanto per attenuare rimorso e nostalgia. Per allontanarsi definitivamente dalla luce che lo aveva condotto da me.
Constatai disgustata che eravamo simili, in questo: avevamo adottato le cause di qualcun altro e le avevamo combattute per soddisfare le aspettative di chi aveva riposto fiducia in noi.
Christopher non sorrideva: il suo sguardo era sempre quello distante e malinconico di quando ci eravamo congedati. La differenza più rilevante era quella relativa al suo aspetto: se prima custodiva un briciolo di amor proprio, ora era scomparso insieme alla sua dignità. I suoi capelli erano arruffati, sudici e flosci, gli indumenti parecchio trasandati e la sua pelle cadaverica: uno schiavo spettrale delle tenebre.
«Vedi, Mackenzie? Neanche il tuo vecchio e grande amore crede più nelle tue finzioni paradossali.», rise Annette, sprezzante. Sembrava che riversasse su di me tutto il rancore che serbava per il fratellastro che aveva osato disonorarla amando la sua acerrima nemica. Avanzò di un passo verso di me, uscendo dalla sua tremolante ombra e mostrando il volto: una maschera febbricitante di odio e risentimento, guidata ormai dal Male che aveva fatto di lei la sua infernale pedina.
«Non ho avuto bisogno di fingere per portarmi a letto tuo fratello, Annette. Già mi sbavava ai piedi da anni. Se solo tu te ne fossi accorta prima...peccato che tu fossi impegnata nei letti  di politici che non ti hanno mai sostenuto, come una qualsiasi lurida prostituta che non riceve denaro.» le dissi, stringendo i denti e fremendo di un’ira di cui non conoscevo le origini ma che iniziava a corrodermi fatalmente lo stomaco.
Annette s’incupì brevemente, poi scintillò di crudeltà: «Di cosa ti meravigli, piccola Mackenzie? È la storia di ogni nobildonna dell’Élite. Perfino di tua madre, in caso tu te lo chiedessi. Soltanto tu, giovane fanciulla colma di candore e purezza, ti sei salvata dal brutale destino che era in agguato. Ammirevole. Tuttavia nel frattempo ti sei dilettata sulle lenzuola di mio fratello, che non ha mai ceduto alle tue fragili illusioni e che ha continuato ad appoggiare fermamente la famiglia piuttosto che la sgualdrina che gli si offriva così languidamente.»
Christopher non reagì: sul viso, aveva dipinto il ritratto dell’infelicità. Mi incuriosì la faccenda e mi domandai cosa continuasse a tormentarlo dopo tutto questo tempo, ma non ero più nelle facoltà di esigere un responso. Pensai ad Abraham e alle tante risposte che avevo ricevuto in una sola notte, e che non bastavano ‒ eravamo diventati avidi collezionisti dell’oltre e delle sue sconfinate sfumature.
Quando frequentavo Chris, invece, avevo accantonato ogni genere di quesito: eravamo stati due codardi, che avevano preferito rimandare categoricamente il giorno in cui avrebbero dovuto fare i conti con i propri mondi piuttosto che affrontarli o cercare una potenziale soluzione alla moltitudine di problemi.
Abraham. In quell’istante, compresi il motivo per cui mi ero così facilmente donata a lui. Non c’entrava il bisogno carnale e animalesco che mi aveva tanto preoccupata, bensì era stata la mia anima a reclamare la sua. Le parole che avevo detto per sedurlo e per trascinarlo da me erano assurdamente reali: marchiata da diniego e avarizia, la mia anima aveva disperatamente ricercato la sua via di fuga, la redenzione che entrambe avevamo ambito da così tanto tempo. Essa era arrivata ascoltando il racconto di Abraham e la sua storia densa di dolore, un dolore che si era protratto per troppo tempo e che doveva volgere al termine. Per la prima volta nella vita, ero stata mossa dalla compassione che mi aveva portato a riflettere sul suo accaduto e a dargli conforto. La mia esigenza, invece, era stata quella di cercare un portale che mi guidasse altrove: il vicolo cieco e oscuro del mio passato era stato soppiantato da un labirinto ricco di spiragli di luce e di sentieri abbagliati dal sole.
Finalmente, avevo ritrovato il mondo perduto dei sogni.
«Non che tuo fratello fosse così bravo, a letto. Non ci sapeva fare. Dovresti sperimentare tu stessa: hai molta più esperienza di me.»
Questo bastò a farla accendere di rabbia. «Piccola sguattera, come osi? Tu poi, tu che ti sei scopata mio fratello per un anno e oltre!».
Scattò in avanti, con gli occhi fuori dalle orbite e traboccanti di ira, tuttavia Christopher la bloccò. «Ferma, Annette. Non tu. Devo farlo io.», borbottò, con voce roca e laconica.
Chris mi fissò, sempre con i suoi occhi malinconici, e si fece avanti, passo dopo passo. La sua marcia fu lenta, leggiadra e mite, un po’ come lui. Non era turbato da ciò che stava per fare: la vacuità dei suoi occhi spiritati non pareva essersi smossa di un millimetro dal giorno della mia fuga. Quando mi fu abbastanza vicino, sfoderò un pugnale dall’elsa luccicante di rubini e lo accarezzò come aveva fatto Cate prima. Non oserà farlo.
E, di fatti, Christopher non lo fece: mi guardò, borbottò un labiale «Perdonami, Kenzie» che potrei essermi benissimo immaginata e si piantò la lama nel petto, all’altezza del cuore. Prevedibile. Non mi sortì alcun effetto, se non un vago senso di rammarico: avrei dovuto farlo io e non lui. Chris era morto da tempo: quella era un clone privo di anima che lo aveva solamente rimpiazzato temporaneamente, prima di gettarsi nell’oblio anch’esso. Era inevitabile, quel destino.
Annette fissò il corpo del fratello con autentico disgusto nello sguardo, poi scoppiò a ridere come una pazza. «Un fratellastro bastardo e traditore di cui nessuno sentirà la mancanza: era l’ora che si togliesse di mezzo. Rovinava la propaganda della nostra famiglia: non so se hai avuto il piacere di vedere lo stemma dei Rockefeller, dinastia suprema dell’Élite da oggi. Gli zombie hanno acconsentito a prendersi buona parte del mondo, e a lasciare intatta quella oltre la Barriera. So che avrai intuito che c’è una zona protetta al di fuori dell’Europa: è lì che io e la mia famiglia ci trasferiremo, seguiti dall’Élite, non appena ti avrò fatto fuori.»
Nei suoi occhi brillò una folle luce omicida, che mi convinse a tentare di temporeggiare. Dopotutto, Abraham e gli altri, se non erano morti, stavano preparando la dinamite. Dovevo soltanto intrattenerla mentre loro pianificavano una tattica al fine di far esplodere l’edificio della zona 11.
«Posso avere il piacere di sapere il motivo di codesto rancore nei miei confronti, Annette? Le nostre famiglie sono in guerra da anni, eppure tra i tuoi fratelli sei l’unica ad odiarmi così tanto.»
Lei sfoderò un sorriso risentito: «Sono la primogenita, Darcy. Da me ci si aspetta un comportamento di un certo livello ma sotto molti punti di vista ho fallito. Uno di questi sei tu: piuttosto che escogitare cospirazioni al fine di ucciderti, ti ho lasciato in vita. Ti ho ammirato ‒ e sputacchiò la parola come se avesse ingerito veleno. ‒ e mi ripetevo che forse tu non fossi l’antagonista della mia storia. C’erano questioni molto più serie da affrontare: gli zombie, fuggiti dai laboratori dell’Arizona in cui la NASA li studiava, avevano invaso la Terra e i Rockefeller erano una delle poche famiglie prescelte per chiudere i conflitti una volta per tutte. Lo dissi a mio padre e lui mi rise in faccia, dicendomi: “Bambina, sei proprio sciocca: gli zombie possono anche distruggere il pianeta. L’unico modo per salvarci è prendere in mano le redini dell’Élite. Solo così potremmo proteggere i nostri cari, sebbene tutta la Terra sia invece destinata ad un esito differente.” Non gli credetti subito, ingenua com’ero, ma con l’aumento delle devastazioni mi convinsi che aveva ragione e che era compito mio distruggerti per sempre.»
Pronunciate quelle fatali parole, la voce di Annette tremolò e si spense. Le palpebre dei suoi occhi dapprima incendiati di prepotenza e furia fremettero e per un attimo Annette Rockefeller sembrò tornare umana. L’intervallo durò una manciata di secondi prima che il Male tornasse a possederla e ad ossessionarla con la sua vorace brama.
«Potevamo diventare amiche, Annette.», farfugliai, quasi incapace di credere alla mia stessa frase. Tuttavia, nonostante fossi un’anima frantumata tra odio e amore, dovevo ammettere che avrebbe potuto essere la realtà, in un mondo parallelo. Io e Annette, eccetto che per la fazione scelta, non eravamo poi tanto diverse: avevamo scelto sentieri comuni prima dell’età adulta ed eravamo state costrette entrambe ad adeguarci alla complessa società aristocratica, tessuta strategicamente da cospiratori e usurpatori che attendevano nell’ombra di approfittare delle vulnerabilità degli avversari.
Annette era molto più intrepida e metodica di me in merito alla politica: probabilmente il padre le aveva trasmesso i geni del carisma e della razionalità, che mancavano invece a me.
Lei scoppiò a ridere di gusto come se avessi appena fatto una battuta divertente. «Diamine, se esageri, Mackenzie! Non ho mai espresso il desiderio di avere come amica una subdola troia che mi ha rubato l’onore e si è portata a letto mio fratello allo scopo di manipolarlo. Continuerò a detestarti con tutta me stessa per il resto della mia vita: siamo agli antipodi di una guerra che non avrà vincitori, tuttavia ho una voglia matta di infilzarti la testa con una spada e di assistere alla strage sanguinaria che si scatenerà quando gli zombie scivoleranno sul tuo corpo per divorarlo fino all’ultimo brandello, magari scoprendo il sangue di traditrice che ti scorre nelle vene...»
Invasa dalla sorda e cieca rabbia che mi attanagliava da prima, afferrai la balestra ed incoccai la freccia.
Annette mi fissò come se, una volta tanto, l’avessi sconvolta. Stupefatta, spalancò le iridi di zaffiro e deglutì. Si ricompose in fretta optando per una smorfia indignata. «Dovevo aspettarmelo. Non hai ancora perso le vecchie abitudini, vero? Hai sempre l’ossessione degli attacchi a sorpresa. Non si fa così, sgualdrina.»
La freccia tremava tra le mie mani che la tendevano riversandovi tutti i dubbi e tutta l’angoscia. Avevo già ucciso, e poco fa: perché esitare, allora? Era vero, non avevo mai  ucciso esseri umani, bensì soltanto zombie assetati di sangue. Annette somigliava tuttavia più ad un demone: con i riflessi rosso sangue dei capelli, i denti piccoli e aguzzi ben digrignati, la pelle nivea che rammentava il marmo di una scultura arcaica ed i lineamenti deturpati dal Male che l’aveva assalita. Lei intanto mi contemplava e mi scherniva, ripetendo che non avevo fegato e che ero vigliacca, che lei aveva il coraggio di porre fine alla mia esistenza ed io invece mi corrucciavo perché fingevo di essere una persona innocente ingannando il prossimo. Disse che suo fratello l’aveva delusa, più che per il tradimento, per il cattivo gusto in fatto di ragazze. Disse che la mia viltà sarebbe perita nel rogo insieme a me. Continuò con i suoi perpetui anatemi, assuefatta delle ombre che la attorniavano e che parevano plasmarsi in incubi corporei. Compresi che stavo annegando sempre più nei diabolici tranelli del Male, ed avevo la possibilità di redimermi.
Quella era l’occasione per liberarmi una volta per tutte dai demoni e dalle fiamme nere che infestavano le mie notti. Senza più indugiare, sottrassi la presa e scoccai la freccia dritta verso la sua testa.
 
 
Fu l’errore più grosso della mia vita, sfidarLo con tale sfrontatezza. Il Destino non era né un demone come Annette né un messia come Cristo: era un’entità incorporea che dirigeva ininterrottamente le vicissitudini di ogni cosa.
Il Destino non aveva previsto che io uccidessi Annette; e quindi non lo permise. Quella mattina, la freccia maledetta, compiuta un’ampia traiettoria curvilinea accompagnata dagli spiragli dei raggi di sole, si era stagliata sulla parete, al di sopra la testa della ragazza. Senza scalfirla.
Annette, invece di infuriarsi e contrattaccare, aveva riso più forte, continuando con il suo elenco infernale di maledizioni che intendeva scagliarmi immediatamente, in modo che soffrissi adeguatamente prima della morte. Annette era una convinta sostenitrice della meritocrazia, pur intesa in un modo tutto suo.
Io, sconvolta, riflettei attentamente, interrogandomi su quale fosse stato il mio sbaglio in quell’azione impulsiva. Di solito non sbagliavo mai la mira, soprattutto con la balestra. Cosera andato storto?
L’illuminazione, degna di una filosofia approfondita sulla psiche umana, arrivò improvvisa e rivelatrice, mozzandomi il respiro. Escludendo la qualità della mira, c’erano altre ragioni per cui potevo aver fallito. Io non ero il Destino e non avevo alcun diritto di decretare giustizia o meno: solo Lui ne era in grado. Avevo sbagliato a scoccare quella freccia perché Annette non era altro che il mio incubo, il complesso dei demoni che custodivo nel mio inconscio e che non potevo sconfiggere definitivamente. Sarebbe tornata ad infestare le mie notti, nonostante le mie proteste. Li avrebbe assaliti con ogni fiamma cui fosse riuscita ad attingere, lambendoli di terrore e di oscurità. Mi sarei svegliata di soprassalto, da ora in poi, senza le rassicurazioni di Church. E, dedussi, senza il tepore delle carezze di Bram.
Avevo sbagliato a scoccare quella freccia perché il mio cuore era nel frattempo smarrito nel limbo fra amore e odio, senza più trovare i limiti e l’equilibrio di cui si alimentava l’anima: io ero sia bianco che nero, corrosa dal veleno dell’incertezza e dalla maledizione degli incubi. Non ero né Bene né Male bensì una pedina che, come tante altre, si era ritrovata sepolta nei meandri della Guerra senza che ne avessi mai assaporato le sensazioni. Avevo dovuto affidarmi all’istinto per orientarmi in quel campo in cui non ero affatto ferrata, e l’istinto era il vice del Fato.
Puoi salvarci, tu. Lila aveva visto in me la discordia fra i due estremi, che nel loro eterno tormento trovavano un intreccio logico e armonico, tipico della specie umana.
Lila aveva affidato le sorti non alla Bontà, ma al Destino. Si era rivolta a me poiché ero in quel momento tramite di una delle voci dell’oracolo.
Lila aveva riposto la sua fiducia nei piani escogitati dal Fato, come se soltanto quell’Intelligenza potesse rimediare alle sorti apocalittiche in cui era precipitata la Terra.
Tutta l’Apocalisse non era stata altro che l’immensa scacchiera di cui disponeva Lui, che aveva provveduto a porre degli esiti alla Guerra.
Lila si era sacrificata nel nome del Destino, convinta seguace della sua dottrina schematica e ultraterrena. Il mondo è come una spirale che si prolunga in eterno: i suoi rami ellittici non sono altro che le parole e le gesta di noi umani, inevitabilmente connesse fra loro.
Avevo sbagliato a scoccare quella freccia perché i Demoni non sono destinati a morire ma a rinascere nei vividi ricordi dei bambini per spazzar via i sogni dal loro naturale corso come una pioggia autunnale che soppianta la tiepida brezza estiva. Così come avevano assillato le mie notti da bambina, erano Destinati a farlo per il resto della mia vita, fiamme danzanti d’oscurità che ognuno di noi possedeva.
Avevo sbagliato a scoccare quella freccia poiché le fiamme nere, che divampavano sin dal momento della mia nascita, non si sarebbero mai esaurite. Potevo tentare di affrontarle dirimpetto ma avrei perso sempre perché dense di tutto ciò che avevo da temere del mio mondo. Si trattava di incubi plasmati delle mie fobie e di segreti mai confessati, creati dalla mia stessa mente. Era categoricamente impossibile vincere su di essi e spegnerli per sempre.  Il fuoco nero non aveva nulla da temere: sarebbe sopravvissuto in tutti i cuori, in tutte le anime umane.
L’unico modo in cui avrei potuto combatterlo sarebbe stato ostacolarlo per mezzo dell’intercessione del Destino.
La mia volontà, per quanto ardita, non sarebbe mai bastata a determinare da sola una conclusione.
C’era Qualcosa, lassù, che si intrometteva nelle nostre guerre e nelle nostre vite, senza chiedere il permesso. Otteneva il primato divino senza pretenderlo: lo aveva e basta.
Cominciai a crederCi, quando fallii miseramente con quella freccia. Mi accasciai sul pavimento, finalmente devastata di tutto, e urlai reclamando tutta la mia voce, esausta del peso degli incubi che mi schernivano e mi pungevano senza pietà, come mostri silenti incarnati nella realtà. La frustrazione sfociò tutta nel crollo emotivo che mi tolse ogni forza. Ero umana. Ero la viva preda di sogni ed incubi che non sarebbero mai svaniti. Ero preda della Vita.
Annette, intanto, si crogiolava nella sua meschina ed effimera vittoria ‒ l’aver sconfitto me ‒ : la bellezza sensuale che l’aveva sempre caratterizzata era stata del tutto guastata dall’avvento dell’oscurità sul suo corpo e sulla sua anima.
Annegava nel compiacimento di chi è stato graziato da un fato spaventoso mentre io, nel mio poco sconfitta, graffiavo la terra con le unghie e mi arrendevo all’inesorabilità della vita, rivedendo gli spettri animati dei miei genitori, di Alec, di Lila, di Church, di Terence. Morti. Morti.
Abraham. Un’irresistibile eco superstite della Guerra, sogno luminoso sulla cima di una montagna, che sembrava tuttavia irraggiungibile. Hai già assaporato il tuo Paradiso, Mackenzie, non puoi averne ancora.
Il mio corpo, spezzato dagli errori e dalla follia degli incubi, lo voleva. Lo voleva ancora, e oltre. Ambiva sentirsi infallibile, inattaccabile, invincibile. Anelava la sensazione della luce sulla pelle, della virtù che mi carezzava i pori e mi marchiava con le sue fiamme candide e gentili. Desiderava l’amore e tutte le altre cose belle, nonostante non potessi più averle.
La mia ultima preghiera da viva fu per Abraham e per il suo futuro. Mi auguravo che trovasse Sarah ed Eleazar, oltre la Barriera, e che formassero insieme una famiglia. Se la meritava, lui: anche il Destino, nel suo fatale distacco, avrebbe concordato. Doveva farlo.
L’esplosione sopraggiunse d’improvviso, e mi reclamò impetuosamente, strappandomi dal pavimento ed inondandomi di calore, sempre di più, molto più del limite umano. Divenni una sorta di supernova incandescente: i miei pori esplosero e il mio cuore palpitò furiosamente fino alla fine, fino a quanto poté. Dovevo rendermene merito: il mio cuore, a differenza della mia anima, aveva lottato fino alla fine, sfidando apertamente le fiamme nere che lo minacciavano.
I battiti si interruppero quando il calore si affievolì e non fui altro che uno spettro proiettato nella realtà metafisica. Osservai il mio corpo abbandonato sulla Terra, appena prima che le ustioni lo carpissero: capelli color biondo cenere, occhi color lapislazzuli, pelle nivea e labbra carnose. Ne avevo nostalgia: era grazie ad esso che avevo potuto appartenere totalmente ad Abraham. Era grazie ad esso che avevo potuto vivere.
Annette morì nel bel mezzo delle sue risate folli. Una morte indolore: più di ciò che si meritasse.
Mentre viaggiavo con la mente, sbirciai e osservai Abraham, in tenuta da guerriero, che attendeva qualcuno sulla soglia della porta della zona 11. Non sarebbe arrivato nessuno, però.
Fu in quel momento che m’immersi volutamente nelle fiamme ottenebrate, abbracciandole per una volta come se fossero vecchie amiche.
 
 
La Guerra era una ladra di sogni.
Li spiava da lontano, protetta dalla sua corazza di diamante e assuefatta di anime umane, e li rubava alla gente che le andava incontro. Se ne nutriva fin quanto riusciva e li abbandonava , in attesa che qualcun altro li cogliesse di nuovo.
I sogni non svanivano mai.
   
 
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